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Nella sera carica di pioggia il vento restituisce tutte le cose amate

di Francesco Lamendola - 28/01/2009


 

Sera d'inverno, luci tremolanti, raffiche di pioggia che corrono come onde sulla spiaggia.
Un profumo vasto, di cose buone, di vita che erompe trionfante, giunge da chissà dove, porta l'aria fresca della campagna fin dentro la città.
È incredibile che molte persone trovino triste un tempo simile, una serata come questa: per me, al contrario, essa rappresenta il massimo della bellezza, dell'esuberanza, della dolce, pensosa lontananza da cui veniamo e a cui siamo diretti.
Non conosco momenti più meravigliosi di queste sere umide d'inverno, inzuppate di pioggia e spazzate da un vento gagliardo, quando le luci tremolano incerte e si riflettono sul selciato bagnato, lucido e scintillante come se fosse nuovo.
Il mondo sembra più pulito, più carico di attesa e di speranza, più afferrato da mille presentimenti, da mille dolci ricordi del passato, dall'aura magica delle cose belle e mai dimenticate che tornano, in folla, a festeggiare la pioggia purificatrice.
Mille volti amati, mille luoghi vissuti, mille speranze di quando ogni cosa appariva immensa, smisurata, infinitamente affascinante, corrono portati dal vento e dalla pioggia, attraversano l'anima come un esercito vittorioso e trionfante.
Mai, come ora, si respira e si tocca quasi con mano il nostro legame profondo, indissolubile con tutti i tempi e con tutti i luoghi: con il passato che stringe la mano al futuro, con il qui che si dilata fino agli estremi confini del mondo e più oltre ancora, fino ai vertiginosi spazi siderali.
E questi platani, che fremono e sussurrano alla pioggia incessante, sono, ancora e sempre, quelli di allora; questi tetti lucidi d'acqua sono gli stessi di allora, di domani, di sempre; queste luci che si riflettono, guizzando e tremolando, nelle pozzanghere che sanno d'infinito, sono quelle che mi affascinavano fanciullo, cariche di remote seduzioni, di promesse di orizzonti spalancati, di indefiniti, meravigliose segreti, quasi sul punto di svelarsi…
E quell'ardente presentimento di una rivelazione imminente, quella struggente nostalgia di una patria mai del tutto dimenticata, sono ancora qui, freschi e vivi come allora: il tempo non è passati su di loro, sono ancor giovani e intatti come allora; nessuna delusione li ha fatti avvizzire, nessuna amarezza ha tarpato loro le ali.
Questa è la grandezza dell'uomo: la capacità dell'anima di rigenerarsi, di tornare a fiorire come la vegetazione, ad ogni nuova primavera; anzi: di non conoscere affatto la pausa invernale, di conservarsi sempre giovane e immacolata, sempre intatta e lucida di pioggia purificatrice, purché noi le restiamo sempre fedeli.
Chi perde i propri sogni, perde se stesso: così ammonisce un proverbio del popolo più antico del mondo, quello degli aborigeni australiani.
E chi perde i propri sogni, perde l'incanto del mondo; perde la propria anima. L'anima non può continuare a vivere, se smarrisce l'incanto del mondo: l'opacità e la stanchezza l'assalgono e la piegano, la gettano nel fango, la sporcano e la deformano senza pietà.
Non si può continuare a vivere così, con l'anima infangata, piegata e deformata: non sarebbe più un vivere, ma un sopravvivere.
Sopravvivere, significa vivere a metà; significa vivere essendo già mezzi morti, già sconfitti e rassegnati: privi, ormai, della luce insostituibile della speranza.

Ma questa sera carica d'inverno è ancora qui, con la sua pioggia incessante, con il vento e il fremito di cose nuove che l'attraversano in corsa pazza, come bimbi felici, spruzzandosi per gioco alla fontana.
Passeranno i giorni, i mesi e gli anni: e il capo si tingerà di grigio, le rughe stenderanno sul volto la loro trama sottile; ma l'anima, se rimarrà fedele a se stessa, non conoscerà vecchiaia, mai, fino all'ultimo giorno della sua vita terrena.
Fino all'ultimo giorno il vento di gennaio le porterà il profumo della campagna, e la pioggia della sera le parlerà dell'infanzia, dei sogni di allora; di cento e cento cose belle e serene, come la carezza di una mano amica sulla fronte.
Fino all'ultimo giorno, il fremere dei rami e il riflesso delle luci sulla strada le ricorderanno  quell'acuta, quella pungente nostalgia di un altrove pienamente pacificato, quella promessa indissolubile, che una voce misteriosa ha sussurrato accanto al letto, nel buio della stanza, già nei teneri anni dell'infanzia, e ancora tante volte ha ripetuto poi, sempre giovane e nuova.

