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Born to kill, ecco i robot da guerra

di Antonio Albanese - 03/04/2009





terminatore

STATI UNITI - «Le macchine emersero dalle ceneri dell'incendio nucleare. La loro guerra per sterminare il genere umano aveva infuriato per anni e anni. Ma la battaglia finale non si sarebbe combattuta nel futuro: sarebbe stata combattuta qui, nel nostro presente... Oggi». Chi non ricorda le frasi iniziali di TheTerminator, cult movie del 1984 di James Cameron, con un fantastico Arnold Schwarzenegger nel ruolo di uno spietato androide modello T-800? E come non ricordare anche che tutti i terminator erano creature di Skynet, sistema computeristico diffuso, assai simile a quella rete, internet, che collega il mondo oggi. «Il sistema andò online il 4 agosto 1997. Skynet cominciò a imparare a ritmo esponenziale. Divenne autocosciente alle 2:14 del mattino, ora dell'Atlantico, del 29 agosto», recita la stessa pellicola per spiegare la guerra nucleare e il conseguente conflitto tra umani e cyborg.



Questa è fantascienza, si tratta di un bellissimo ciclo di film che tra cyborg spietati assassini e uomini in fuga narra di un ipotetico futuro, ma la fantascienza bellica è molto più vicina alla realtà di quanto non si possa pensare. Anzi, siamo al primo passo che porterà nel settore una rivoluzione tecnologica pari a quella che l’I-pod ha prodotto nel settore della riproduzione musicale.

Gli Usa, oggi, dispongono di un nuovo gruppo di guerrieri che combatte sotto le sue insegne, un gruppo che ha salvato migliaia di vite e che ha disinnescato altrettanti Ied (Improvised explosive device) in Afghanistan e Iraq: i robot da combattimento, i droni.
Gli Usa hanno iniziato la loro guerra in Iraq senza disporre di alcun drone di terra e con un pugno di Uav in cielo, tutti disarmati. Nel 2004 c’erano 150 robot di terra, un anno più tardi 2400. Oggi ci sono oltre 5300 droni volanti e oltre 12mila macchine da combattimento al suolo. Si tratta della prima generazione di questi mezzi, un po’ come fu la Ford modello T per il settore automobilistico, armati e disegnati per le più disparate operazioni militari, letali e non. Potremmo dire che la “rivoluzione robotica” nel warfare (affari di guerra) è alle porte. È diventato un clichè, ormai, dire che le guerre in Afghanistan e Iraq hanno dimostrato l’insufficienza della tecnologia per vincere un conflitto. La netcentric warfare doctrine statunitense, figlia della rivoluzione dotcom degli anni Novanta, sembrava aver reso quasi superflui gli sforzi umani: internet applicato ai conflitti avrebbe reso la guerra “più umana” e soprattutto a buon mercato. Afghanistan e Iraq sono stati gli scogli su cui questa illusione si è infranta, ma hanno costituito l’occasione per un’evoluzione della tecnologia bellica applicata al contrasto delle insorgenze: è stata adoperata, infatti, la robotica (Isaac Asimov ci perdoni l’uso di un termine a lui caro).
I robot hanno occupato i cieli, il suolo e lo spazio e la loro avanzata è molto rapida. I sistemi robotici allo studio oggi sono enormemente più avanzati di quelli utilizzati nei teatri afgano e iracheno agli inizi delle operazioni. La domanda di simili mezzi sta crescendo enormemente. La vera rivoluzione, comunque, non sta tanto nel loro numero crescente, quanto negli effetti che il loro uso sta avendo in aree che spaziano dalla politica all’etica. Ad esempio, la Loac (Law of armed conflicts cioè il diritto dei conflitti armati) ha delle difficoltà nel gestire le nuove situazioni in cui operano dei warbot (war robot), dal momento che il settore legislativo si evolve in maniera più lenta di quanto faccia, invece, la ricerca scientifica.

