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Nell'educazione dei giovani abbiamo dimenticato la dimensione del soprannaturale, cioè dell'Essere

di Francesco Lamendola - 02/04/2009


Uno degli aspetti più vistosi e, per certi versi, drammatici della crisi spirituale e materiale del mondo contemporaneo, è costituito dallo smarrimento di un sano concetto pedagogico; o, per meglio dire, dall'abbandono della sua funzione educante da parte dell'intera società, delegando ad essa proprio quei mezzi d'informazione che meno sarebbero adatti: primi fra tutti la televisione, la pubblicità e la rete informatica.
Semplificando al massimo i termini del problema - dal momento che non vogliamo disquisire in forma di trattato, ma andare dritti, se possibile, al cuore del problema - si potrebbe porre la domanda pedagogica in questi termini: è possibile che una società sviluppi un coerente progetto educativo, se ignora o misconosce la natura dell'educando, ossia l'anima umana?
Per la nostra cultura, scientista e materialista, l'anima non esiste; esiste un corpo, di cui la mente è un prolungamento; ed esistono i sensi, che sono il solo canale di comunicazione fra noi e il mondo esterno. Al fuori dei corpi e al di fuori dei sensi, non esiste null'altro; o, quanto meno, nulla che valga la pena di conoscere. Il progetto educativo, pertanto - se pure ve ne sia uno, cosa di cui, oggi, crediamo si debba dubitare - si riduce a un addestramento del corpo e della mente, intesa, quest'ultima, come lo strumento di una facoltà esclusiva: la ragione.
Ciò che non può essere compreso e spiegato in termini puramente razionali, o non c'è, o non ci riguarda affatto: questo è il logico e coerente punto d'arrivo di quella rivoluzione del paradigma culturale iniziata da Locke e Hume, proseguita da Kant e perfezionata dal positivismo e dal neopositivismo.
Nell'essere umano, dunque, non vi sarebbe altro che l'ordine naturale; l'ordine soprannaturale, termine di riferimento costante del filone maggioritario del pensiero occidentale - da Platone fino al Rinascimento, passando per S. Agostino e S. Tommaso - scompare dall'orizzonte esistenziale dell'uomo, o, per meglio dire, ne è stato cacciato; e tale cacciata ci viene tuttora presentata, nella maggior parte dei manuali scolastici, come una vittoria della Ragione contro le tenebre dell'ignoranza e della bieca superstizione.
Perfino i teologi, ultimo residuo della un tempo gloriosa tradizione metafisica occidentale, si sono fatti straordinariamente timidi e accomodanti nei confronti della cultura moderna. Contano  con avarizia  i miracoli delle Scritture; sfrondano da esse gran parte del soprannaturale, ritenuto una forma di sedimentazione mitica; balbettano interpretazioni pseudo-razionalistiche  di ciò che, fino a ieri, non si peritavano di chiamare apertamente la vita soprannaturale dell'anima.
Eppure, se non ci si rassegna a gettare nel cestino della carta straccia la miglior parte dell'insegnamento della filosofia occidentale, da Platone a Kierkegaard, bisognerà pure ammettere che è assurdo pretendere di fondare una qualsiasi educazione, sulla denigrazione sistematica o sulla soppressione radicale dell'elemento trascendente proprio della natura umana; più o meno come sarebbe assurdo, per un navigante, avventurarsi in alto mare senza timone né bussola; oppure, per un falegname, accingersi a fabbricare un mobile, ignorando praticamente tutto sulla natura del legno e sulle sue proprietà.
Abbiamo già avuto modo di ricordare quanto sia importante tenere presente la dimensione sovrannaturale nella vita dell'anima, nell'articolo «L'amore di carità ispirato dalla Grazia è il fulcro della nostra vita soprannaturale» (sempre sul sito di Arianna).
Vogliamo ora riprendere il discorso, assumendo la prospettiva specifica del fatto educativo e la necessità di elaborare un disegno pedagogico che tenga conto dell'integrale realtà della natura umana, che non si esplica solo nella dimensione del naturale e del relativo, ma anche in quella del soprannaturale e dell'assoluto.

