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Salgàri, Sandokan e… la rivolta contro il mondo moderno

di Mario Grossi - 13/01/2009

 

 

 

 

In questi giorni di festa, mentre bivaccavo in libreria, sono stato sorpreso da mia moglie, immerso ne I Misteri della jungla nera di Emilio Salgàri [ nel ritratto sotto a destra], in un’edizione di Salani Editore riccamente illustrata. Mi ero incantato su una stampa che raffigura le incarnazioni di Visnù e sulle relative note dell’autore «le incarnazioni di Visnù sono ventuno. Nove sono state di già compiute; la decima, secondo gli indiani, deve accadere alla fine della età presente ed il dio comparirà sotto la figura di un cavallo con una sciabola in una zampa e uno scudo nell’altra,emilio-salgari_fondo-magazine e sotto questa terribile forma distruggerà tutti i malvagi: il sole e la luna si oscureranno, la terra tremerà, le stelle cadranno ed il Serpente Adissescien vomiterà tanto fuoco da abbruciare tutti i globi e tutte le creature».

 

 

Sta di fatto che a Natale me lo sono trovato sotto l’albero come regalo assai gradito, perché scartato in una serata, dove mi sono trovato circondato da parenti acquisiti di mia moglie ed altri sconosciuti di varia umanità che hanno passato la serata a mostrarsi i loro nuovi telefonini touchscreen multitasking e a parlar di macchine e denari. E cosa c’è di meglio di un fedele amico quando affronti nemici di tal fatta, in un territorio ostile? Così, in quella serata senza luna, l’ho utilizzato come stella polare per non perdermi.

 

 

Che cosa attira così violentemente a Salgàri è ciò che cercherò di raccontare per indurvi a leggerlo. Un buon motivo, per cominciare, è senza dubbio cancellare la spocchia di coloro che, osservandovi intenti alla lettura, increspano il sopracciglio e deformano l’angolo della bocca per dirvi, senza parole, che vi compatiscono visto che ancora leggete un autore per fanciulli. Strano modo di pensare. Scandalizzarsi perché un adulto legge un romanzo per ragazzi è come dire che i libri gialli debbano essere letti solo da poliziotti e delinquenti o che i Racconti di Padre Brown siano ad unico appannaggio dei preti, o che lo scandaloso Teleny, romanzo pornografico attribuito ad Oscar Wilde, possa essere apprezzato solo da Rocco Siffredi.

 

 

Ma naturalmente c’è molto altro che spinge a leggere Salgàri anche in età adulta ed io lo condenso in una sola frase: rivolta contro il mondo moderno. Rivolta che parte dalla lontana e vecchissima contrapposizione, che acquista toni da crociata, tra i lettori di Emilio Salgàri e quelli di Jules Verne [ nel ritratto sotto a sinistra], l’altro imprescindibile caposaldo della letteratura giovanile. Contrapposizione tra il popolare Salgàri ed il borghese Verne. Fin da piccolo sono stato tormentato da questa accusa: ami Salgàri allora sei un cialtrone. Cialtrone come i lettori di fumetti che bene si associano all’epopea salgariana, contrapposti ai lettori di saggi scientifici che si riconoscono in Verne. Molto più chic leggere Verne con la sua incrollabile fede nel progresso, nella sua indefessa esaltazione della tecnica. Per andare sulla Luna o al centro della terra o 20000 leghe sotto i mari si legge Verne e si venerano le sue stesse divinità, fatte di Nautilus ultraccessoriati, di professori che danno il “segnale della partenza“, di navicelle pronte a salpare per lo spazio. Ma per andare nell’unico posto verne_fondo-magazineche veramente vale la pena di visitare, al centro del cuore dell’uomo, bisogna affidarsi alla penna di Salgàri che configura con la sua retorica spesso popolaresca la via dei sentimenti che ivi albergano, con tutte le loro ombre.

