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Giorgio Gaber, anarchico linguacciuto

di Marco Iacona - 05/03/2009


Ci sono almeno tre buoni motivi per parlare di Giorgio Gaber morto sei anni fa nella sua villa in Versilia poco più che sessantenne.
Gaberscik (questo il suo vero cognome) è stato ad un tempo un grande libertario ed un appassionato cantore della partecipazione sociale nell’Italia degli ultimi otto lustri. Puro più per natura che per professione (più Parsifal che artista in vendita), negli ultimi anni finì per prendere atto dell’avanzata del deserto della massificazione e del conformismo borghese, rifugiandosi in una specie di reazionarismo individualista e anti-progressista, ma mai completamente scevro da un senso di appartenenza a “qualcosa” di indefinibile, a volte un semplice sentimento da condividere con gli altri. Da quel momento in poi la sinistra che lo riteneva “suo” non riuscirà più ad amarlo. Anche per questo dimenticarlo è praticamente e doverosamente impossibile (ecco la prima ragione).
Il secondo motivo per scrivere di Gaber, invece, oltre quello del bilancio della sua vita fra teatro, canzoni e tv, è l’uscita di un libro a lui dedicato per i tipi dell’Ancora da Andrea Pedrinelli giornalista di musica e teatro (Non fa male credere. La fede laica di Giorgio Gaber). Un libro particolare che narra di un Gaber che “insegna a non credere negli idoli – mercato, conformismo, ideologie, religione interessata” e che “propone, invece, di credere in un umanesimo nuovo – fatto di libertà, appartenenza, capacità di amare, nuovi comandamenti – dove la sua fede laica si apre in modo inatteso all’Assoluto”. Non sono mai troppi in verità i libri dedicati a questo maestro dell’arte teatrale.
Il terzo motivo, il più attuale dei tre, ci viene suggerito dalla riflessione sulla fine delle ideologie (alla cui realtà Gaber s’ispirò con grande ironia), in un periodo nel quale, a causa delle proteste in merito ai provvedimenti sulla scuola, da un lato i giovani cercano per l’ennesima volta un’unità generazionale (al di là degli schieramenti politici), ma da un altro si dividono fra destrini e sinistrini (e poi anche fra “occupazionisti” e “anti-occupazionisti”), dimostrando di non aver mai veramente superato la logica delle contrapposizioni partitiche; una contrapposizione pacifica e a volte purtroppo come nel caso degli scontri di piazza Navona a Roma anche fisica. Inutile dire che l’ironica eleganza di Giorgio Gaber avrebbe aiutato e molto a superare certi livori “intestini”.
Cantare tutti assieme le canzoni dell’ultimo Gaber ad esempio (proprio Destra-sinistra), per prendersi gioco di chi sulla divisione degli studenti ci marcia su e trasforma una protesta che riguarda il futuro di tutti i giovani (la loro istruzione, il loro inserimento nel “mercato del lavoro”), nel solito teatrino antifascista e antiberlusconiano, dove appunto Berlusconi e la sua truppa sono peggio degli orchetti del Signore degli anelli e quelli di sinistra che l’università l’hanno rovinata e i dipie-tristi (soprattutto tristi) anime belle volte a “salvare l’Italia” anche questo si poteva fare… dimostrando così che le armi dello scherno e della derisione possono essere mille volte più affilate di quelle del pregiudizio e dell’odio politico.
Crediamo che lo slogan che molti giovani sono andati a recitare in piazza in queste giornate convulse “Né rossi né neri, solo liberi pensieri” fosse molto gaberiano. Appartenente ad un Gaber, come dire, moderno, l’ultimo Gaber, ma anche il più antico, il Gaber cantante della “partecipazione”. Notate per esempio quant’è bello ed anche commovente, questo verso conclusivo della gaberiana Canzone dell’appartenenza (2001): «Sarei lieto di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi».    
Identikit di Giorgio Gaber: uomo di cultura e “filosofo”, il “filosofo ignorante” come lui stesso soleva definirsi (un po’ Adorno, un po’ “urlatore” alla Cioran). Ma soprattutto prosatore vagamente céliniano e artista che amava ispirarsi alle “terre” di provenienza; alla Milano dov’era nato da famiglia istriana e all’Italia intera con la sua lenta ma implacabile deriva morale.
Un uomo del dubbio (un “apota” quasi come Giuseppe Prezzolini), un uomo che non amava le normali abitudini che sono ben altra cosa dalla quotidiana normalità e aveva il coraggio di dirlo anzi di gridarlo al pubblico che correva a seguire i testi del suo “teatro-canzone” o “canzone-teatro” composti a quattro mani col pittore Sandro Luporini.