Uno dei pochi pensatori contemporanei che hanno attirato l'attenzione del mondo della cultura sull'importanza di non trascurare la parte sovra-razionale nell'educazione dei bambini e dei giovani, è stato Gabriel Marcel, del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci in precedenti scritti (e specialmente nell'articolo «L'eterna lotta fra impulso di morte e capacità di amare nella riflessione di Gabriel Marcel», consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Il suo pensiero educativo, sparso in vari scritti, è stato efficacemente riassunto da Giovanni Gentili , già docente presso l'Università Statale di Milano, nella sua pregevole «Storia della Pedagogia» (Roma, Armando Editore, 1966, 1978, pp. 428-29):

«Gabriel Marcel è noto come filosofo cattolico d'indirizzo esistenzialistico. La sua formazione filosofia avvenne in un ambiente filosofico idealistico e bergsoniano; le tracce ne sono evidenti anche nel pensiero marcelliano posteriore alla conversione. Egli diffida dell'uomo cartesiano e positivistico, tutto ragione che spiega e chiarisce, e nulla lascia alla intuizione globale. L'uomo è anche questa razionalità, è anche  questa sua scientificità, con l'appendice del tecnicismo oggi predominante; ma non qui troveremo l'uomo autentico. L'uomo autentico è ciò che vi è di insostituibile; esso è una singolarità irripetibile, anche se trattasi di una singolarità inserita in un rapporto sia agli altri uomini sia a Dio. è necessario- argomenta Marcel . che l'uomo tenda, più che all'avere, all'essere: si chiama "avere" questa insaziabile voluttà di acquisizione di beni, siano essi materiali siano culturali; anche quando noi avessimo nella mente tutta la scienza del mondo, noi non avremmo ancora conquistato il nostro vero "essere"; noi dobbiamo mirare a riscoprire, e potenziare, il nostro essere. Anziché ad avere, dobbiamo ambire ad essere. Essere, per l'uomo, significa sapere i suoi limiti, ma anche le sue possibilità, che sono grandi. La fralezza della condizione esistenziale si risana mediante un ricongiungimento a Dio, l'Essere per eccellenza.
Poste queste premesse, è facile dedurne una pedagogia. Ciascuno di noi ha diritto a manifestare e consolidare il suo essere: il mero indottrinamento e l'enciclopedismo e il tecnicismo  didattico non ci consentono di essere pienamente; la scuola meramente culturale impersonale, non dialogante, non è scuola, ma luogo di noia e di depressione; nella scuola secondaria, oggi, l'insegnamento è frazionato fra molti docenti; questo è un male: occorre restituire ai ragazzi l'insegnate della classe, quello che costituisca il termine vero di un umano rapporto; i molti docenti non valgono quell'uno, che deve coagulare intorno a sé il plasma vitale della scuola.
Contro l'abuso di "tests" occorre il dialogo delle anime; i "tests" potranno documentare  requisiti meccanici, ma non rivelano la dimensione delle anime.  Contro la disperata solitudine della libertà sartriana, di poter fare tutto "perché Dio non c'è", Marcel rivendica la comunicazione, che apre gli uni agli altri, e instaura una verace comunità, anzitutto trascendentale, e solo per questo anche sociale e politica,
Marcel non ha sviluppato di proposito il problema è pedagogico; la sua è una metafisica della persona; le implicanze pedagogiche sono, tuttavia, ovvie, e di un significato spiritualistico ben chiaro.»

