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Disinserire il pilota automatico dell'abitudine per godere a pieno l'infinita ricchezza della vita

di Francesco Lamendola - 11/02/2009

 


La maggior parte di noi vive ad un livello di consapevolezza molto basso,  e la conseguenza immediata di ciò è quella specie di nebbia malinconica che appanna il mondo al nostro sguardo e toglie bellezza e splendore alla realtà che ci circonda.
Il filosofo George Berkeley sosteneva che «Esse est percipi», ovvero «Essere è l'essere percepito» (un principio che nessuno, dal 1700 ad oggi, è stato in grado di confutare in maniera convincente): dunque, le cose di cui facciamo esperienza non sono veramente fuori di noi, ma in noi; sono parte di noi, sono un modo della nostra facoltà percettiva.
Ne consegue che, quando il nostro livello spirituale è particolarmente basso per la noia ed il senso di abitudinarietà, non è solamente l'immagine del mondo esterno che si appanna ai nostri occhi (mondo esterno di cui, a rigore, nulla sappiamo), ma è innanzitutto la nostra stessa immagina che si appanna e si offusca, dato che il nostro io è il prodotto della finestra che noi teniamo spalancata sulla realtà.
Se, a causa della forza dell'abitudine, disimpariamo a vedere la bellezza del mondo, automaticamente noi perdiamo anche la bellezza della nostra stessa immagine interiore, il nostro io ingrigisce e si rimpicciolisce e la nostra coscienza prova un senso di vuoto, di squallore, di perdita di stima e fiducia e in se stessa. Se il mondo diventa piccolo e meschino, anche la nostra immagine interiore diventa piccola e meschina; se il mondo diviene triste e opaco, anche la nostra immagine interiore diviene tale.
Viceversa, quando il nostro livello spirituale vibra su di un'alta frequenza energetica (come accade, ad esempio, ai mistici e agli artisti nel pieno dell'atto creativo), il mondo si tinge dei colori incandescenti della poesia e, contemporaneamente, anche la nostra immagine interiore diviene limpida e smagliante, come un vetro trasparente che riflette tutto l'ardore di un raggio di sole nell'ora che precede il tramonto.
La maggior parte delle persone, per potersi innalzare a un livello d coscienza che consenta loro di «vedere» la bellezza del mondo (e, quindi, di godere della propria immagine interiore), hanno bisogno di una frequente e varia compagnia umana, oppure di mutare luogo, viaggiando o trascorrendo un periodi di vacanza lontano da casa. In altre parole, cercano di variare il paesaggio esteriore per poter uscire dalla «routine» e riuscire ad apprezzare la varietà del mondo, il che riaccende in loro la capacità, semiassopita, di brillare anche di luce interiore.
Naturalmente si tratta di una strategia perfettamente legittima, ma basata sulla ricerca di una scorciatoia artificiale: non è quella la via diretta per innalzarsi ad un livello di coscienza più elevato e per godere di uno stato di forza e luminosità interiore. La via maestra è quella che va nella direzione opposta: ossia verso la capacità di ridestare la propria coscienza dallo stato di noia, opacità e abitudinarietà in cui tende a scivolare, trovando in se stessa le ragioni dello stupore, della bellezza e dell'esultanza spirituale.
Chi è in grado di fare ciò, può trovare la pace anche nella solitudine e può scorgere l'infinita ricchezza del mondo anche guardando, da una stretta finestra, un grigio cortile circondato da caseggiati di cemento. Sarà il suo occhio a conferire splendore alle cose e non il sole esterno; e, infatti, vi sono persone che precipitano nella malinconia e nella depressione solo perché si susseguono una serie di giornate di pioggia.
Le persone che non sono mai capaci di stare sole, nemmeno per poche ore, soffrono di un appannamento della propria immagine interiore, e cercano di rivitalizzarla, per così dire, agendo all'esterno, in modo da rinforzare la propria consapevolezza e, indirettamente, la propria autostima, mediante il contatto con presenze amichevoli.