Da buon talentuoso nato intorno agli anni Quaranta, Gaber ha avuto la fortuna di poter essere tante cose, l’una dopo l’altra o a volte anche insieme. Prima innamorato della musica jazz e rocker giovane e bravo (già protagonista alla fine dei Cinquanta), poi interpere di tradizione (con testi di Umberto Simonetta) e seguace delle “dottrine” francesi e cantautorali, poi ancora conduttore televisivo di successo, infine prodotto dal Piccolo teatro di Milano artista che sapeva mixare al “presente” curiosità ed estro, ricavando dalla sincerità dei testi onore, consenso e qualche critica isolata.
Non so cosa si mangiasse e bevesse di buono alla fine degli anni Cinquanta al “Santa Tecla” locale della centralissima Milano, ove Gaber si formò insieme a Dario Fo e il grande amico Enzo Jannacci, e dove fu scovato da un giovanissimo Mogol, perché pare che anche lì cominciasse a masticare la musica un ragazzo che di nome faceva Adriano e di cognome Celentano (Gaber fu il suo chitarrista), il quale un giorno neanche troppo lontano avrebbe cominciato a far parlare di sé per i suoi ludi filosofici provocatorî ed ermetici (altro filosofo “ignorante”…). Quando si dice: nasci musicista e finisci catechista, studi per cantautore e diventi predicatore.
La svolta artistica definitiva di Giorgio Gaber avvenne nei primi anni Settanta anzi già nel 1970. Fu in quell’anno che il cantautore milanese comprese che solo la verità del teatro o meglio del teatro-canzone fatto di musica e monologhi, avrebbe potuto dar risposta alla sua voglia di libertà (libertà e nello stile da adottare e nei contenuti da divulgare). Tipico delle grandi personalità: già personaggio televisivo di un’Italia egotica ed ingorda di vip, già protagonista di una storica tournée con Mina, prese il coraggio a quattro mani ed ebbe l’ardire di rimettersi in gioco.
L’aria del Sessantotto col suo doppio rifiuto: quello della censura e quello dello stile di vita delle generazioni precedenti, aveva finito per colpire anche lui. Ma il personaggio che lo avrebbe reso famoso (il signor G), non sarebbe stato un rivoluzionario doc ma un signore “qualsiasi” (un ribelle) che somigliava allo stesso Gaber, il quale non aspirava a grandissimi rivolgimenti ma preferiva cibarsi di speranze terrene. Uno scontento che non avrebbe fatto male a una mosca e che non stava lì a spararla grossa come molti rivoluzionari del tempo o peggio come i grigi teorici della violenza tout court.
Insomma più che un “demonio” Gaber era un… “esorcista”. Negli ultimi anni, poi, forse sentendo vicina la fine, aveva anche abbozzato un ritorno al tempo che fu, incidendo dopo almeno due decenni un disco di canzoni in studio. Con La mia generazione ha perso (un grande successo del 2001), l’artista milanese aveva inteso concludere il proprio discorso “politico”, idealmente aperto proprio con il Sessantotto e via via fattosi meno ottimista.
È noto a tutti che uno dei pregi maggiori di questo libero pensatore con voce baritonale ed intonata fosse quello di non schierarsi né di qua né di là, di non stare cioè né a destra né a sinistra. Che la politica fosse una cosa schifosa l’avrebbe ripetuto a più riprese lungo l’arco della sua carriera e fino all’ultimo dei suoi giorni. E strano a dirsi però, in un Paese che finge di non credere più nelle contrapposizioni, il suo parlare non sempre al di qua delle righe non sarebbe dispiaciuto né agli schieramenti di destra né a quelli di sinistra (almeno fino ad un certo periodo).
La ragione credo sia altrettanto nota a tutti. Il monsieur in questione, dall’inconfondibile profilo e con l’anima da spiritello linguacciuto, era un romantico-ironico-istrionico e un po’ insofferente cantattore, con tanta tanta classe e intelligenza. Un uomo che conosceva a menadito l’arte del comunicare e che si sentiva a proprio agio con un modo un po’ anarchico di fare teatro (anarchico nei contenuti, ma non nelle impostazioni di scena tutte e sempre studiate a puntino); un artista che riusciva a modulare alla perfezione, all’interno di uno stesso pezzo, grazie a degli invidiabili “crescendo”, sentimenti, stati-d’animo e riflessioni quasi inconfessabili; un gran-signore che si può dire abbia inventato uno stile assolutamente personale: l’arte di incazzarsi – o forse di far solo finta – senza far incazzare il prossimo suo ed anzi divertendolo.
Ma come ogni bravo artista anche Gaber ha il suo pezzo “quasi-unico”, si tratta della canzone o per meglio dire del lungo recitativo o monologo in musica Io se fossi Dio, un testo che proprio moderato non è (tutt’altro!), composto dopo l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Br, inciso nel 1980 e poi inserito in uno dei suoi spettacoli teatrali (Anni affollati). Nel testo si fondono molti temi, tutti negativi: pessimismo, indignazione, condanna della violenza brigatista, della prassi politica e della “morale” del comune borghese. Non vivendo di certo nel migliore dei mondi possibili, il finale del monologo ricorda un po’ il Candido di Voltaire.
