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E' giusto tacere che Hamas è il legittimo rappresentante del popolo palestinese?

di Claudio Moffa - 31/12/2008

Fonte: claudiomoffa


 

Nel mondo arabo e islamico la protesta si è fatta sentire a tutti i livelli, la Libia che si astiene all’ONU su una risoluzione di mediazione fra Hamas e Israele, le manifestazioni popolari in molte capitali del Medio Oriente, le dichiarazioni di Hezbollah in Libano su una possibile nuova guerra contro Israele, probabile deterrente contro la minaccia di Tel Aviv di continuare la mattanza con un intervento terrestre a Gaza.

In Italia invece, il pur encomiabile sforzo di alcune organizzazioni pro palestinesi ha prodotto una mobilitazione almeno per ora molto limitata. Molto limitata in rapporto non tanto a quelle del Vicino Oriente – fatto ovvio e scontato – quanto alla storia del movimento per la pace dalla svolta del secolo ad oggi, e in particolare a due date che ne hanno segnato positivamente l’avvio dopo l’11 settembre: quella della manifestazione pro palestinese che sfilò dal Circo Massimo a Piazza Navona nel febbraio o marzo 2002, 200.000 persone circa; e quella del 22 o 23 marzo del 2003, giorno dell’oceanico assemblamento di più di 1 milione di persone a San Giovanni in Roma, poche ore dopo l’attacco anglo-americano all’Iraq.

Da allora il movimento di solidarietà con i paesi e i popoli arabi minacciati dalle guerre imperialiste e sioniste, ha cominciato a declinare inesorabilmente e servono a ben poco i giudizi autoconsolatori del Forum Palestina e di Sergio Cararo sul presunto “successo” della mobilitazione alla Fiera del Libro di qualche mese fa. Altro che successo, anche quella manifestazione è stato il segnale di una crisi profonda, proprio in una fase in cui – dalla distruzione dell’Iraq baatista alla guerra genocida del Libano, al disumano embargo di Gaza – l’aggressività dello Stato d’Israele e del suo principale alleato in Occidente – gli Stati Uniti– si è fatta sentire con una violenza mai conosciuta prima d’ora.

I tre discorsi mancati

Come mai l’arretramento? I motivi di ordine teorico sono articolabili in tre capitoli essenziali: il primo è il rifiuto della sinistra estrema di impostare la mobilitazione contro le guerre di Israele come un momento di lotta trasversale-interclassista per la democrazia interna e internazionale – secondo i grandi principi della decolonizzazione, evento storico progressivo oggi disprezzato praticamente e teoricamente dalla cultura e dalla politica dominanti - e nella conseguente fuga “in avanti”, che in realtà rischia di essere una forma di sostanziale opportunismo e subalternità al nemico dichiarato, in formule e strategie ultrarivoluzionarie. Meno Marx, più diritto internazionale, questa dovrebbe essere la linea da seguire ma che nei fatti è stata negata: il prezzo è stata la perdita – nonostante gli orrori di Abu Ghraib e il linciaggio criminale del Presidente Saddam Hussein - del 90 per cento e passa, dell’oceano di popolo di San Giovanni. Certo, ogni movimento di massa ha il suo inevitabile riflusso, ma come pensare di coordinare e guidare il variegato mondo pacifista attorno a slogan marxisti leninisti iperideologizzati?

Il secondo difetto consiste in un’ossessione laicista che impedisce di nuovo ogni contatto con il nuovo Medio Oriente “postbipolare”, segnato da una religiosità talvolta inaccettabile per le forme di integralismo che esprime e per gli episodi di intolleranza contro le donne, ma anche unica vera leva ideologica – in un Medio Oriente in cui storicamente, per colpa anche di Stalin, il marxismo è stato spesso un filone occidentalizzante e proccidentale - per contrastare l’offensiva dell’imperialismo e del sionismo. Anche in questo caso il primitivismo politico sostituisce la politica: Stalin per esempio, sostenne la guerriglia afghana contro l’imperialismo inglese, una resistenza assai più retriva dei talebani odierni, e un imperialismo britannico di cui Marx aveva esaltato le "sorti progressive" nella confinante colonia indiana. La sinistra “rivoluzionaria” e “marxista” respinge di fatto ogni vero contatto con un movimento di liberazione nazionale come Hamas e permette che al suo interno, contro questo baluardo essenziale della resistenza palestinese al sionismo, si levino voci che definire di “dissenso” è solo un eufemismo.

