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Serbia: il passato che non passa

di Stefano Vernole* - 05/02/2009





In questi giorni gli ambasciatori a Belgrado dei due Paesi che più hanno influito sulle vicende balcaniche degli ultimi anni, Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno ribadito come gli sforzi diplomatici della Serbia siano inutili: l’indipendenza del Kosovo è un fatto ormai acquisito.

Tanto più che la NATO ha dato il via all’addestramento in una base a Vushtrri del
nuovo esercito kosovaro, KSF, comandato come sempre da un ex UCK, Suleiman Selimi.
Si tratta dell’ennesima violazione della Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite e il Ministro degli Esteri, Vuk Jeremic, ha protestato, ma evidentemente nella “nuova Serbia democratica” si pensa ancora che il collaborazionismo con l’Occidente paghi e non sono state adottate rappresaglie significative.
Occidente che si dice molto “comprensivo”, però, per la posizione di Belgrado, la cui aspirazione a conservare la sovranità sul Kosovo e Metohija non deve pregiudicarne il cammino d’integrazione nell’Unione Europea.

Altra questione, invece, per quanto riguarda la consegna dei “criminali di guerra” serbi al Tribunale dell’Aja (in realtà ne mancano solo due, Ratko Mladic e Goran Hadzic, essendo stati gli altri tutti arrestati e deportati alla giustizia del Tribunale pagato da Soros), conditio sine qua non perché la Serbia entri a far parte della “grande famiglia europea” (e poco importa se Croazia e Bosnia non vengono ricattate in questo senso e i loro ricercati possono tranquillamente continuare a fare i latitanti, forse perché poi all’Aja vengono spesso assolti …).

Su questo aspetto Bruxelles non transige, per Javier Solana (che senza cambiare residenza è passato dal Quartier generale della NATO a quello per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione Europea …) chi ha osato sfidare l’Alleanza Atlantica durante la sua espansione ad Est negli anni Novanta non merita deroghe; è in particolare l’Olanda, memore della figura clownesca dei suoi soldati di “pace” a Srebrenica, ad insistere per chiudere le porte.
D’altronde, ribadiscono i diplomatici angloamericani, la Serbia deve prendere coscienza che entrerà a far parte di un’istituzione nella quale 22 paesi su 27 riconoscono l’indipendenza del Kosovo.

Uno Stato, quest’ultimo, che non bada a spese per assicurare il benessere dei propri cittadini (la disoccupazione è solo al 50% …) e soprattutto per promuovere la propria immagine internazionale, di terra moderna e aperta agli investimenti.
Non a caso, l’entourage di Pristina ha affidato alla Saatchi & Saatchi, la nota compagnia anglo-sassone fondata da una famiglia ebraica di Baghdad, un contratto di 5,7 milioni di euro, per lanciare un logo ad hoc e una campagna mediatica secondo la quale il Kosovo è uno Stato stabile (sparatorie e bombe esplose a Mitrovica escluse, naturalmente).

Pare se ne stia convincendo anche il Presidente serbo, Boris Tadic, che proprio a pochi giorni dall’anniversario dell’ “indipendenza” (17 febbraio) si è detto disposto ad incontrare i rappresentanti albanesi, per discussioni sulle “condizioni di vita della popolazione kosovara”.
Peccato che né lui né la variegata coalizione attualmente al governo in Serbia, abbiano intenzione di aprire il dossier “uranio impoverito”, principale flagello per i popoli della regione.

La studiosa Mirjana Andielkovjc-Lukic, esperta in armi ed esplosivi al Centro tecnico-scientifico dell’esercito serbo, ha denunciato come a dieci anni dai bombardamenti della NATO vi sia stato un fortissimo aumento dei casi di cancro, fino al 200% nelle zone del Kosovo maggiormente colpite.
Dal 2000 ad oggi, sono state infatti esaminate 112 località e il livello radioattivo dei raggi gamma e beta è due volte superiore alla norma, specie nella zona del Kosovo occidentale dove sin dall’inizio è stazionato il contingente italiano della KFOR.

Stando al team di medici guidato dal professor Naboisha Srbljak, dell’ospedale principale di Kosovska Mitrovica, in alcune aree i casi di tumore sono cresciuti di almeno quattro volte; se prima dei bombardamenti della NATO i malati di cancro in Kosovo erano 10 su 300.000 persone, ora il rapporto è salito a 20 su 60.000.
Dopo la Bosnia (clamoroso il caso di Hadzici, paesino serbo di 5.000 anime nei pressi di Sarajevo, 150 ammalati l’anno) quindi, un’altra conferma, eppure sia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sia lo stesso governo di Belgrado si guardano bene dall’aprire inchieste volte all’accertamento della verità.

Quanto avevamo denunciato pubblicando la lettera dell’allora Segretario generale della NATO, Lord Robertson, all’ex Segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in cui si ammetteva che 31.000 proiettili all’uranio impoverito erano stati sparati dall’Alleanza Atlantica sul Kosovo (in realtà ufficiali dell’esercito di Belgrado ne hanno calcolati molti di più, cfr.
Bataille-De Rienzo-Vernole, “La lotta per il Kosovo”, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2008), trova continua conferma.

Da poche settimane, una decisione di alcuni tribunali italiani ha dato esito positivo alla domanda di un risarcimento economico per le famiglie dei soldati ammalati a causa della contaminazione all’uranio impoverito durante le loro missioni in Somalia, Bosnia e Kosovo.
Nulla, però, appare ancora all’orizzonte per le vittime civili di quest’infamia, tutta occidentale.
I militari, infatti, servono per le “missioni di pace”, simbolo della colonizzazione globalista, e possono pure ricevere un (parziale) risarcimento per essere stati esposti, senza protezioni, agli effetti della radioattività.
Zero, al contrario, per quei popoli che hanno “osato” resistere al rullo compressore atlantista, così come zero interesse perché anche loro trovino un minimo di giustizia.
I responsabili della tragedia “uranio impoverito”, replicata in maniera “esemplare” in Iraq, Sudan, Afghanistan ecc. possono continuare a condurre una vita senza problemi, come politici o come consulenti economici lautamente remunerati.

Nessun tribunale internazionale si preoccuperà di catturare Clinton, Blair o Aznar.
Anni fa, Peter Handke, uno dei pochi autori realmente obbiettivi sui fatti della ex Jugoslavia, intitolò la sua opera: “Un disinvolto mondo di criminali”.
Tutti pensarono che si riferisse alle bande che insanguinarono i Balcani durante una durissima guerra civile, oggi, forse, sappiamo a chi lo scrittore austriaco alludesse.


*Autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Edizioni Noctua, 2008.