Anche le persone che soffrono intensamente per il perdurare di condizioni atmosferiche di pioggia, nebbia o bassa pressione, o perché si trovano inserite in un paesaggio urbano degradato, vorrebbero rinnovare le proprie energie spirituali mediante un cambiamento della situazione esterna: non conoscono il segreto più elementare, che la bellezza del cielo e del paesaggio dipende dal proprio stato d'animo, e non viceversa. Quando siamo felici, ad esempio perché stiamo andando dalla persona amata, tutto ci sembra sorridere. Non ci curiamo del sole o della pioggia, del verde o del cemento: vediamo gioia e bellezza ovunque; e viceversa.
Con questo non intendiamo dire che l'anima umana possa vivere facendo a meno della bellezza «esterna». Tranne pochissimi illuminati, le persone normali, comprese quelle discretamente evolute sul piano spirituale, hanno comunque bisogno di vedere intorno a sé delle cose belle, di ascoltare della buona musica, di assistere a qualche film di buona qualità o a degli spettacoli teatrali interessanti, di leggere libri intelligenti e ben scritti; e di sognare.
Vivere perennemente in un mondo fatto di cose brutte, di odori e rumori sgradevoli, di quotidianità mediocre, è pericoloso per la salute dell'anima, quanto lo è, per quella del corpo, vivere in un ambiente malsano, sporco e inquinato. Vivere in una strada o in quartiere invasi dai rifiuti, come è accaduto ai cittadini di Napoli per mesi ed anni, non è un bel vivere; non incoraggia pensieri felici, non offre molti spunti a una espansione della coscienza.
Il rischio è che si finisca per scambiare il fattore esterno per l'elemento decisivo, mentre non lo è. Non solo: vi è anche il rischio di abituarsi un po' troppo alle scorciatoie e di disimparare la vera arte del vivere, che è quella di creare la bellezza mediante un atto dello spirito, autonomo e autosufficiente. È la tentazione dell'estetismo: l'esteta, come l'Andrea Sperelli di D'Annunzio o come il Des Esseintes di Huysmans, cerca di costruire intorno a sé un mondo di bellezza pura, per colmare il vuoto della propria anima e per sorreggerne la fondamentale debolezza. È una strada sbagliata; una inversione del giusto processo spirituale.

Ha scritto lo studioso e romanziere inglese Colin Wilson nel suo eccellente studio «La filosofia degli assassini» (titolo originale: «Order of Assassins», 1972; traduzione italiana di Sem Schlumper, Milano, Longanesi & C., 1974, pp. 60-63):

«… Un'abitudine è una specie di automa del subconscio. Quando il bambino impara a camminare deve fare uno sforzo tremendo a ogni passo, poi subentra il robot e procede automaticamente. Questo vale per tutte le capacità che si acquistano nel corso della vita, dalla guida automobilistica alla dattilografia, all'apprendimento delle lingue straniere. Nell'uomo "l'automa" è di una efficienza molto più formidabile  che in qualsiasi altro animale, ma questa "capacità"  comporta la nostra capitolazione, poiché il robot ci rende pigri e dipendenti. Metto il disco di una delle sinfonie che prediligo, e, inspiegabilmente, la musica non mi commuove: è perché "non ce la metto" abbastanza. Per cui mentre l'"automa" ascoltala sinfonia, "io" non partecipo.
Più scivolo nell'inerzia e nella noia, più il robot mi sostituisce nelle mie funzioni, e tanto più io mi sento uno strumento passivo nelle mani della vita. Si veda quanto l'automa spieghi il problema della passività umana, e si noti il circolo vizioso per cui il tedio può portare da un "calo di vita" al crollo psichico.
