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L’America della crisi e lo specchio buio del ‘29

di Federico Rampini - 30/01/2009

      
 

 
 
Federico Rampini propone un confronto tra il contesto economico, politico e sociale che caratterizzò gli anni precedenti e successivi al crac del 1929 e il primo decennio del terzo millennio che ci ha portato alla crisi che viviamo in questi ultimi mesi.
Il periodo che va dalla fine della Prima guerra mondiale fino al crac del ‘29 fu contrassegnato negli Stati Uniti da un forte dinamismo economico e sociale stimolato da un diffuso sentimento di fiducia e ottimismo, che però sfociò nella ricerca di un eccesso di rischio. Rampini sottolinea come nel ‘29 gli USA fossero diventati i banchieri del mondo intero, ma a causa del protezionismo americano gli stati debitori non potevano restituire i prestiti tramite le esportazioni: così l’inaridirsi dei flussi di finanziamento provocarono l’immediata crisi internazionale. Oggi è la Cina la principale creditrice mondiale e, per Rampini, se non si risolve la precaria simbiosi cino-americana non si potrà uscire definitivamente dalla crisi attuale.

«La peggiore performance dell’indice Dow Jones durante un Inauguration Day, da quando quell’indice fu creato 124 anni fa». Con una punta di sgomento il Washington Post commentava così l’accoglienza riservata dalla Borsa a Barack Obama martedì scorso. Il presagio diventa sinistro quando si scopre a chi spetta la seconda peggiore performance della storia: fu il calo del Dow Jones che salutò il 4 marzo 1929 l’Inauguration Day di Herbert Hoover. Cioè il presidente che nell’autunno dello stesso anno sarebbe stato uno spettatore impotente di fronte al crac di Wall Street e all’inizio della Grande Depressione. Per chi crede ai segni del destino e ai ricorsi storici la coincidenza è funesta. Quanto dell’esperienza del 1929 rischia davvero di ripetersi ottant’anni dopo? Per capire cosa si è guastato nell’economia globale nel Ventunesimo secolo, rivisitare la più grave crisi del Novecento a caccia di analogie è un esercizio rivelatore.
Obama e Hoover sono ai due poli opposti nella storia degli Stati Uniti. Da una parte il giovane afroamericano portatore di una potente ventata di speranza nel cambiamento. Dall’altra un repubblicano conservatore e ultraliberista che con il suo dogmatico laissez-faire contribuì ad aggravare la crisi. Profondamente diverso è anche il contesto economico dell’insediamento. All’Inauguration Day di Obama l’America è arrivata avendo già alle spalle un anno di recessione, stremata e angosciata, consapevole delle terribili difficoltà che il neopresidente deve affrontare per rilanciare la crescita. Al contrario, Hoover ottant’anni fa a quest’epoca (quando mancano mesi al crollo autunnale) assapora gli ultimi fasti di un’epoca beata. All’inizio del ‘29 gli americani - con rare eccezioni di lucidità - sono ignari del disastro che incombe su di loro. È il culmine, il botto finale, nella folle e spensierata Età del Jazz: il periodo eccitante iniziato subito dopo la conclusione della Prima guerra mondiale. Un’epoca di cui oggi si ricordano soprattutto gli eccessi, ma che incarna anche un’energia modernista, creativa, trasgressiva. Le innovazioni tecnologiche come l’automobile e l’aeroplano, la radio e il telefono, si diffondono rapidamente. Il fiorire dell’Art Déco dà a New York e Chicago alcuni dei più bei grattacieli della storia. Nelle grandi metropoli la cultura tollerante migliora la vita delle minoranze, dai neri agli omosessuali. Le donne - almeno nei ceti benestanti - assaporano un assaggio della rivoluzione sessuale. [...]
Per l’élite colta invece quel sogno americano ha il suo interprete raffinato in Francis Scott Fitzgerald. L’autore più rappresentativo dell’Età del Jazz è sedotto dal mondo dei milionari, i suoi romanzi sono l’apoteosi di una fase di opulenza, il ritratto acuto del nuovo establishment capitalistico. Fra tutti spicca Il Grande Gatsby, personaggio circondato da un’aureola di seduzione e di mistero, il cui arricchimento troppo veloce ricorda le parabole effimere dei giovani banchieri d’affari nella New York del terzo millennio. Fitzgerald prova amore-odio per quella società del denaro, descrive i suoi fasti e ne coglie il decadimento morale. Nella tragedia finale del Grande Gatsby si congiungono i due elementi del sogno americano degli anni Venti: la fuga in avanti per emulare i costumi edonistici della élite dorata, e il presentimento di un disastro imminente [...].
Non è solo una ricchezza di carta, quella che regge il sistema fino alla vigilia del crac. Dietro il miracolo economico dell’America emergente c’è un modello avanzato, un’idea democratica del diritto universale al benessere. Detroit nel 1929 supera d’un balzo la soglia di produzione di cinque milioni di autovetture: dopo la Grande Depressione bisognerà aspettare il 1953 per tornare a quel livello. Henry Ford ha una visione sociale lungimirante, crea la prima industria di massa fondata su alti salari. Un principio del fordismo è che l’operaio deve poter comprare la stessa auto che produce. Ma nel frattempo la General Motors fonda la prima “banca dell’automobile”, la Gm Acceptance Corporation, diffonde gli acquisti rateali e il germe dell’indebitamento dei consumatori. Il diritto di ogni famiglia americana ad avere l’auto e il frigorifero, la radio e il fonografo prefigura quello che ottant’anni dopo sarà il meccanismo infernale del mutuo subprime: la promessa della casa per tutti, l’illusione di una Bengodi immobiliare fondata sui debiti.