Infatti.
In quel poco di funzione educante che la scuola è ancora in grado di svolgere - schiacciata com'è  dall'influsso dei media, non supportata dall'azione delle famiglie e ignara, essa stessa, della vera natura del proprio oggetto -, lo spezzettamento dell'insegnamento in una decina di materie (e di professori) diversi, contribuisce a rafforzare, nel giovane, l'idea che il sapere sia qualche cosa di puramente meccanico e quantitativo, e che non vi sia una vera unità di esso, così come non vi sarebbe una vera unità della persona, ossia del soggetto conoscente.
Idea esiziale; e, tuttavia, tutte le forme della società moderna sembrano andare in tale direzione e indurre a una tale conclusione.
Lo specialista è il grande protagonista dello straordinario sviluppo tecnico e scientifico degli ultimi decenni; dunque, la specializzazione sarà la chiave di volta per fornire ai giovani una cultura sempre più efficace ed al passo coi tempi. Così ragionano, o sragionano, coloro i quali, oggi, si occupano di tali problemi, posto che qualcuno ancora se ne occupi: la sensazione, infatti, è che tutto sia lasciati nelle mani del caso, e che soltanto si punti alla formazione di bravi tecnici e, appunto, di bravi specialisti.
Quanti sono ancora gli insegnati che dialogano con i propri alunni, che li fanno esprimere, parlare, scrivere; e quanti, invece, si sono affidati alla moda americaneggiante di risolvere tutto a colpi di "tests", di "quiz" e di griglie di domandine a risposta multipla e preconfezionata, esattamente come si vede in tanti programmi televisivi di giochi a premi? In quest'ultima maniera, non solo si trascura la specificità della comunicazione interpersonale e l'abitudine all'espressione dialogata, scritta e orale; ma si standardizza il momento della verifica, sopprimendo la specificità del singolo alunno e immergendolo nel mare indifferenziato delle formulette «usa e getta».
Ma tutte queste non sono che le inevitabili conseguenze di un progetto educativo che scaturisce da una società la quale ha smarrito il proprio legame originario con l'Essere, fonte di ogni verità e di ogni conoscenza.
Come è possibile insegnare qualcosa a qualcuno, se colui che dovrebbe fare luce lungo il cammino non ha la minima idea di dove voglia andare, o, peggio, se ne ha un'idea completamente distorta? Come è possibile trasmettere la nozione stessa di «verità», se si prescinde dal fondamento di ogni verità: quell'Essere dal quale tutto ha origine e al quale tutto aspira a ritornare, come se l'intero universo gemesse nelle doglie del parto?
Come ha mirabilmente sintetizzato P. F. Pollien nel suo libro «La vita interiore semplificata» (Roma, Edizioni Paoline, 1946 p. 86):

«Secondo i filosofi, vi è la verità dell'essere, la verità della conoscenza,  e la verità dell'espressione. È vero l'essere  che è quello che deve essere; vera la conoscenza che vede ciò che è nell'essere;  vera l'espressione che traduce ciò che è nella conoscenza.»

Ora, di questi tre differenti piani di verità - quello dell'essere, quello della conoscenza, quello dell'espressione - è evidente che il primo costituisce il fondamento degli altri due; se manca quello, né la conoscenza sarà vera, né potrà esserlo l'espressione. Ne consegue che, avendo la cultura moderna soppresso la nozione stessa di essere e avendola sostituita con quella, puramente immanentistica e materialistica, di esistente (cadendo poi, quale logica conseguenza, nella servile adorazione di esso), tutto il progetto educativo odierno è costruito su fondamenta instabili e illusorie, come una costruzione eretta notevolmente in altezza, ma senza basi.
Come può risultare vera la conoscenza, se non è in grado di vedere nell'essere ciò che gli è proprio; o, per dir meglio, se non vedere l'Essere in quanto tale, ma soltanto le forme contingenti e relative in cui si manifesta e di cui, per così dire, si scherma?
E come può essere vera l'espressione di una tale conoscenza, una volta che sia ridotta al livello di relativismo che fu proprio della Sofistica, ove tutte le verità sembrano equivalersi e tutti i suoi annunciatori sembrano confrontarsi esibendo le medesime credenziali di autorevolezza, a dispetto del fatto che si smentiscono continuamente l'un l'altro, come tanti imbonitori da fiera?
C'è poco da fare: se la cultura moderna non compierà una virata di centottanta gradi e non saprà ritrovare la nozione fondamentale dell'Essere, tutto il suo decantato sapere risulterà illusorio e tutta la sua pedagogia non sarà che un sistematico occultamento della verità più profonda che giace nell'anima di ogni essere umano.
Perché la verità dell'Essere non è solo fuori di noi, ma anche dentro di noi; è parte di noi: è la parte più bella, più vera, più buona. Sia tolta quella, e dell'uomo non resterà che una miseranda caricatura, una piccola cosa gonfia di superbia e di orgoglio, incapace di relazionarsi armoniosamente non solo con l'altro, ma anche e soprattutto con se stessa.
Ritrovare la via dell'Essere, per l'uomo, significa ritrovare le ragioni più profonde del proprio stesso esistere.
Ma come fare, se si continua ad inseguire il folle miraggio dell'avere, dell'avere sempre di più;, dell'avere ad ogni costo, con qualunque mezzo; dell'avere, non in vista di un progetto da realizzare, ma solo e unicamente per spirito insaziabile di cupidigia?