Terzo capitolo, il rifiuto ostinato a considerare il sionismo come un fenomeno globale che da una parte riguarda non solo i palestinesi ma il pianeta intero, e dall’altra si nuove secondo una strategia a sua volta globale e inclusiva di temi e argomenti che solo apparentemente sono altra cosa dai suoi interessi ultranazionalisti in Medio Oriente. Metto subito i piedi nel piatto di questa commedia un po’ schizofrenica, con un irriverente esempio: atto primo, in una scuola italiana viene nientemeno che sospeso e fatto oggetto di un esposto alla polizia un insegnante – cattolico, non di estrema destra - che aveva osato esprimersi in Consiglio di classe contro la verità ufficiale del cosiddetto “Olocausto”: nessuno a sinistra fa una minima inchiesta per indagare come stanno i fatti, al di là delle veline ufficiali. Tutti zitti, ammutoliti dal sacrilegio compiuto dal bravo professore. Atto secondo: sull’onda della gran cagnara sul rischio “antisemita”, in diverse scuole italiane viene organizzato poco dopo un ciclo di conferenze su Israele. Organizzatori e docenti sono quasi tutti ebrei. Non ci sarà probabilmente dibattito.

Posto che ci sia stata qualche protesta contro questa iniziativa propagandistica, come non ricollegare quel che l’oltranzismo sionista sicuramente collega scientemente e calcolatamente, e cioè l’episodio numero uno con l’episodio numero due? Non c’è bisogno di citare Norman Finkelstein e l’industria dell’olocausto per capire il rapporto causa-effetto. Basta un po’ di buon senso politico. Ma questo banale buon senso scompare quando i “marxisti” devono affrontare il terreno del cosiddetto Olocausto: i “rivoluzionari” lamentano che tutti i negazionisti sono “nazisti” (?), ma evitano di fare in prima persona la verifica della verità ufficiale, tanto per capire ad esempio se il sionismo non rubi attraverso il dogma dell’Olocausto la scena a Stalingrado, cioè a loro stessi, nella ricostruzione storica del conflitto mondiale; o se il clima piagnone di Auschwitz non abbia trasformato la stessa Resistenza europea e italiana da un movimento di liberazione a un evento tribale degno di essere commemorato solo attraverso il vittimismo della storiografia concentrazionaria. Per questa via i cervelli rivoluzionari si lobotomizzano, e non elaborano e non capiscono più nemmeno le trame interne ed esterne più o meno recenti: l’11 settembre per esempio, le grandi manovre mediatiche attorno a l’Onda studentesca, o più in generale l’attestarsi del sionismo secondo i livelli delle realtà e movimenti da infiltrare. “Comunisti” con i comunisti, “Fascisti” con i fascisti, “liberali” con i liberali, “berlusconiani” con i berlusconiani, “laici” e magari ultras dell’ateismo con i laici, "cristiani" con i cristiani, “islamici” con gli “islamici”, filonazisti con gli ultras di destra. Tutti diversi a polemizzare l’un contro l’altro; tutti uniti a difendere Israele, dal livello massimo possibile – l’unica “vera” democrazia in Medio Oriente – alla contestualizzazione da “assedio” islamico, all’orgogliosamente “rivoluzionario” e “laico” “né-né”, all'esaltazione destrorsa della "superiorità" razziale degli ebrei rispetto ai "pezzenti" arabi.

