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L'incolmabile scontentezza dell'essere

di Adriano Segatori - 22/01/2009

 

“La perfezione umana e il perfezionamento tecnico
non sono conciliabili. Se vogliamo l’una, bisogna
sacrificare l’altra; a questo punto le strade si separano.
Il perfezionamento mira al calcolabile,
e il perfetto all’incalcolabile”.1
Ernst Jünger

N on ci sono dubbi sul fatto che la nostra epoca sia più coinvolta nell’interesse alla corporeità di quanto lo siano mai stati i tempi passati. E non intendo parlare della cura come attività volta alla attenzione all’estetica, alla tutela dell’efficienza fisica, alla gestione del benessere corporeo, ma di quell’incentivo istituzionalizzato alla manipolazione attraverso le tecnologie più avanzate che finisce con l’alterazione completa dell’immagine di sé.
È antico il consiglio dei latini “Mens sana in corpore sano”, come altrettanto arcaici sono i reperti trovati nelle tombe egizie con tanto di beauty case con belletti di ogni genere e tipo; ma quegli strumenti di bellezza erano mezzi per conseguire intendimenti ben diversi da quelli attuali. Essi venivano usati per accentuare ciò che di bello era in natura, per accrescere una già presente armonia o, eventualmente, per attenuarne difetti e imperfezioni. Il “vedersi belli” era una modalità per “sentirsi bene”: bellezza e benessere, quindi, in una volontà di stare meglio con sé e con gli altri. L’attenzione verso il corpo si potrebbe dire scontata in ogni essere umano, perché è il corpo che dà l’avvio – e mantiene – il rapporto con il mondo. Un corpo immobile, isolato da ogni relazione, estraneo ad ogni coinvolgimento, incapace di sentire e di sentirsi, diventa un oggetto inerte, un meccanismo cosificato. Certo, per chi ci crede, c’è sempre un’anima di cui tenere conto, ma questa è un’argomentazione metafisica che trascina il corpo verso un’aspirazione diversa solo in coloro che sentono questa vocazione. Gli altri, comunque, sono focalizzati sulla componente materiale, appariscente, presentabile.
E come per le donne la cura del corpo era un procedimento di femminilizzazione,  per l’uomo diventava un processo di perfezionamento della forma maschile. Lo sport, tanto per intenderci, era innanzitutto una prova con se stessi, una modalità di entrare in un percorso magico attraverso la porta dell’agone, della prestazione atletica. Non sottovalutiamo, in questo caso la derivazione etimologica: agone come combattimento, da cui agonia, Todeskampf, lotta con la morte – quindi, con il limite stesso della vita. Il simbolo del corpo plastico, del corpo sportivo può essere indicato nel Discobolo di Mirone: esso rappresenta l’atleta nel momento in cui si tende al massimo, un attimo prima del lancio del disco; all’estrema tensione muscolare si contrappone una pressoché totale distensione del volto, una serenità che riporta al tempo classico “dell’azione come spirito e dello spirito come azione”2 , o più recentemente alle indicazioni di Mishima quando avverte che “senza un preliminare atto di culto, il corpo viene offerto all’asta infangato dallo spirito mercantile”3 .
Da una rinuncia del corpo, visto e considerato come la prigione dell’anima secondo Platone che dice: “Fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità”4, all’ambiguità del cristianesimo, che da un lato parla di immagine e somiglianza di Dio e dall’altro invoca la sua mortificazione con il cilicio, la penitenza, l’autopunizione, si è passati – nell’attualità desacralizzata e despiritualizzata – ad una corrispettiva esaltazione meccanicistica.