I primi esempi di Uav, tecnicamente poco affinate, risalgono alla Seconda guerra mondiale: le forze dell’Asse usarono, ad esempio, delle rudimentali bombe volanti in vari teatri, o piccoli carri armati filoguidati (i goliath). Da quel momento la ricerca ha attraversato alti e bassi più politici che tecnologici. È logico che il Paese maggiormente interessato fossero gli Stati Uniti d’America, ma anche qui la politica lasciava poco spazio per la ricerca: solo nel 1987 furono stanziati 560 milioni di dollari per 780 droni volanti Aquila, il cui solo prototipo, però, era costato un miliardo; il programma fu cancellato.
Con la guerra del Golfo, agli inizi degli anni Novanta, e con l’avvento della rete informatica si registrò un’inversione di tendenza: il grande salto avvenne con il collegamento degli Uav alla rete militare Gps nel 1995. Da allora, l’utilizzo dei robot nei vari teatri operativi e non solo è cresciuto in maniera esponenziale; con gli attacchi dell’undici settembre 2001 e la Wot (war on terrorism), il loro impiego è pienamente integrato con quello delle forze convenzionali. In Iraq, ad esempio, dal 2002, molti Eod team (Explosive ordinance disposal, in pratica team artificieri) sono eseguiti anche da robot chiamati Fetch, versione militare di un aspirapolvere chiamato Roomba: Fetch pulisce il suolo dalle cluster bomb, Roomba dalla polvere ma il primo è un’evoluzione militare del secondo. Esiste anche PackBot, creazione del Darpa (Defense advanced research projects agency), una sorta di piattaforma con dei cingoli che può salire le scale, passare sopra rocce o dentro tunnel e “nuotare”. Accanto a queste macchine, ci sono poi quelle combattenti: come il Warrior o il Talon o lo Swords (Special weapons observation reconnaissance detection system), prima macchina disegnata per il teatro bellico. Si tratta di mezzi che portano con sè armi, tutte guidate a distanza da uomini: Swords, ad esempio, viene usato (in Iraq) per pattugliare le strade, riconoscimento, sniping, sicurezza dei checkpoint, e guardia. È concepito appositamente per la guerriglia urbana. La sua evoluzione si chiama Maars (Modular advanced armed robotic system); Maars è dotato di una mitragliatrice più potente di quella di Swords, un lanciagranate da 40mm, e anche di armi non letali come un laser e gas lacrimogeno, nonchè di altoparlanti per lanciare avvertimenti come: « La vostra resistenza è futile», eco di quel terminator con cui abbiamo iniziato la nostra analisi.
Si tratta solo della prima generazione, sono già allo studio macchine totalmente autonome, come il Gladiator, il primo «robot da combattimento multiruolo». Sviluppato dal Corpo dei Marine e dall’Università Carnegie Mellon. Questo mezzo ha, per ora, l’aspetto di un cart da golf, armato con una mitragliatrice con 600 colpi, razzi anticarro e armi non letali; costo 400mila dollari. La prima versione è stata guidata da un uomo utilizzando la consolle di una Playstation. Sono allo studio anche robot medici per le medevac (medical evacuation).

Tutto il piano di ricerca e sviluppo dei warbot fa capo al programma Future combat systems (Fcs) dell’esercito Usa; si tratta di un programma che dispone di 230 miliardi di dollari da impiegare per i nuovi sistemi d’arma sia manned che unmanned.
Per quanto riguarda i droni volanti tutti conosciamo gli Uav Predator che anche le forze armate italiane impiegano con compiti di osservazione in Afghanistan. Esistono anche altri tipi di droni volanti come il Global Hawk, versione moderna del vecchio aereo spia U2, per intenderci. Prezzo di ogni singolo apparecchio: 35 milioni di dollari; prezzo complessivo del mantenimento: 123 milioni ognuno. Gli Usa hanno stanziato altri 6 miliardi di dollari per avere 51 droni nel 2012. Esistono poi droni più piccoli, che possono essere usati direttamente sul campo, gli Shadow, gli Hunter, i Raven o gli ancora più piccoli Wasp.
Anche in questo settore siamo solo agli inizi, il prossimo passo saranno gli Ucav (Unmanned combat aerial vehicles): la Darpa sta lavorando sul Vulture (Very-high-altitude, ultra-endurance, loitering theater unmanned reconnaissance element), oppure la Lockheed Martin sta lavorando su una High altitude airship, vera nave spaziale robotica da lasciare parcheggiata nello spazio per gli scopi più svariati: nodo di collegamento per comunicazioni, hub missilistico, base di lancio per aerei e droni. Simili scenari si ripetono per la guerra in mare, solo che stavolta si parla di Usv (Unmanned surface vessels). Lo Spartan Scout è stato usato in Iraq per ispezionare imbarcazioni civili dal 2003 nel Golfo Persico. Esistono poi gli Uuv (Unmanned underwater vehicles) impiegati come cacciamine soprattutto, come il Remus (Remote enviromental monitoring unit).

La speranza nell’utilizzo di simili macchine è di evitare il più possibile morti inutili tanto tra i civili quanto tra i soldati. Si tratta, in primis, di evitare stragi di civili, come quelle ad esempio registrate in Kosovo nel 1999.
Tutto non è così semplice e diretto: l’operatore dietro un Uav è sempre un uomo che, al di là dell’apparenza, non sta giocando una partita in un videogame sparatutto e spesso la sensazione di onnipotenza provata, nei giochi come alla guida di un Uav, non è dettata da benevolenza. Si sta pensando di dotare i robot di maggiore autonomia decisionale, farne cioè delle killing machine “etiche”, cioè con stretti parametri che consentano di assumere decisioni autonome sul “se” e sul “quando” utilizzare le armi in dotazione. Si tratta, però di una questione molto delicata e sensibile per la quale né il diritto di guerra né la tecnologia sono ancora preparate: l’incubo di Frankenstein è sempre dietro l’angolo.
Ad oggi il diritto non prevede l’uso o l’autonomia di simili macchine; per comprenderlo basti pensare al diritto all’autodifesa o alla difesa di obiettivi civili. Come può il diritto dei conflitti armati del XX secolo regolare le tecnologie belliche in continua evoluzione del XXI? Chi sarebbe responsabile nel caso di “danni collaterali”? Il comandante, il programmatore, l’inventore?

In guerra abbondano gli errori umani e anche le macchine da combattimento più sofisticate non potranno prendere il posto degli uomini, almeno nel breve termine. Questo però non significa che saremo in grado di evitare le conseguenze di una scienza e di una tecnologia sofisticate al punto da creare robot guerrier, con tutte le implicazioni derivanti da un modello di guerra non più appannaggio dei soli esseri umani. Il futuro è già incombente sopra di noi e presto o tardi avremo una macchina che ci dirà come T-800: «I’ll be back!».