Chi siamo? Dove andiamo? E perché?
Non lo sappiamo esattamente; sappiamo solo che qualcuno ci ha chiamati; che la nostra navicella si è staccata dalla riva per affrontare il respiro del mare aperto, con il sole e con la pioggia, nell'aria salsa degli orizzonti sconfinati; finché una riva sconosciuta, in lontananza, comincia a profilarsi nella foschia del tramonto.
E noi, un giorno, volgeremo il timone verso quella riva, con il cuore che batterà forte nell'attesa trepidante…

Il riflesso di una luce esterna proietta contro i vetri della stanza buia il ricamo elegante e delicato di rami che paiono infiniti, simmetrici nella loro misteriosa geometria; ed è anch'esso come un richiamo di vita e di splendore che giunge da indistinte lontananze, come un gioioso messaggero di pace e di armonia.
Attraverso la parete, le note di Bach si diffondono nell'aria e vibrano di una forza meravigliosa e regolare, impeccabili come la prospettiva una navata inondata di luce, suggestive come la vetrata multicolore di un rosone nella cattedrale gotica, quando un raggio di sole vi si posa e la incendia tutta, animandola di una vita multiforme, caleidoscopica.
Le note di Bach, amiche di sempre: talmente pure e soavi, talmente forti e armoniose, da stendere un magico tappeto verso l'infinito e da far sembrare piccole, di colpo, anche le cose che parevano più grandi; come quando, nelle fiabe, si legge di qualcuno che è portato per magia sulla cima di un monte, e vede spiegarsi ai suoi piedi tutti i regni della terra, fino all'ultimo orizzonte del mondo, là dove abbraccia il cielo…
Solo Bach possiede questo magico potere, di toglier via di colpo ogni patina di peso e di stanchezza, ogni residuo di tristezza e di disarmonia; soltanto la sua musica divina sa operare ogni volta, sull'istante, questo autentico miracolo, questo inesauribile prodigio: come il sorriso luminoso di un volto amato che, all'istante, disperde l'oscurità.
Attraverso le sue note, è Dio che parla all'anima dell'uomo. Sì, è Dio che si serve di queste prodigiose melodie per restituire a noi, quaggiù, il senso della bellezza, della speranza e dell'amore, quando vacilliamo sotto il peso degli affanni.
Non è una musica umana: è una irruzione d'infinito nel quotidiano, di eterno nell'ordinario; è una forza prodigiosa, che prende e afferra e trascina via con sé, trasformando in un inno di armonia suprema e di sublime rasserenamento tutto ciò che, nella vita, è imperfetto, inadeguato, incompleto e frammentato, riconducendolo a gioiosa unità.
Non era la mano di un semplice uomo a comporre quelle musiche sullo spartito, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno: era, per mezzo di una mano umana, la mano stessa di Dio, dell'Amore universale.
E così tutto, tutto parla dell'Essere, dell'Amore universale.
Tutto: anche gli oggetti più minuti, anche l'ultimo filo d'erba.
E così questi rami che si riflettono sui vetri della stanza buia, ricamando stupendi arabeschi nella notte.
Così questa pioggia di gennaio che cade e cade, simile alle onde del mare, e immerge le cose in un bagno rigeneratore di freschezza e di pulito.
Così questo vento virile dell'inverno, che ha già il sapore di una primavera ancor lontana, ma tuttavia sempre più vicina.
La bellezza è ovunque, che ci interpella e ci sorride: siamo noi che, tante volte, non la sappiamo vedere, né ascoltare, né odorare.

Questo è il segreto, questa è la formula magica per trasformare il dolore in serenità, la lacerazione in armonia, l'angoscia in dolcezza: fare di ogni cosa, di ogni istante, di ogni pensiero, un inno di lode e di ringraziamento verso l'Essere, un inno di amore per la vita.
Dipende solo da noi.
Possiamo soffermare lo sguardo sulle cose negative, aggrottare le ciglia e storcere la bocca in una piega amara; possiamo lamentarci di tutte le sfortune, le delusioni e le sconfitte; possiamo stordire la nostra inquietudine inseguendo mille cose vane, mille effimeri miraggi di felicità, mille tradimenti della nostra verità interiore.
Oppure possiamo alzare gli occhi dalla palude della frustrazione e della rabbia e levarli verso l'incanto delle infinite cose belle che ci circondano, ci avvolgono e ci fasciano come un bambino nella culla; che ci sussurrano parole di fede e di speranza; che ci spalancano orizzonti sconfinati, ove la nostra anima può respirare l'aria fresca e il vento maschio delle cime.
Possiamo atteggiarci a vittime, alzare lamenti come il cane che ulula alla luna, compiangendo il nostro misero destino di fragili mortali; oppure possiamo levare i nostri occhi al cielo ed esultare per tutta la forza, la bellezza e lo splendore che ci sono offerti in dono e che ci rendono più ricchi del più sfarzoso imperatore.
Tutto, tutto è motivo di estatica, stupita ammirazione nello spettacolo del mondo, per chi abbia occhi per vedere e un cuore capace di gioire.
Come recita il Libro della Sapienza (17, 17-18):

«Il sibilare del vento,
il canto melodioso di uccelli tra folti rami,
il mormorio di impetuosa acqua corrente,
il cupo fragore di rocce cadenti,
la corsa invisibile di animali imbizzarriti,
le urla di crudelissime belve ruggenti,
l'eco ripercossa dalle cavità dei monti
(…)
Tutto il mondo era illuminato di luce splendente…»

Tutto il mondo è illuminato di luce splendente, se l'anima sa farsi trasparente come il vetro, come l'acqua pura dei monti, per lasciarla filtrare e per sciogliersi in essa.
Come dice Bernanos, nel «Diario di un curato di campagna»: perché tutto è Grazia.