Come l’attività fisica agonistica è stata schiacciata dall’efficientismo del record e dal prestazionismo della tecnica, così l’attenzione al bello ha di molto superato i vincoli dettati dall’estetismo e dalla conformazione di natura per diventare una vera e propria procedura trasformativa. Non solo, quindi, un risultato ed una soluzione secondo la regola onnicomprensiva del cuique suum – a ciascuno il suo – ma una vera e propria azione prometeica di superamento di ogni limite e della stessa identità. Perché se è vero che gli interventi farmacologici sul corpo sportivo vengono richiesti e somministrati per motivi di risultato – il massimo è quello del body building che associa forma ed estetica – e sul corpo rappresentato quelli chirurgici sono voluti per ridurre inestetismi o togliere deformità, è altrettanto vero in molti casi che tali manovre alterano (volutamente) la stessa espressione e percezione di sé. A questo proposito basti ricordare due fenomeni: quello della richiesta di interventi plastici con il modello settorializzato ideale: i seni di x, il naso di y, gli zigomi di k, le orecchie di z, il sedere di j e via via elencando, e quello arrivato tempo fa alla cronaca con la richiesta di una ragazza di sedici anni, quale regalo per il suo compleanno (acconsentito), un intervento puramente estetico (senza alcuna motivazione di carattere patologico).
Questa epoca è caratterizzata dalla corporeità, ma malata, o comunque reificata a cosa modificabile in corso d’opera (leggi età). Una corsa affannosa non a migliorarsi, ma a cambiarsi, a rendersi appetibili secondo parametri di bellezza proposti dal marketing, secondo bisogni indotti e non filtrati dalla personalità e da una coscienza autonoma. A guardare il fenomeno con occhio più attento, dietro l’apparente vanità, c’è in realtà un bisogno di aiuto, come nel caso della moda dei piercing e dei tatuaggi. Sia nel caso della chirurgia estetica che in quello della moda dei timbri – come vengono definite in un certo gergo le iscrizioni sulla pelle – entra a pieno titolo il fattore tempo. Nel primo caso il rifiuto del tempo che passa, e che si manifesta con le macchie, le rughe ed altri segni cronologici, nel secondo il momento che deve essere reso eterno. A fronte di un attivismo consumistico che corrode lavoro e legami, tutti considerati precari, risolvibili ed intercambiabili, si avverte il bisogno di marcare il corpo con segni indelebili, per poi finire sui rotocalchi dei gossip a sentirsi chiedere: che ne pensa il nuovo compagno del tatuaggio col nome del suo ex all’inguine?
La mercificazione della modernità, con i suoi apparati meccanici e la sua mentalità materialista ha ridotto il corpo a Körper – per rifarci ad una termine della fenomenologia –: un semplice marchingegno da mantenere al massimo dell’efficienza, possibilmente sovraaccessoriarlo come le automobili di grido, magari – visto che non si può rottamarlo in toto – con saltuarie manutenzioni e restyling. L’altro aspetto del corpo – il Leib – quello esistenziale, quello della memoria familiare (ha il naso del papà, la bocca della mamma, le manine della nonna ecc.), quello dell’immagine dell’anima attraverso lo sguardo, quello che riconosce l’interiorità nel passaggio temporale, è stato espulso da ogni considerazione. È lo specchio il giudice della persona, una immagine riflessa che è sempre mediata da una considerazione inconscia, da una percezione che va ben oltre il perimetro della morfologia anatomica e che è la riproduzione mentale, psichica del nostro Io-corporeo (basti pensare alla grave problematica dell’arto fantasma).
È da qui, dalla psiche, dall’immagine che essa si costruisce del corpo, che bisogna partire per comprendere il sovrainvestimento che la nostra epoca fa del corpo e dei suoi accessori.

