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Belgrado: 24 marzo 1999

di Eugenio Roscini Vitali - 26/03/2009

 
 

24 marzo 1999, sono passate da poco le 18:45 quando gli F-16 USAF della NATO, decollati da Aviano, danno il via all'Operazione “Allied Force”: 78 giorni di bombardamenti ininterrotti sulla Repubblica Federale Iugoslava. Coinvolti 13 dei 19 Paesi dell’Alleanza Atlantica, tra cui l’Italia; circa 1.100 velivoli impiegati, 725 dei quali americani e 54 italiani; più di 10 mila le missioni compiute; 535 i bombardieri e cacciabombardieri utilizzati, 323 Usa e 213 alleati; 37 mila le sortite, 1.378 quelle italiane; lanciati 10 mila missili Cruise, sganciate 21 mila tonnellate di esplosivo, 1.085 cluster bomb che spargono sul terreno di più di 35.000 bombette, mine che ancora oggi metto a rischio l’incolumità di oltre 160 mila civili. Colpiti quasi mille obbiettivi, contaminata gran parte della regione con i micidiali proiettili all’uranio impoverito, uccisi “per errore” duemila civili, sia serbi che kosovaro-albanesi, seimila le persone rimaste gravemente feriti; 33 gli ospedali distrutti, decine le scuole colpite; centrate le aree residenziali, gli uffici pubblici, le infrastrutture, le antenne televisive e radio, le stazioni ferroviarie e di autobus, i ponti e le strade; danneggiate le ambasciate, i monasteri e i luoghi di culto. Colpiti 14 aeroporti, più di cento fabbriche, decine di centrali elettriche e 23 raffinerie.

A dieci anni di distanza è ormai chiaro che le motivazioni umanitarie che hanno mosso la mano della comunità internazionale, ed in particolare dell’Alleanza, contro la presunta pulizia etnica praticata da Belgrado nella provincia del Kosovo-Metohija si sono rivelate niente altro che un pretesto per dare il via ad una “guerra umanitaria” inutile e sproporzionata, un’anticipazione delle cosiddette “guerre preventive” che a distanza di qualche anno avrebbero devastato l’intero Medio Oriente. Il casus belli per l’offensiva aerea sono i 45 morti rinvenuti il 16 gennaio 1999 nel villaggio kosovaro di Racak dai guerriglieri dell’organizzazione paramilitare dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (Ushtria Çlirimtare e Kosovës - Uck).

La missione dell’Osce, guidata William Walzer, uomo della CIA nei Balcani, scarica subito sulla polizia serba la responsabilità del massacro; un’accusa che nei mesi successivi l’equipe di esperti dell’Unione Europea dimostrerà essere infondata ma che verrà comunque usata dal Tribunale dell’Aja come capo di imputazione contro Slobodan Milosevic e dalla NATO per giustificare una guerra dagli effetti collaterali devastanti.

La mattina del 15 gennaio 1999 l’area circostante il villaggio di Racak è teatro di un’operazione militare che vede di fronte i guerriglieri dell’Uck e i mezzi blindati e i carri armati della polizia e dell'esercito serbo. Gli scontri vanno avanti da alcuni giorni e le forze iugoslave sono soggette a fuoco pesante da parte della guerriglia armata dagli americani. In tarda mattinata le truppe di Belgrado annunciano di aver ucciso almeno quindici terroristi; l’Uck dichiara la perdita di sette uomini e la morte di alcuni soldati serbi. Alle 15:20 gli osservatori dell’Osce chiedono all’esercito iugoslavo di cessare il fuoco; nel tardo pomeriggio la polizia serba si ritira. La mattina successiva Racak e i suoi 400 abitanti sono di nuovo sotto il controllo degli albanesi che nei pressi del villaggio mostrano alla stampa internazionale e ai rappresentanti dell’Osce una fila di cadaveri adagiati lungo un sentiero. Secondo alcuni testimoni il massacro sarebbe opera della polizia serba che prima di uccidere i prigionieri li avrebbe torturati e dopo l’esecuzione ne avrebbe mutilato i cadaveri.

Le indagini svolte dalla dottoressa finlandese Helena Ranta e dagli esperti nominati da Bruxelles giungeranno a tutt’altra conclusione: causa modalità ed ora del decesso non possono essere accertate, non compaiono mutilazioni o segni che possano ricondurre ad una esecuzione e non esiste certezza sul fatto che le vittime siano originarie di Racak. Stesse conclusioni a cui arriverà l’esperto forense della Belarussia Dr. Kuzmikov: “Nessun massacro a Racak, non c’erano segni di spari alla testa, né gole tagliate. Non c’è motivo per asserire che fossero stati torturati, non vi fu un massacro”.

Più che della battaglia per il controllo del villaggio, nei giorni successivi i media parlano però dell’eccidio di Racak, la strage “scoperta” il giorno dopo dai giornalisti e dagli osservatori internazionali, e di cui non verranno mai trovati i responsabili, ma che servirà a lanciare la propaganda per creare le condizioni dell’attacco contro la premeditazione serba. Dopo 78 giorni di bombardamenti, il 9 giugno 1999, Belgrado viene chiamata ad accettare le condizioni della diplomazia occidentale, l’Accordo tecnico-militare di Kumanovo: in cambio della fine dei bombardamenti i serbi sono obbligati a ritirare le truppe ed accettare la presenza della NATO nella provincia; Hashim Thaqi, Ramush Haradinay e gli uomini dell’Uck diventano i padroni assoluti del Kosovo-Metohija. E’ così che da capi di una milizia armata, responsabile di una contro-pulizia etnica che colpirà 300 mila serbo-kosovari, gli alleati di Washington si trasformeranno in garanti della libertà e della democrazia all’interno di quello che in molti definiranno “il protettorato militare americano nei Balcani”.

L’intervento della NATO verrà certamente ricordato per la scia di morte che a distanza di 10 anni colpisce ancora moltissimi civili: 200% di aumento nei casi di cancro in Kosovo-Metohija, 20 casi ogni 60 mila abitanti, con un livello di radioattività dei raggi gamma e beta che nella parte occidentale della provincia arrivano ad avere una concentrazione due volte superiori alla norma…… Ma l’Operazione “Allied Force”, risultato di un fallimento diplomatico che con la violenza non risolverà i problemi sulla logica della prevalenza etnica, non verrà dimenticata neanche per l’impressionante sequenza degli effetti collaterali causati dall’errore umano: il treno passeggeri colpito sul ponte di Grdelica, 16 morti; la cittadina Aleksinac, bombardata il 6 aprile, 30 morti; il convoglio di kosovaro-albanesi centrato a Djakovica, 64 morti; la tv di Stato a Belgrado, colpita il 23 aprile da un missile Cruise, 16 morti; la zona residenziale di Surdulica, colpita per errore dagli aerei NATO durante un attacco contro la locale caserma dell’esercito, 20 morti, più della metà bambini; un pulman di linea a Pristina e un mezzo di trasporto utilizzato per sfuggire ai bombardamenti, più di 40 morti; il mercato e l’ospedale di Nis, centrati il 7 maggio in pieno giorno, 20 morti; l’ambasciata cinese a Belgrado, 4 morti; il bosco di Korisa, bombardato il maggio, 103 profughi kosovaro-albanesi uccisi; il carcere di Istaok, colpito il 21 maggio, più di cento morti; l’ospedale centrale di Belgrado, 3 morti; la zona residenziale di Novi Praz, più di 20 le vittime. Uno scempio al quale anche noi possiamo dire di aver contribuito.