Per comodità possiamo considerare l'essere umano come una grande banca di "cellule recettrici", ognuna delle quali sia come lo specchio concavo di un radiotelescopio. Nei momenti di grande urgenza o eccitazione, tutte queste cellule sono "accese", quando invece la vita è noiosa e seguita a ripetersi, la maggioranza delle cellule "si spegne". Per l'esattezza nessuna cellula si "spegne" mai completamente (fino alla morte). Le cellule continuano a registrare informazioni, ma non riescono a trasmetterle alla centrale dell'Io. La nostra componente "automatica" è costituita da queste cellule "passive".
Tutto ciò comporta interessanti conseguenze. La coscienza del "chi sino io" dipende da quante cellule sono accese. Quando sarò annoiato e svogliato, quindi, avrò un concetto del "chi sono io" effettivamente molto più limitato di quando sono felice ed eccitato. Ma ciò è assurdo, come se la mia statura potesse variare da un metro e ottanta a diciotto centimetri.
È opportuno coniare un termine per definire questa sensazione del "chi sono io", pertanto d'ora in poi la chiamerò "autoimmagine".
In larga misura, quindi, la mia autoimmagine dipende da ciò che sta accadendo intorno a me. Se succedono cose meravigliose e eccitanti, la maggior parte delle mie "cellule recettrici" sarà "accesa", e la mia autoimmagine sarà nitida e soddisfacente. Se, al contrario, sarò depresso, la mia autoimmagine si presenterà sfocata e frammentaria.
Tutto ciò è stato espresso molto chiaramente dallo scrittore brasiliano Machado de Assis nel suo racconto "Lo specchio". Un giovane di uno sperduto villaggio di campagna parte militare. Quando torna a casa in divisa di sottotenente è ammiratissimo. Luna zia lo invita nella sua tenuta, dove la servitù ha l'ordine di chiamarlo "signor tenente". A tante attenzioni l'"io" del giovane ringalluzzisce. Poi, la zia deve accorrere al capezzale di un parente malato e la servitù ne approfitta per squagliarsela.
Un bel mattino, al risveglio, il giovane si ritrova solo. Ciò che maggiormente lo angoscia è il sentirsi privato della sua razione quotidiana di ammirazione. Le tenuta è lontana dal resto del mondo e la solitudine fa perdere al protagonista il senso della propria identità. Nella sua stanza c'è un enorme specchio e un giorno, mentre vi si rimira, ha l'impressione che i suoi contorni stiano facendosi sfocati e incerti… Ed ecco allora, una bella trovata: tira fuori la sua bella uniforme rossa di sottotenente, la indossa, e passeggiando davanti allo specchio riesce in questa maniera a conservarsi sano di mente fino al ritorno della zia…
È una descrizione esauriente della psicologia dell'autoimmmagine. Il mondo circostante p lo specchio che ci riflette. Uno specchio incantato, però. Alle volte, quando la nostra vitalità è alle stelle, ci riflette a tratti decisi e nitidi, altre, siamo così appannati che riusciamo a scorgerci a stento.
Ma è dall'intensità della mia autoimmagine che dipende la mia salute mentale. Se la persona rinchiusa per qualche giorno in una stanza, dove il buio e il silenzio sono assoluti., impazzisce gradualmente, è perché gradualmente si dissolve la sua autoimmagine. Questo spiega, tra l'altro, come mai la maggior parte di noi ha tanto bisogno del prossimo: ha bisogno dello "specchio". Un'esigenza che ovviamente dipende dalle risorse interiori di ciascun individuo. Uno scienziato o un filosofo, mentre elaborano qualcosa di interessante, hanno uno specchio interiore che conserva loro il senso dell'identità.
Tuttavia, la maggior parte della gente si trova nella situazione del patrigno di Sartre, del quale lo scrittore francese dice: "Le domeniche si ritirava in se stesso, vi trovava il deserto e ci si sentiva sperduto."