UNA SOSTITUZIONE INAPPLICABILE
“L’estetica degenera in sociologia
o fiorisce in religione”.5
Nicolás Gómez Dávila

Che si viva un tempo in cui l’idea di trascendenza ha perso quasi tutto il suo carattere di essenzialità, con lo scadimento dello spirito religioso e la pressante invadenza di pseudoreligiosità e di deviazioni spiritualiste, è un dato accertato. In alternativa, si assiste ad una sempre maggior pervasività delle procedure sociologiche e dei dispositivi gestionali, all’interno e per conto di apparati che pretendono di insegnare tutto ciò che è imparabile ma assolutamente non insegnabile: l’autostima, l’empatia, il senso della bellezza, il coraggio, l’equilibrio interiore, la comunicazione interpersonale ecc. Ciò che dovrebbe rifarsi all’esperienza di natura e a capacità innate è fatto rientrare nel campo dell’apprendimento, da cui le scuole di giornalismo, quelle artistiche, nonché quelle famigerate della gestione delle risorse umane: come se l’affettività, la sintonia, la sensibilità all’armonia, lo spirito letterario, il carisma fossero doti da trovare nei manuali didattici.
In questa degenerazione entra anche l’estetica che, come puntualizza Dávila in esergo, ha abbandonato il sacro convergere del bello e del buono platonico, per essere catturata dalla categorizzazione sociologica. Del resto, abitiamo tempi e luoghi privi di bellezza, anestetici – secondo l’intuizione di Hillman – cioè, etimologicamente parlando, privi di sentimento: da aisthánomai, sento; áisthçsis, sensazione. Non c’è più lo sforzo di percepire l’armonia delle differenze, ma anche la trasgressione è stata uniformizzata dalla moda. Basti pensare alla volontà di azzeramento del genere sessuale – un’aberrazione culturale inesistente in natura, secondo la concezione di Veronesi – e l’apologia dell’androgino. C’è una pubblicità precisa che tratta questa terza figura, con un certo compiacimento dell’indifferenziato.
Ma questo argomento è fuori tema – direbbe il mio vecchio maestro –, e allora torniamo al corpo.
La manipolazione, soprattutto chirurgica, interessa ampiamente anche l’uomo, e non solo più la vanità femminile. E allora, si chiede la sociologa Rossella Ghigi, siamo di fronte a pazienti o a consumatori?6  È questa la domanda che centra il fenomeno in esame, il quale, se non può essere fattivamente considerato di massa, è comunque entrato nell’immaginario e nel desiderio diffuso. Si sono spostate, in una certa misura, le motivazioni alla manomissione radicale del corpo: dall’evidenza patologica all’esigenza psicologica fino, in ultimo, alla voglia di perfezione e rifiuto del tempo. Entrano così in gioco tre componenti storico-sociali in questo cambiamento di prospettiva corporea, tre variabili variamente intersecantesi e – potremmo dire – in complice sinergia:  “la commercializzazione della medicina, il rapporto degli individui col corpo e il ruolo dei mass media nell’influenzare entrambi”7 . Per competenza specifica, possiamo pur tralasciare il primo e il terzo focalizzando l’attenzione sul secondo obiettivo, ma è comunque indispensabile un approccio critico globale che coinvolge quello che possiamo definire come Io-sociale. Perché se l’uomo e la donna contemporanei manifestano dei difetti   di consapevolezza e di equilibrio della propria interiorità, con l’ovvio e perdente tentativo di riparazione narcisistica di questo vuoto, è altresì vero che questa società induce, facilita e aggrava quella dissoluzione della personalità che poi si riversa esclusivamente nella ricerca di approvazione corporea.
Il tanto rivendicato laicismo, associato al pragmatismo funzionalistico e allo sfrenato ottimismo nel progresso materiale, ha da un lato propagandato una medicina salvifica e perfezionista in ogni ambito operativo, e dall’altro ha emancipato il singolo da qualsivoglia limite di natura, il tutto associato dall’estremizzazione economicista, che vuol dire anche mercificazione dell’uomo.