Alcuni esempi concreti

Queste tre contraddizioni teoriche – la ricerca dei propri simili “marxisti” e “laici” in un Vicino Oriente che non è né marxista né (soprattutto dopo l’assassinio di Saddam Hussein) laico; e il rifiuto di comprendere il carattere globale e onnipervasivo del sionismo - accomunano tutte o quasi le anime della sinistra estrema italiana: così Ferrero, il cui imprinting anche valdese fa pensare a un eccesso di sensibilità per la “causa” di Israele, si è recato in Palestina poche ore prima dell’attacco a Gaza ma ha incontrato solo Abu Mazen e le organizzazioni della sinistra marxista, giammai gli integralisti di Hamas. Ferrero ha voluto parlare anche a una donna-simbolo delle angherie sioniste contro i palestinesi, privata della sua casa dalle autorità razziste dello Statoebraico: ma quella donna è simbolo di cosa, se non del popolo palestinese, il popolo che ha eletto Hamas come suo legittimo rappresentante nelle elezioni del 2006? E allora perché Ferrero non ha incontrato Hamas, e non ha detto a chiare lettere nel suo comunicato di condanna dell’aggressione israeliana che Hamas non è solo il nemico con cui di fatto bisogna trattare (questo lo ammette anche Frattini), ma anche il governo legittimo della Palestina occupata, reso tale da un voto plebiscitario riconosciuto come libero e onesto da tutta la comunità internazionale? Il governo che non a caso Israele vuole eliminare, perché non prono ai suoi voleri come Abu Mazen e buona parte di Al Fatah?

Dentro Rifondazione c’è poi l’Ernesto, la “sinistra” del PRC erede del gruppo Interstampa dei tempi dello scontro fra Berlinguer e Cossutta: una voce diversa sul piano della lotta contro le guerre di Israele in Medio Oriente? Impossibile, fra i suoi principali dirigenti c’è infatti Alberto Burgio, il sionista firmatario di un appello della Comunità ebraica italiana contro le Università inglesi favorevoli al boicottaggio dei prodotti israeliani: è lui il “comunista” che Liberazione di Sansonetti ha presentato settimane fa come alternativo ad un'altra voce moderata del nuovo PRC postbertinottiano. La punta di diamante, insomma, del gruppo di Grassi e Giannini, una sorta di Travaglio in salsa “marxista leninista” (ai tempi di Bertinotti Burgio fu infatti eletto responsabile della giustizia italiana) utile a contrastare l’egemonia del “troskista” Ferrero: quale sia il prezzo da pagare per il passepartout mediatico-poltronista Burgio è presto detto: si potranno fare comunicati un po’ diversi, mormorare una tantum che Hamas è il legittimo rappresentante del popolo palestinese, ma non sarà mai possibile costruire una rete di alleanze politiche con le vere vittime e i veri nemici del bellicismo israeliano in Medio Oriente. O Burgio o Hamas; o Burgio o Hezbollah; o Burgio o la difesa dei sacrosanti diritti dell’Iran a sviluppare il nucleare civile. O Burgio o quello che un tempo si chiamava internazionalismo. Anche il “marxismo” de l’Ernesto – un nome un po’ curioso per una corrente “stalinista” - diventa così la foglia di fico di un sostanziale equilibrismo che rischia di danneggiare, nelle debite proporzioni, la causa arabo-palestinese.

Legati all’Ernesto ci sono poi Radio Citta Aperta – diventata in pratica la radio del PRC a Roma sotto la direzione di Marco Santopadre – e il Forum Palestina: anche qui il discorso è lo stesso, tanto “marxismo”, tanto “laicismo” antiintegralista sono andati di pari passo con l’incapacità di fatto di ampliare e rafforzare l’esperienza della manifestazione del 2002 prima ricordata, fino alla manifestazione alla Fiera del Libro. Tre-quattromila persone – ad essere ottimisti – che gridavano slogan “rivoluzionari” come “Palestina rossa”. “Palestina rossa”? Non è bastata la bella favola del “Cile rosso”? Per ora invero, l’unico rosso che si riesce a vedere in Palestina è quello del sangue dei palestinesi. Inutile dire che per questa via il Forum Palestina se la dice e se la canta: nessun aggancio ai movimenti cattolici, e a tutti coloro che da posizioni anche di centro o di centro destra (non era questo il lavoro un tempo encomiabile di Un ponte per…, la costruzione di una contro lobby in Parlamento?) possono essere recuperati a un fronte comune contro l’arroganza e il bellicismo di Israele.

