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United Colors of President

di Giovanni Petrosillo - 05/02/2009

 

Non ci voleva la sfera di cristallo per vaticinare dove Obama sarebbe andato a parare.

Il primo presidente nero della storia degli States - nonostante gli squilli di tromba di tutti i sognatori ex hippies debosciati di sinistra, in preda alle convulsioni mistiche dopo l’annunciazione mediatica della riedificazione del sogno americano di cui Obama sarebbe sommo artefice - sta molto più prosaicamente tentando di traghettare gli Stati Uniti nella nuova fase multipolare, in seguito ai nefasti e agli errori strategico-militari dell’era Bush.

Quest’ultimo ha utilizzato a più riprese il big stick delle “percosse” imperiali per far valere le ragioni della superpotenza USA, con risultati tutto sommato assai modesti (Iraq, Afghanistan), mentre Obama mostra di prediligere la carrot policy, ma solo per meglio imbrigliare i propri alleati, in posizione costantemente subordinata, nella  ridefinizione dei progetti egemonici statunitensi.

Il neo Presidente è espressione di questo mutamento di strategia, voluto dagli strateghi Usa che devono ora ricorrere al soft power, concedendo in apparenza qualcosa in più ai propri partner internazionali, al solo fine di rallentare il processo di entrata nella fase policentrica e, soprattutto, in funzione di contenimento di quelle formazioni sociali che si stanno candidando a controbilanciare la predominanza dello Zio Sam nella riconfigurazione geopolitica mondiale.

Ciò non vuol dire che gli Usa abdicheranno al loro ruolo di gendarme planetario (l’uso della forza sarà mantenuto sullo sfondo e, di tanto in tanto, ripristinato come segnale d’avvertimento). Anzi, proprio per esercitare questo ruolo più proficuamente, nella mutata situazione dei rapporti di forza tra paesi, diviene indispensabile avviare una preventiva ricalibratura dei propri obiettivi egemonici, tornando a puntellare le zone d’influenza precedentemente conquistate e teatro di pericolose fibrillazioni.

Tutto ciò aumenta la commiserazione nei confronti di chi ha voluto vedere in Barack la reincarnazione del Reverendo King o di JFK. Ed, invece, ha ragione Marcello Foa che dalle pagine de Il Giornale paragona i primi passi politici di Obama a quelli del suo parente decaduto Tony Blair il quale, appena insediatosi, tra i cori soddisfatti dei progressisti che già immaginavano grandi e magnifiche sorti di rinascita, imbeccava la stampa per attuare misure antisociali, perseguite pari pari dai suoi avversari conservatori, molto prima di lui.

Diciamoci la verità, se Obama fosse nato in Italia sarebbe stato un Veltroni qualsiasi, se fosse nato in Spagna sarebbe stato uno Zapatero qualunque ecc. ecc. Ma, invece, è il primo cittadino americano e può permettersi di pensare (e di mentire) molto più in grande dei suoi fratelli un po’ sciocchi che abitano in Europa.

Del resto, come i suoi stuoini dabbene del Vecchio Continente, anche lui coltiva il vizio del trastullamento ideologico, con i grandi principi di libertà e di democrazia sempre portati in primo piano per coprire le spalle, in questo momento di crisi acuta e di transizione, ai poteri forti che lo hanno messo in sella e che lo sostengono con convinzione.

E poi, anche Obama comincia a fare esercizio di maanchismo, proprio come il suo “affiliato” scemo di casa nostra. Dice di aver emanato un decreto contro le «rendition» mentre, gratta gratta il provvedimento, viene fuori che si “auspica” solo il bandimento di tali pratiche;  dice di volersi disimpegnare da alcuni scenari di guerra (sento già i pacifisti che schiamazzano soddisfatti per aver trovato un nuovo vate) ma esclusivamente per aumentare la potenza di fuoco su quelli dove si gioca la vera partita strategica tra potenze in conflittualità crescente.

Ancora, Foa sostiene giustamente che: “Il cambiamento è innegabile e condizionerà positivamente la popolarità degli Usa nel mondo, tuttavia è prevalentemente di immagine...
La macchina della propaganda gira a mille, anche sul fronte interno. Dal nuovo presidente ci si aspettava una svolta moralizzatrice [di questa ne facciamo volentieri a meno, ndr], soprattutto contro la corruzione e l'influenza delle lobby. Bene, ma il sito Politico ha scoperto che ben dodici tra ministri e sottosegretari sono lobbisti, tra cui William Lynn, esponente dell'industria delle armi nominato numero due del Pentagono con l'incarico di... presiedere il comitato per l'acquisto degli armamenti. Il conflitto di interessi è colossale come lo era quello di alcuni esponenti della precedente amministrazione, ma, come Bush, Obama non si è ricreduto, confermando Lynn e gli altri undici apostoli. Si è indignato quando il New York Times ha pubblicato la notizia dei bonus da 18,5 miliardi di dollari incassati dalle banche salvate con i fondi pubblici e ha annunciato provvedimenti per scongiurare il ripetersi di episodi analoghi. Ma non ha nemmeno tentato di punire i manager ingordi, né di farsi restituire il maltolto. Chissà come mai...”

Come mai lo può percepire chiunque non abbia deciso di mandare il cervello all’ammasso, facendosi eventualmente accompagnare al manicomio da una struggente colonna sonora di Bruce Springsteen