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Puccini: l’uomo che scoprì il Novecento

di Marco Iacona - 02/03/2009


Una foto e due signori con cappello e bastone seduti al tavolino. A sinistra Giacomo Puccini a destra Arturo Toscanini. Toscano il primo, naturale successore di Giuseppe Verdi il compositore del Risorgimento. Emiliano il secondo, già violoncellista alla prima dell’Otello verdiano e padre ispiratore della moderna direzione d’orchestra.
In un’immagine oramai nota gran parte della memoria musicale del Novecento, dunque. Il 2007 fu l’anno di Toscanini (cinquant’anni dalla morte), quest’anno arriva invece quello del padre dell’incompiuta Turandot (centocinquanta dalla nascita).
Puccini nasce a Lucca nel 1858, ai tempi del Manzoni, quando l’Italia era un’altra Italia. Come autore riuscì ad interpretare al meglio la tradizione musicale dello Stivale (il melodismo), ma si allontanò dai tonfi e dai trionfi del romanticismo per adattarsi ai suoi anni e alla cellettiana «poetica delle piccole cose». In parte fu un classico compositore da letteratura fin de siècle, in parte un scopritore di nuovi contenuti; ma in special modo fu l’ultimo o al massimo il penultimo dei mohicani di quel che il grande pubblico riconosce come l’autentico (commovente) teatro in musica.
L’opera pucciniana è colma di religiosità a sfondo tragico, degna di un Occidente che non ha mai smesso di riflettere sulla morte. Con singolare ma geniale scelta Puccini addossa la croce del tradizionale triangolo soprano-tenore-baritono alle “sue” donne. Protagoniste e vittime del tempo. Ma il ruolo destinato a Manon, Mimì, Tosca, Cio-cio-san e Liù, più che far discutere, oggi, sconcerta. In fondo, ottantaquattro anni dalla morte dell’allievo di Bazzini e Ponchielli non sono passati invano...
Al contrario delle composizioni di Richard Wagner (1813-1883) le opere più note di Puccini sono prive dell’elemento, per molti aspetti romantico, del sacro-mito. La mano di Puccini secolarizza la morte, strappa ad essa la maschera d’eterno, la sua influenza epocale, rigenerativa. La religiosità di Puccini è cupa, notturna, senza sbocchi celesti. Perfino Suor Angelica, vertice della sofferenza e parte centrale del pucciniano Trittico (1918), è un commosso e devoto “omaggio” all’estinzione e alla concessione della morte come pena.
Di più. L’harakiri della Butterfly è la scelta sventurata di una ragazzina che riscatta le proprie scelte disonorevoli («Con onor muore…»). La fine di Tosca è la morte di una donna raggirata, al centro di un garbuglio politico, dalle tonalità assai più gravi della sua pur splendida voce. Dopo la sua morte (e quella di Scarpia e Cavaradossi), nulla cambierà dei destini della Roma di primo Ottocento. È il segno della vera fine dell’ancien régime: una storia d’amore non potrà cambiare il corso della grande Storia.
Torna l’idea che Puccini sia “soltanto” un compositore di storielle di grande effetto e di grande impatto popolare, dalle quali nascono piccoli grandi messaggi dal valore “profano” ma universale.
Priva del valore del sacro, la religiosità pucciniana si perde (e non è certo una deminutio), nella valorizzazione del cieco-destino. Di rado alla protagonista dell’opera viene data possibilità di scelta. In Puccini l’unione amore morte si consuma nel brevissimo spazio di due ore. Punto.
L’interprete paga le sue “colpe”. Sconta le sue debolezze suscitando, da perfetta sconosciuta, la completa pietà dello spettatore. Da questo punto di vista la Boheme (1896) su libretto di Giacosa e Illica è un’opera-simbolo di straordinario efficacia narrativa (paragonabile, forse, per la “valorizzazione” dell’evento  ad un lavoro del contemporaneo Kafka). Mimì-Lucia consuma la sua esistenza, priva di particolare “valore” senza alcun perché e senza alcuna traccia dietro le spalle. Muore sprovvista di una nobile causa. Unica allarmante colpa quella di aver amato.
Dietro la morte di Lucia (quel «Mimì» ripetuto da Rodolfo fra i singhiozzi), l’impossibilità dell’intelletto umano di darsi delle risposte tracciando un progetto esistenziale. Mimì non è una principessa (Stuart o Wittelsbach), né tanto meno un’eroina. È solo una donna qualunque. Una come tante. Ma narrandone la breve intensa storia, Puccini ha scoperto il Novecento.
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