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La fine del carceriere Santos, da Abu Ghraib a Kabul

di Lorenzo Cremonesi - 09/03/2009

  
 



Era uno dei militari Usa che torturavano con il cane. È morto in un'unità cinofila antimine

Non è facile capire i motivi che spingono gli individui a partire volontari per la guerra. L'amore per il rischio? Il bisogno di uscire dalla routine? I guadagni facili da mercenari? Una necessità interiore di adempiere a qualche missione suprema? In Santos Cardona c'era probabilmente mischiato un po' di tutto questo, compresa la necessità molto concreta di assicurare un futuro a Keelyn, la figlia di 9 anni. Non è strano: tanti americani oggi guardano all'esercito e ai lavori per le sue società di contractor come all'ultimo rifugio e un salario sicuro nella catastrofe della crisi economica.
Parliamo di lui perché il 28 febbraio è morto in Afghanistan, schiacciato sull'autoblindo di una compagnia di contractor privati americani che lo trasportava e da cui era sceso assieme a un cane addestrato nell'individuazione delle mine sulla strada.

L'esplosione, fortissima, ha spezzato in due l'automezzo. Per Cardona non c'è stato nulla da fare, è spirato ben prima che arrivassero le unità paramediche. Ma la sua storia va ben oltre la vicenda tragica dell'ennesima vittima alleata nel Paese dei Talebani. Poiché Cardona, o meglio la sua fotografia diffusa in tutto il mondo nella primavera del 2004 con lui che tiene al guinzaglio Duco, il suo terrificante Pastore Belga, mentre azzanna i prigionieri iracheni nel famigerato carcere di Abu Ghraib, divenne subito tra i simboli più pregnanti della vergogna americana nell'avventura irachena.

Cardona allora aveva trent' anni, era sergente inquadrato nel 320esimo battaglione della polizia militare Usa. Appassionato addestratore di cani, nell' autunno del 2003 era stato aggiunto alle unità cinofile incaricate di fare la guardia ai prigionieri di Abu Ghraib. Nel rapporto del generale Antonio Taguba, capo dell'unità militare inquisitrice, Cardona viene indicato come pienamente partecipe delle torture, violenze sessuali più o meno esplicite e atti sadici compiuti ai danni dei carcerati.

Rischiava sino a vent'anni di cella. E gli andò di lusso. Il primo giugno 2006 il tribunale militare lo riconobbe colpevole di «abusi ai danni dei detenuti e gravi mancanze nei suoi doveri di soldato». Pure, le pene furono tutto sommato minori: 90 giorni di lavori forzati, la degradazione e una multa di 7.200 dollari da trattenersi a rate sulla sua paga. E lui, su diretto suggerimento del suo avvocato, non ricorse mai in appello.

La vicenda sarebbe stata dimenticata se Cardona non avesse scelto di tornare in zone di guerra. Anzi, nella guerra più attuale per antonomasia, nell'Afghanistan sempre più violento e destabilizzato, il fulcro dell'attenzione per la nuova amministrazione Obama.
«Perché mai Cardona è tornato in guerra?», si chiedono gli americani. Per il Washington Post la risposta stava già nel titolo dell'articolo che annunciava la sua fine e riportava il pianto della vedova: «Il poliziotto di Abu Ghraib morto in Afghanistan alla ricerca della redenzione». Davvero redenzione? Forse occorre che il titolista si vada a vedere l'universo dell'umanità variegata che da sempre cresce all'ombra delle guerre. Il New Yorker è critico: «Vorremmo sapere dove ci condurrà l'idea per cui la strada della redenzione in Iraq passa per l'Afghanistan».