I motivi di ordine pratico

Ma i condizionamenti teorici richiamano anche un motivo di ordine pratico: tutta la sinistra estrema è in effetti invischiata in una serie di legami economici e logistici che – non essendo mai stato costruito nel tempo alcun discorso veramente terzaforzista fra i due poli – la rendono prigioniera del solito ricatto “antisemita” del centrosinistra finanziario. Ieri, la lenta marcia di infiltrazione di militanti e giornalisti biforcuti nell’ancora vergine partito post-piccista, moneta di scambio per una maggiore visibilità mediatica e per qualche poltrona di più al governo, o negli equilibri interni fra correnti; oggi, la realtà consolidata della rete di finanziamenti a radio e iniziative culturali “marxiste”, da parte di giunte regionali o comunali del centrosinistra ufficiale a loro volta segnate dal marchio filoisraeliano della catena editoriale De Benedetti Caracciolo: basta una telefonata “anonima” e minacciosa a una radio privata, o un trafiletto su un giornale per far capire che “pe’ ccampa’ ” – sulla pelle dei palestinesi - si deve rigare dritto: come quella velenosa cronachetta di Repubblica sull’ultima manifestazione romana per la Palestina, in cui si annotava maliziosamente che gli “slogan antiisraeliani” erano saltati fuori dopo che si erano allontanati tre ex parlamentari del PDCI e del PRC. Vero, non vero? Sicuramente vero il messaggio occulto: cari ex deputati, se volete tornare in Parlamento dovete prendere le distanze. Fatelo e vi chiameremo subito a parlare dalla Tribuna televisiva ore 8-9 a.m. Siamo tutti progressisti, no?

Questa cappa soffocante non risparmia nessuno, e ben comprende ovviamente l’intellettualità “rivoluzionaria”. Cosicchè anche pubblicare un libro - per terminare con un altro esempio simbolo – richiede esercizi di equilibrismo faticosi: si dovrà insomma accoppiare al nome di qualche innominabile dirigente comunista quello accettabile e ben accetto di qualche marciatore “marxista” degli Israel Days di Giuliano Ferrara – per carità, lui sì, un vero rivoluzionario doc – per aprirsi la strada a utili recensioni sul Corriere della Sera. Premio alla fedeltà che non si offre invece ad altri che per esempio, sulla base di una nuova ricerca di archivio, hanno scoperto che – contro la letteratura e saggistica dominanti sull’argomento – l’ultima battaglia di Mattei fu contro Israele, poche settimane prima l’espulsione di Cefis e pochi mesi prima l’attentato mortale di Bascapé. Novità revisionistica, si direbbe, non indifferente ma sicuramente fastidiosa quasi quanto le tesi irriverenti sul caso Moro dell’ex Presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino.

Gli esempi potrebbero continuare, ma ci fermiamo qui per concludere con una sola annotazione: che, cioè, sarebbe ora di riflettere che un antifascismo incapace di ragionare sugli eventi storici e che fa del negazionismo olocaustico un mostro orripilante, e della decontestualizzazione pansiana un crimine orribile anziché una riedizione monca di quanto già sostenuto da Pavone circa il carattere di guerra civile della guerra di liberazione italiana del 43-45; un laicismo a metà, che non vuole vedere gli orrori e gli effetti perversi del dogma olocaustico sulla propria libertà d’azione militante; e un marxismo che crede di restar tale e “rivoluzionario” depennando dall’agenda dei suoi alleati movimenti come Hezbollah e Hamas, o uno stato sovrano come l’Iran di Ahmedimejad: questi antifascismo, laicismo e marxismo, rischiano di essere alla fin fine solo tre forme di opportunismo politico, un imbellettamento dei condizionamenti che si è costretti a subire giorno dopo giorno forse a proprio vantaggio immediato (la sopravvivenza politica), ma sicuramente a danno dei palestinesi e di chi è sotto il tallone di ferro del sionismo in Medio Oriente e nel mondo. Come uscire dall’impasse non so proprio – la situazione attuale è stata costruita in lunghi anni - ma che parlare del problema sia il solo modo per far tornare il movimento di solidarietà con i palestinesi e con i popoli ai livelli di qualche anno fa, questo è per me certezza assoluta.