A questo punto si sarà compreso perché considero la volontà di potenza nietzschiana la chiave della psicologia umana. Avere un'autoimmagine sfocata, appannata, significa sentirsi deboli e passivi. Non appena avvertiamo invece una sensazione di potenza e di finalità, l'autoimmagine s fa nitida e di colpo sentiamo l'esistenza riempirsi di significato (…)
… Le nostre energie sono tese alla ricerca attiva di una maniera in cui scaricarsi. Infatti le mostre "cellule recettrici" sono anche dei radar che esplorano senza posa il mondo, alla ricerca del modo in cui liberare le loro tensioni con soddisfazione. È questa la componente fondamentale della dinamica evolutiva. Per fare un esempio: è ciò che distingue l'uomo dai più complessi cervelli elettronici . Il cervello elettronico risponde a una sollecitazione, mentre e l'uomo va in cerca di sollecitazioni alle quali poter reagire.»

Più ci si riflette, più si finisce per dar ragione al filosofo Berkeley.
Il mondo esterno, in sé e per sé, si trova al di fuori della nostra portata (il che, ovviamente, non significa che non esiste).
Il mondo in cui noi effettivamente ci muoviamo, speriamo, temiamo, soffriamo e godiamo, è il mondo della nostra percezione: qualche cosa che si  realizza in noi, mediante un nostro atto conoscitivo che si serve dei sensi, ma viene interpretato e, in sostanza, «ri-creato» alla luce della nostra coscienza. Ne abbiamo già discusso, un paio d'anni fa, nel nostro articolo «Non si può intuire direttamente l'oggetto, ma solo ri-crearlo internamente» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Ne riportiamo brevissimamente alcuni punti salienti.
È noto che un medesimo oggetto può essere percepito in maniera completamente diversa da due, o più, soggetti diversi; e, se questo è vero sul piano fisico, a maggior ragione lo è sul piano spirituale. Non basta: perfino il medesimo soggetto può percepire un oggetto in maniera diversa, in diversi momenti e differenti situazioni psicologiche.
I soldatini con i quali giocavo quando ero un bambino di otto anni costituivano per me degli oggetti vivi ed entusiasmanti, mentre al mio io di adulto essi non appaiono più che come figurine di plastica o di terracotta, senza vita e senza splendore. E quel vecchio edificio dai muri ricoperti d'edera e con le imposte sempre socchiuse, che per me era il regno misterioso e un po' inquietante di chissà quali presenze, oggi non mi appare che come una vecchia casa un po' fatiscente, totalmente priva di fascino e di mistero.
Non parliamo poi della diversa percezione di quei particolari oggetti che sono le persone, specialmente quelle che hanno  acceso in noi forti sentimenti e che ora, forse, sono cadute in un autentico oblio e giacciono in un angolo semi-abbandonato della nostra memoria.
Concludendo: ciascuno di noi, entro certi limiti, si crea il proprio mondo e lo popola di oggetti più o meno significativi, più o meno luminosi e gratificanti, secondo le sue proprie aspettative e la sua propria visione della realtà.
Di ciò siamo talmente convinti, da spingerci anche oltre e immaginare che perfino dopo la morte (come abbiamo sostenuto nell'articolo «Alcune ipotesi sull'«altro mondo» e sulla mente non localizzata», sempre sul sito di Arianna), in sostanza, quel che ci attende non sarebbe altro che la solidificazione delle nostre paure, dei nostri desideri e delle nostre aspettative (per cui il materialista  convinto potrebbe anche precipitare nel nulla); concezione che, fra l'altro, è in accordo con antichissime forme di conoscenza esoterica, quale ad esempio quella espressa nel cosiddetto «Libro tibetano dei morti».
Dovremmo sempre ricordarci, pertanto, che dipende in larga misura da noi conservare una apertura coscienziale tale da farci gioire della bellezza del mondo e, nello stesso tempo, da farci potenziare  la trasparenza e lo splendore della nostra stessa anima.