Quando Hoover pronuncia il suo discorso d’insediamento, i più avvertiti hanno già smesso di credere a una prosperità senza fine. Il finanziere newyorchese Bernard Baruch scrive: «Acquistare a rate, puntando sulla propria capacità futura di ripagare una vita migliore, può essere saggio ma può anche essere spinto all’esagerazione. Abbiamo raggiunto l’esagerazione». [...] John Kenneth Galbraith individuerà nel saggio Il grande crollo le cause strutturali del crac. Quell’elenco è terribilmente attuale. «Primo: una distribuzione del reddito squilibrata. Nel 1929 i ricchi lo sono troppo. Il cinque per cento della popolazione con i redditi più alti controlla un terzo della ricchezza nazionale». Al secondo posto Galbraith mette l’eccessivo indebitamento delle grandi holding finanziarie, che crea il rischio di una brusca e distruttiva inversione dell’effetto-leva: è la liquidazione precipitosa di tutti gli attivi, che scatta quando le società sono costrette a rientrare dai loro debiti. È lo stesso meccanismo che dal 2007 a oggi alimenta la spirale delle crisi bancarie. Nel ricostruire le cause del crollo di ottant’anni fa Galbraith si sofferma su un precedente sconcertante. A metà degli anni Venti l’America aveva già subìto un assaggio micidiale degli eccessi speculativi, con la bolla immobiliare della Florida, una pazza corsa all’acquisto di terreni conclusa in un crollo dei prezzi. Un incidente non abbastanza traumatico, però, da “vaccinare” gli investitori in Borsa. Una sequenza simile accade ottant’anni dopo: la bolla della New Economy e il tracollo del Nasdaq (marzo 2000) in pochi anni sono cancellati da un’amnesia collettiva, la lezione è inutile. Inutili anche gli scandali Enron, Worldcom, Parmalat.
Gli anni Venti sono memorabili per la sregolatezza dei mercati in preda all’aggiotaggio. «Un gruppo d’investitori dotati di capitali sufficienti - racconta lo storico Eric Rauchway della University of California - poteva creare un “pool” con lo scopo esplicito di manipolare un titolo in Borsa. Succedeva di continuo ed era perfettamente legale. Il Wall Street Journal riportava informazioni quotidiane sulle manovre di questi fondi». Ottant’anni dopo il bubbone della malafinanza avrà le apparenze più sofisticate dei derivati, titoli-spezzatino, credit default swaps e altri titoli tossici. Il quadro non è migliorato: il dilagare dei conflitti d’interessi, le complicità fra banche d’investimento e agenzie di rating, la latitanza dei controlli, la passività degli organi di vigilanza. In comune gli anni dorati hanno il mood, quell’atmosfera che per Galbraith ebbe un ruolo decisivo negli anni Venti: «Ben più importante dei tassi d’interessi o del credito facile, è il clima psicologico. La speculazione su una dimensione così vasta richiede un diffuso sentimento di fiducia e di ottimismo, la convinzione che anche le persone normali siano destinate a diventare ricche».
Un’altra causa profonda del 1929 è negli squilibri internazionali. La Prima guerra mondiale ha lasciato l’Europa stremata dai debiti. Anche i vincitori come Inghilterra e Francia vivono di prestiti americani. Le condizioni della pace peggiorano il dissesto. L’economista britannico John Maynard Keynes è l’autore di un’implacabile requisitoria contro le clausole finanziarie del Trattato di Versailles. Le riparazioni di guerra impongono alla Germania oneri spaventosi, che travolgeranno la fragile democrazia della Repubblica di Weimar. In un mondo di debitori, l’America degli anni Venti è il banchiere universale, l’unico che finanzia le altre nazioni. Ma è un’America che sta già scegliendo la via del protezionismo, pratica alte barriere tariffarie. I suoi debitori sono stretti in una morsa: non possono venderle le merci essenziali per ripagare montagne di cambiali. Quando i flussi di finanziamenti americani s’interrompono, il mondo intero sprofonda di colpo nella recessione.
Otto decenni dopo le parti sono cambiate, i ruoli invertiti, e ci sono protagonisti nuovi. Gli squilibri sono altrettanto massicci. Stavolta è l’Asia - Cina in testa - a svolgere il ruolo di banchiere planetario. I titoli del debito pubblico americano vengono acquistati dalle banche centrali di Pechino e Tokyo. La Repubblica popolare cinese ha accumulato attivi commerciali verso il resto del mondo. Ma i suoi abitanti non consumano abbastanza, è difficile per l’America restituire i debiti esportando ai cinesi. La crescita mondiale nel primo scorcio del Ventunesimo secolo è stata consentita dalla simbiosi della coppia sino-americana, Chimerica. Il giacimento di risparmio cinese ha consentito alle famiglie americane di vivere al di sopra dei propri mezzi. Il consumismo americano ha alimentato il boom cinese. Anche se l’incidente che ha portato alla recessione globale è accaduto in Occidente, con il crollo del castello di carte dei mutui subprime, sullo sfondo c’è l’immensità degli squilibri fra le due sponde del Pacifico. La crescita non ripartirà senza un aggiustamento dei rispettivi ruoli dentro il binomio Chimerica. E se per la presidenza Obama vale il precedente del New Deal, è anche all’interno della società americana che ci sarà un cambiamento di ruoli e di prospettive. Eric Rauchway ricorda: «Tra i lasciti profondi della Grande Depressione e dell’epoca rooseveltiana ci fu questo: il ceto medio americano imparò a riconoscersi nell’insicurezza dei tanti meno fortunati, anziché identificarsi nella minoranza dei privilegiati».