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L'eredità di George W. Bush

di Sergio Romano - 07/01/2009

Il maggiore rammarico di George W. Bush, alla fine della sua presidenza, è di avere dato retta a chi gli garantiva la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa. Per il resto, tutto bene. È lieto di avere fatto la guerra afghana, di avere distrutto il tirannico regime di Saddam Hussein, di avere promosso l’allargamento della Nato al di là delle vecchie frontiere sovietiche, di avere rifiutato qualsiasi apertura verso l’Iran, di avere mantenuto in vita, anche dopo la malattia di Fidel Castro, l’embargo contro Cuba. Ed è convinto che i posteri riconosceranno i suoi meriti. Non credo che i posteri confermeranno il suo giudizio.
La guerra afghana è stata combattuta frettolosamente e fu concepita al Pentagono soltanto come un preludio a quella che i neoconservatori volevano fare all’Iraq. La guerra irachena fu decisa senza piani per il futuro, nella certezza che gli americani sarebbero stati accolti come liberatori e gli esuli avrebbero creato, non appena tornati in patria, la democrazia irachena. Le due guerre lasciano in eredità al successore di Bush due situazioni irrisolte, due regimi precari e una regione ancora più instabile di quanto fosse otto anni fa.
L’Iran è diventato, insieme alla Turchia, la maggiore potenza del Medio Oriente. Il conflitto tra sunniti e sciiti si è inasprito. L’alleato pachistano rischia di precipitare nella guerra civile. La questione palestinese è ancora una piaga aperta, capace d’infettare tutta la regione. Il Libano è stato salvato dall’intervento europeo.
Il presidente può certamente vantarsi di avere evitato ai suoi connazionali gli attentati terroristici da cui sono state colpite Spagna, Gran Bretagna e Turchia. Ma le due guerre incompiute della sua presidenza hanno creato un campo di battaglia in cui il fondamentalismo islamico ha potuto reclutare con maggiore successo i suoi militanti.
Su un altro fronte, quello dei rapporti con la Russia, Bush è riuscito a rendere teso e conflittuale un rapporto che fu per due anni, all’inizio del suo mandato, positivo e promettente.
Nell’asse ereditario di Bush i posteri e gli storici troveranno anche la crisi finanziaria e i suoi effetti mondiali. Non sono economista, ma ho l’impressione che le cose, per grandi linee, siano andate così. Quando presentò la sua candidatura alla presidenza, Bush si definì un «conservatore compassionevole» e dichiarò di volere creare per i suoi connazionali una «ownership society», una società in cui ogni americano sarebbe stato proprietario della sua casa. Ma volle diminuire le tasse e lasciò che l’obiettivo (una casa per tutti) venisse raggiunto con le acrobazie di un mercato finanziario che, grazie alle deregolamentazioni della sua presidenza, poté costruire su una palude di debiti la più alta e instabile piramide finanziaria della storia. Mentre gli americani compravano la loro casa con denaro non ancora guadagnato, l’America spendeva miliardi di dollari (3 trilioni secondo alcuni calcoli) per le sue guerre.
Poiché i grandi debitori sono molto più potenti degli onesti creditori, gli Stati Uniti hanno potuto finanziare i loro debiti con cartelle del tesoro che venivano comperate dalle tigri asiatiche e, in particolare, dalla Repubblica Popolare Cinese. Ma il denaro con cui la Cina acquistava i bond degli Usa proveniva dalle sue esportazioni verso il ricco mercato americano. Per molti anni il fluido dei finanziamenti e dei crediti ha continuato a circolare nelle tubature del sistema finanziario mondiale. Ora i rubinetti si stanno progressivamente chiudendo. Comincia, alla fine dell’era Bush, la grande siccità. Di questo, temo, parleranno i posteri.