 

 

Perché, a dispetto della prosa di Verne, sempre precisa, misurata, ineccepibile da un punto di vista scientifico e formale ma che non lascia spazio a nessuna fantasia, ti vincola alla realtà e ti schiavizza, la prosa di Salgàri, nel suo patchwork di parole esotiche che quasi mai definisce, si lascia andare a suoni che sembrano inconsulti ma che in realtà quasi onomatopeicamente ricostruiscono la scena senza necessità di scientismo, affidandosi al puro flusso sentimentale «in lontananza però, sulla fosca linea dell’orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall’aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola. Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorìo delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata». Attraverso il ghiribizzo retorico ridondante, al limite della prosa stracciona ed eccessiva degli ubriachi, fa vibrare corde viscerali, mentre Verne al più tocca le volute più superficiali del cervello. Salgàri, il notturno, attinge ai demoni più oscuri della psiche, Verne il diurno si rivolge alla coscienza cosciente della veglia. Salgàri è onirico, Verne è vigile.

 

 

Verne costruisce i suoi eroi secondo l’epopea decadente dell’odierno. I suoi sono eroi solitari, o meglio elevano il loro egoistico individualismo a regola di vita. Come leggere diversamente il cupo mondo sottomarino del Capitano Nemo, o il Professor Otto Lidenbrock di Viaggio al Centro della Terra o Phileas Fogg del Giro del Mondo in 80 giorni. Al più, alla maniera anglosassone, questi eroi modernisti hanno dei maggiordomi, dei luogotenenti, dei sottoposti cui affidare compiti di secondo piano.

 

 

L’eroe salgariano per eccellenza, Sandokan (lo stesso si potrebbe dire per il Corsaro Nero), è di tutt’altra pasta. Sandokan solo in apperenza è un eroe lineare alla ricerca del Bene e del suo regno usurpato. In lui alberga sempre anche un’anima oscura, irosa, pronta a travolgerlo. Quando Yanez gli ricorda il nome degli Inglesi, suoi avversari, Sandokan «fa un salto innanzi, colle labbra contratte pel furore… le mani raggrinzate come se stringessero delle armi. … Le sue labbra contratte, ritiratesi, mostrano i denti convulsamente stretti». La passione tenebrosa ed illimitata che gli agita il petto, erompe in attacchi isterici, in un totale sconvolgimento dei sensi. Così quando pensa a Marianna, la Perla di Labuan, «dalla cintura così stretta che una mano sarebbe bastata per circondarla” diventa “muto, anelante, madido di sudore». Un trasporto di amore folle e profondo che non trova riscontro nelle buone maniere dei personaggi di Verne.

 

 

Ma questa follia che alberga con gli altri sentimenti nel suo animo, che rischia di travolgerlo nel suo impeto selvaggio ed incontrollato, non riesce mai ad avere il sopravvento perché Sandokan, eroe antico ed antimoderno, non è solo. Guida una compagnia, di cui lui è capo indiscusso, di amici (camerati) che sono da lui stesso considerati fratelli, uniti da un unico destino.

 

 

Al suo fianco Yanez, il suo fratellino bianco, di origine spagnola, posato, ironico, scaltro, furbissimo nell’escogitare tranelli e in grado di incanalare la furia incontenibile della Tigre di Mompracem. E poi Tremal-Naik ed il fedele Kammamuri capaci di perseguire autonomamente i loro disegni, in sandokan_fondo-magazineuna trama che rende la combriccola compatta e unita fino alla morte nello scopo supremo: cacciare gli usurpatori inglesi condensati nella corrotta figura di James Brooke.

 

 

Salgàri confida nell’uomo, nel suo destino, nella sua forza, nei suoi sentimenti. Verne è appeso alla tecnica, sola brutale divinità che tutto annichilisce nell’essere umano, ridotto a suo schiavo o a sua appendice. Verne preannuncia il mondo che verrà (e che stiamo vivendo), Salgàri è un antico demone che lotta contro tutto questo. Verne è solipsismo moderno, Salgàri è Comunità antica!

