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Kosovo: i frutti amari d’un intervento «umanitario»

di Georges Berghezan* - 30/03/2009

 


10 anni dopo i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia
Il 24 marzo 1999, i bombardieri della NATO iniziavano 78 giorni di incursioni sanguinarie sulla Repubblica Federale di Jugoslavia (RFJ), compresa la provincia serba del Kosovo in preda a violenze separatiste da tre anni. Se le bombe occidentali ebbero soltanto poco effetti sulla capacità militare dell'esercito serbo-montenegrino - 13 tank distrutti, in particolare -, risultarono devastanti per la popolazione civile: ponti, scuole, fabbriche, mercati, treni, convogli di profughi, stazioni ed emittenti della radiotelevisione, ed anche l'ambasciata cinese, furono particolarmente mirati.
Indignati da questi attacchi brutali che erano incensati dai mass media intossicati da una visione manichea dei conflitti nei balcani, alcuni militanti decisero di rompere il silenzio complice della maggioranza di pacifisti. Proposero una petizione popolare l'appello di un gruppo di giuristi belgi che denunciavano, in nome del diritto internazionale, questa aggressione. Questi militanti, delle diverse sfumature della sinistra, continuarono a riunirsi dopo la guerra e diedero presto origine al Comitato di Sorveglianza NATO. È dunque questo conflitto, dieci anni fa, che è direttamente all'origine del CSO.
Un decennio più tardi, è dunque legittimo chiedersi cosa sono diventate le entità che costituivano l’allora RFJ, ed in particolare il Kosovo, nel cuore del conflitto.

Découpage balcanico
Il Montenegro ha completamente rotto il legami con la RFJ proclamando la sua indipendenza nel 2006, comportando la dissoluzione della federazione e l'indipendenza - non auspicata - della Serbia. Il potere resta - quasi da 20 anni! - sotto il controllo dell’inamovibile Djukanovic, il cui eventuale ritiro dal potere significherebbe la fine dell'immunità ed un possibile mandato di cattura dalla giustizia italiana che lo sospetta di essere uno dei principali alleati stranieri della Sacra Corona Unita e di altre mafie locali.
Vendutisi ai miliardari russi, i dirigenti della piccola repubblica - 300.000 abitanti - promettono di farne la Monaco della costa adriatica. Dopo il rovesciamento di Milosevic nel 2000, la Serbia si è fortemente avvicinata all'Unione europea ed anche agli Stati Uniti, pur intensificando le sue relazioni con la Russia. Se l'adesione alla NATO continua a essere respinta dalla popolazione e non è ufficialmente all'ordine del giorno, quella all'UE è l'obiettivo prioritario del governo di Belgrado, con - certamente - la difesa dell'integrità territoriale del paese.
La fine dell'anno 2008 ha conosciuto una doppia vittoria diplomatica della Serbia, dei successi che sembrano porre fine ad un lunghissimo periodo di ostracismo. Da un lato, l'Assemblea Generale dell'ONU ha adottato una risoluzione che chiede il parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla legalità della proclamazione d'indipendenza del Kosovo. D'altra parte, la missione europea EULEX, che intendeva sostituirsi alla missione dell'ONU sul posto dal 1999, ha dovuto sottoporsi alle condizioni di Belgrado per ottenere un minimo di legittimità e farsi investire da parte del Consiglio di sicurezza, dove la posizione ferma della Russia è stata decisiva. Così, EULEX non avrà per mandato di costruire uno Stato indipendente del Kosovo, ma di garantire “legge e ordine”, in coordinamento con la KFOR, forza della NATO il cui mandato non è affatto cambiato dalla fine bombardamenti ed il cui livello attuale tocca i circa 16.000 uomini.
Benché, un anno dopo la proclamazione dell’indipendenza, il numero di incidenti gravi resti abbastanza limitato, il Kosovo rimane una polveriera, la cui miccia sembra situata nella città divisa di Mitrovica.
Il nord della regione continua a vivere al ritmo della Serbia, benché EULEX tenti timidamente di stabilire la sua presenza. Il resto dell'entità, dove la maggioranza albanese è più schiacciante che mai, conosce il tasso di disoccupazione più elevata dell'Europa ed è completamente dipendente dall'aiuto esterno, Stati Uniti e Germania in testa, come pure dei contributi dell'importante diaspora albano-kosovara.
Le zone franche, serbi o di altre minoranze, sono veri ghetti che non sono affatto mutati dalla missione d'indagine organizzata dalla CSO durante l'estate 2004. La sicurezza, l'occupazione, la libertà di movimento ed anche l'accesso alla corrente elettrica, continuano ad essere nozioni sempre più astratte per gli abitanti di queste zone franche.