Ho parlato, a ragione, di desiderio istituzionalizzato e di estetica malata, nel senso che è lo stesso sistema tecno-economico a favorire un conformismo disidentitario, una ricerca di omologazione a canoni decisi da operazioni di marketing, fino “ad invertire i termini stessi di normalità e patologia”8 . In altri termini, la persona che accetta i segni del tempo, che vive serenamente con i suoi difetti fisici, che conduce una buona vita lavorativa e sociale nonostante le imperfezioni corporee viene fatta passare per una che si trascura, che non tiene al suo aspetto, che non è al passo coi tempi. Chi, invece, passa le giornate dall’estetista, scadenza gli anni sulle sedute chirurgiche, rincorre l’autostima sulla lama del bisturi, dimostra una attenzione accurata al suo apparire, un adeguato interesse alla presentazione relazionale, una sana premura alla sua esteriorità.
In questo senso, l’identità malata corrisponde specularmente – e in questo contesto l’aggettivo è volutamente mirato – alla società malata, ad un sistema svuotante e normalizzante che condiziona pesantemente la vita delle persone. È particolarmente grave – ed è purtroppo vero – constatare due condizioni presenti nella nostra quotidianità, e sottolineate dalla stessa Ghigi.
Innanzitutto il riconoscere che “per avere un buon lavoro non basta più essere efficienti e performanti, bisogna anche avere un’immagine adeguata e piacevole, che rimandi a un’idea di flessibilità alle situazioni”9 . Questa strumentalizzazione dell’uomo come lavoratore-mezzo, come attrezzo dell’organizzazione, è la dimostrazione del fallimento dell’idea progressista della tecnica e del capitale come agenti liberatori dell’individuo, e la trasformazione di questo in schiavo delle stesse sue istanze liberatorie, tanto da giungere ad una constatazione, che “il corpo della modernità è il corpo manageriale”10 . Altro che capriccio o rivendicazione di proprietà! Un corpo conformato in maniera più o meno subliminale alle richieste societarie e poi burocratizzato dagli iatromeccanici e, alla fine, dai tanatocrati del sistema.
Infine, il constatare l’estremizzazione narcisistica con un corpo perfezionato da rilanciare sul mercato “per raggiungere il successo sociale ed economico, oltre che un pieno benessere psichico”11 . Ed è proprio l’ultima illusione ad essere la prima a crollare di fronte all’ineluttabilità della natura. Perché, mentre il benessere psichico è un percorso autonomo e perfettibile per tappe comunque stabili una volta raggiunte, quello che si ottiene con la manipolazione estetica ed esteriore è sempre e comunque precario e dipendente dalla considerazione altrui. Credere alla possibilità di “un totale controllo dei codici della nostra visibilità anticipando ed eliminando tutte le possibili critiche che possono esserci rivolte dagli altri”12  è una operazione frustrante e candidata all’insuccesso sicuro, proprio in quanto “le critiche altrui diventano potenzialmente illimitate, e questo genera un’ansia che mal si combina alla nostra volontà di controllo”13 .
Per questi ed altri motivi ritengo questo sistema repellente – e il termine usato non è una voluta esagerazione. Perché se da un lato stimola false esigenze e false coscienze verso ideali fatui e opportunità finte, dall’altro fornisce a caro prezzo gli strumenti per affrontare gli stessi disturbi e le medesime angosce che ha generato. Un vuoto incolmabile che non potrà mai essere riempito con le proposte degli apparati preposti, e tutti – attori attivi e passivi – sono alla fine utilizzati dal sistema per la propria conferma.

 1 E. JÜNGER, Le api di vetro, trad. it., Guanda, Parma, 1993, p. 169.
 2 J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1998, p. 177.
 3 Y. MISHIMA, Lezioni spirituali per giovani samurai, trad. it., SE, Milano, 1987, p. 30.
 4 PLATONE, Fedone, trad. it., Bompiani, Milano, 2000, 66 b-67 a.
 5 N.G. DÁVILA, Pensieri antimoderni, trad. it., Edizioni di Ar, Padova, 2007, p. 46.
 6 Cfr. R. GHIGI, Per piacere, il Mulino, Bologna, 2008.
 7 Ivi, p. 143.
8 Ivi, p. 155. 
9 Ivi, p. 153.
10 Ivi, p. 83. 
11 Ivi, p. 54. 
12 Ivi, p. 144. 
13 Ivi, p. 145.