Nella sua carriera d’artista Giorgio Gaber (peraltro accusato di qualunquismo), amava dunque concentrarsi sugli obiettivi “politici”, ma lo faceva come meglio – o peggio a seconda dei casi e dei gusti – non si sarebbe potuto. Si dichiarava un antidemocratico, anzi un nemico di questo tipo di democrazia, cioè di quella italiana.
L’ultimo Gaber quello che ritorna all’incisione in studio, il Gaber del Terzo Millennio (La mia generazione ha perso e Io non mi sento italiano, postumo del 2003), quello che con inconfondibile spirito ribelle vota se stesso stavolta all’“appartenenza”, non è solo da ascoltare, come si farebbe con un normale cantante in voga, ma è soprattutto da analizzare. In Destra-sinistra si fa beffe delle contrapposizioni ideologiche oramai ridotte a cretinate del tipo: la doccia è di sinistra e il bagno nella vasca è di destra … e poi da buon conoscitore della prassi italiota aggiunge il ritornello: «L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia è la passione l’ossessione della tua diversità che al momento dov’è andata non si sa…».
Insomma se gli ideali (o forse soltanto le idee) che fino a qualche anno fa spingevano i giovani a schierarsi a destra e a sinistra sono praticamente finiti, a rimanere a galla sono solo scorie senza alcun riscontro né reale né simbolico. Cretinate appunto. E la politica (quella “bella”) è solo un cadavere i cui muscoli si contraggono nel post mortem.
Ma attenzione però a non confondere l’Italia intera con la sua classe politica e attenzione (ci dice Gaber), a non confondere la storia anzi la Storia del nostro Paese con quel che accade nel tempo attuale. Nel testo della canzone uscita dopo la sua morte Io non mi sento italiano (2003), malgrado il titolo l’orgoglio di sentirsi cittadino di una bell’Italia non è svanito; l’Italia è stato un grande Paese (culla dell’arte nel Rinascimento e patria degli eroi) anche se nel tempo presente come direbbe Gino Bartali «…è tutta da rifare». Come molti scontenti Gaber non si sente italiano, anche se (anche se…) «per fortuna o purtroppo» italiano lo è. Dopotutto se l’Italia è ancora da fare (così recita alla fine il testo della canzone), al di là del pessimismo di giornata la speranza per il futuro è rimasta intatta. Crediamoci dai.
Anche in tema di appartenenza Gaber ha da dire la sua (eccome!). Il Nostro non era un rude capo-popolo – uno sfascista – ma non era neanche un bolso individualista (era uno scontento tutto qua, un intellettuale alla ricerca di una vita migliore). Guardate dunque cosa cantava poco tempo prima di lasciarci per sempre: «L’appartenenza non è un insieme di persone / non è il consenso a un’apparente aggregazione / l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé… L’appartenenza è assai più della salvezza personale / è la speranza di ogni uomo che sta male / e non gli  basta esser civile / è quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa che in sé travolge ogni egoismo personale / con quell’aria più vitale che è davvero contagiosa… L’appartenenza è un’esigenza che si avverte a poco a poco / si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo / è quella forza che prepara al grande salto decisivo / che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti / in cui ti senti ancora vivo».
Qui c’è un artista tutt’altro che indifferente verso un sentimento di comunità che è in primo luogo condivisione di umori e sentimenti e dopo, molto dopo (anzi mai) quantità, folla, massa e cieca violenza. L’Italia dev’essere una Patria di “sostanze” e non di mere, illusorie “forme”.                             
Gaber non era né un “fascista” né un comunista (o forse il suo era il comunismo-comunitarismo non marxista di un senza-partito, il comunismo di un “filosofo” – innamoratosi dell’“idea” – che detestava Breznev e cambiava canale quando in tv appariva un esponente del Pci o uno di Lotta continua...), e di certo non era un artista schierato come il premio Nobel Dario Fo. L’ex compagno del “Molleggiato” era semplicemente un nostalgico delle “belle” idee, o come direbbe quel tale un nostalgico di un grande futuro, un tizio che biasimava il potere anzi i “poteri” a cominciare da quello economico-finanziario con mercato e mercatisti a corredo.
Aveva però dalla sua una capacità sconosciuta ai più (che manca ad esempio a un Beppe Grillo). Sapeva lagnarsi con eleganza provocando e bastonando tanto il potente quanto il cittadino comune quasi mai a suo modo di vedere del tutto innocente (solo i ricconi sono i “colpevoli”? Solo loro sono i brutti-e-cattivi?). Ascoltare per credere i versi esilaranti de La strana famiglia coi quali Gaber sfotte la mania di protagonismo e la volgarità dei tele-utenti ben prima della nascita del Grande fratello...  Di chi è la “colpa”? Semplicemente nostra amava rispondere Gaber.  
Insomma, Gaberscik era un (grande) diffidente che amava porsi da una parte: la sua; una parte che è anche quella di chi aveva ed ha voglia di ascoltarlo e di chi non ama la facile retorica dei vangeli moderni.