Traffici sordidi
D'altra parte, fatti mostruosi, commessi principalmente in questi dieci anni, ma relegati, allora, fra le voci più fantasiose, trovano oggi la loro conferma e rendono ancora più abietto il sostegno dato dai bombardieri e dai soldati della NATO agli indipendentisti dell'esercito di liberazione del Kosovo, oggi al potere a Pristina.
Un'indagine sui traffici di organi dei prigionieri serbi e forse di prostitute “usate” da diversi paesi della regione è stata lanciata dal procuratore sui crimini di guerra di Belgrado dopo le rivelazioni di Carla Del Ponte, il suo omologo al tribunale di L'Aia, nel suo libro “La Caccia”, non tradotto in francese dopo più di un anno dopo l'uscita della sua edizione italiana. Delle vittime sono ora state identificate, come anche gli assassinati e diversi luoghi nel nord dell'Albania in cui si praticavano questi prelievi morbosi, dove al morto seguiva il “donatore”. Un'indagine è stata anche comandata dal Consiglio d'Europa a Dick Marty, il senatore svizzero che si era messo in luce informando dei famosi “voli segreti” della CIA.
D'altra parte, a fine 2008 a Pristina, una clinica che praticava illegalmente prelievi ed innesti di organi - su base “commerciale” - è stata smantellata e ci si è subito accorti che uno dei medici fermati era stato già citato da testimoni implicati nei traffici degli anni 1999-2000. Sembra anche che la missione dell'ONU in Kosovo abbia veramente indagato su questo affare nel 2003, cosa che ancora negava alcuni mesi fa, e con il tribunale de L'Aia che ha distrutto le prove (materiale chirurgico…) trovate in Albania in occasione di questa indagine. È significativo che Del Ponte abbiano rivelato questi crimini subito dopo aver lasciato il tribunale e che questo ultimo abbia già avanzato diverse giustificazioni per non interessarsi, poiché non sarebbero stati commessi sul territorio dell'ex Jugoslavia o nel periodo di guerra.
La complicità di ufficiali dell'ONU in Kosovo, che avrebbero coperto questo traffico o avrebbero impedito ogni indagine seria, viene sempre più spesso avanzata. Certo, tredici mesi dopo la sua proclamazione, 56 paesi hanno riconosciuto l'indipendenza kosovara, ma si tratta principalmente di membri della NATO e di micro-stati. Non sorprende che si apprenda che alcuni riconoscimenti sono stati comperati: così la bustarella al ministro degli esteri delle Maldive, l'ultimo paese a riconoscere il Kosovo, sarebbe ammontata a 2 milioni di dollari. Ma restano 138 stati che non hanno riconosciuto il Kosovo e fra loro praticamente tutti i pesi massimi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina.
Trasformare il buco nero dell'Europa in uno Stato credibile, questa è la missione improbabile che UE e NATO si sono assunte. Il meno che si possa dire è che dieci anni di presenza occidentale non hanno affatto migliorato la sorte della popolazione albanese, ad eccezione del crimine organizzato, infiltratosi fino ai vertici del governo. Quanto ai serbi e alle altre minoranze, coloro che sono restati - una piccola parte della popolazione di prima dei bombardamenti - devono spesso vivere in condizioni inumane, difficilmente concepibili a due ore di volo da Bruxelles. Non soltanto illegale e mortale, il glorioso “intervento umanitario” dell'occidente ha permesso una pulizia etnica certamente irreversibile ed ha messo il Kosovo nell'assenza totale di prospettive di sviluppo.

*Mondialisation.ca, 27 marzo 2009 Alerte OTAN www.csotan.org