 

 

E ancora, Verne che mai mette in dubbio la supremazia del mondo anglosassone, riconoscendogli questa supremazia tecnologica è l’esatto contraltare all’odio di Sandokan contro l’ipocrisia inglese che mi fa ricordare le magnifiche lezioni del mio professore di Storia del Liceo che ci raccontava della sua reclusione in un campo di prigionia per non collaboranti in Nord Africa e delle ipocrite angherie perpetrate dai paladini della democrazia d’oltremanica che, rispettosi della Convenzione di Ginevra che imponeva un minimo di calorie pro capite al giorno per i prigionieri, gli dispensavano come unica razione olio di palma, che gli  provocava dissenterie disastrose (ricordandogli l’olio di ricino usato in Italia goliardicamente con gli oppositori).

 

 

Insomma, la lettura di Salgàri, è anch’essa una rivolta contro ciò che Verne ha rappresentato e rappresenta, quel pensiero che ha fatto strame di tutta la sacralità del mondo e dell’animo umano spazzato via dalla cruda, fredda, anonima demonìa della tecnica e del mondo contemporaneo, fatto di quantità, numero e denaro.

 

 

È l’unico viaggio ancora incontaminato in continenti non colonizzati.

 

 

È un tuffo in quell’atlante geografico che ancora conservo nel soggiorno di casa appoggiato allo schienale di un divano. Un grande atlante che fu di mio nonno Evangelos, greco ed armatore, finito sul lastrico nell’ultima guerra per mano degli inglesi che gli bombardarono i magazzini di legname di Tripoli che andarono a fuoco mandando in fumo oltre al legno anche le sue fortune. E’ un atlante splendido e sorprendente, pubblicato a metà dell’Ottocento. Ogni volta che lo sfoglio mi soffermo a lungo sulla grande mappa dell’Africa che al centro ha un grande buco bianco. Un’enorme zona di cui sono tratteggiati solo i confini, testimonianza che all’epoca quelle terre ancora non erano state esplorate. Quel buco bianco nella mia mente si associa sempre a Emilio Salgàri e ai suoi romanzi. È la testimonianza che in un libro o meglio nel bianco delle sue pagine permangono ancora zone inesplorate che possono essere scoperte dal nostro libero vagare, anche in un mondo ormai completamente esplicito e che non ci riserva più niente. Perchè è meglio appunto immaginare terre inesplorate che si nascondono in quel buco bianco dell’atlante o sognare misteri e jungle nere con le parole di Salgàri «Di giorno, un silenzio gigantesco, funebre, che incute terrore ai più audaci, regna sovrano; di notte invece, è un frastuono orribile di urla, di ruggiti, di sibili e di fischi, che gela il sangue», piuttosto che cercarle (non le troveremmo) in quell’India che Salgàri non visitò mai, ma che a sua volta immaginò estraendola dai libri che andava leggendo nelle biblioteche di quella Torino che lo rifiutò e lo fece morire suicida in povertà, come  ci è testimoniato dalla lettera che lasciò ai suoi editori «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna».

 

 

Ma anche nell’ultimo gesto Salgàri ha lasciato ai suoi fedeli lettori un’ultimo romanzo e un’ultima rivolta. La mattina del 25 aprile del 1911 lascia sul tavolo tre lettere ed esce con un rasoio in tasca. A trovarlo per caso è una lavandaia. Ha la gola ed il ventre squarciati. In mano stringe ancora il rasoio. Si è ucciso come avrebbe potuto uccidersi uno dei suoi personaggi: facendo harakiri, con gli occhi rivolti al sole che si leva su quella Torino che si apriva alla novità letteraria e che non riuscì mai ad amare quest’ultimo romantico e roboante scrittore che, forse inconsapevolmente, si opponeva al nuovo che, di lì a poco, avrebbe travolto tutto trasformando per prima, proprio Torino che da patria misteriosa del magico e del fantastico si trasformò rapidamente nella patria dell’automobile e dell’industria.

 

 

La Tecnica aveva prevalso con il suo tallone di ferro!