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Dal Partito Comunista al Partito Democratico

di Gianni Duchini - 03/04/2009

 


Nella storia del capitalismo italiano fin dalla sua costituzione a Stato (1876), si è andato caratterizzando uno sviluppo economico a prevalenza agricolo, rispetto a quello più industrializzato europeo. Si pensi soltanto che l’industria italiana, per cercare di allargare il proprio fabbisogno finanziario nazionale necessario ai maggiori investimenti industriali, ha dovuto far ricorso dapprima alle banche francesi, poi a quelle tedesche, successivamente, fin dal primo dopoguerra (1918) a quelle Usa. Una storia ripetuta nel secondo dopoguerra(1946) con il piano Marshall (Usa), che finanziò, una industria pronta alla competizione grazie ad una burocrazia efficiente e una classe politica italiana costituita da dirigenti capaci, non ancora adusi alle nobili aspirazioni di diventare i zerbini Usa dei giorni nostri. Un lungo dopoguerra guidato da professionisti della politica a prevalenza democristiana, che ha garantito in Italia, per circa Venti anni, un tasso di sviluppo pari all’incirca del 6-7%, mantenendo e rafforzando una imponente struttura industrial-finanziaria dell’Iri, gestita “a Sistema,” come si conviene ad un paese con l’ambizione di avere una industria competitiva: fine ultimo ed irrinunciabile della salvaguardia degli interessi nazionali in “summa rerum;”

Si andò delineando così un marcato sviluppo economico, che maturò inoltre anche per una originale convergenza storica, in/tra la divisione dei due blocchi Ovest-Est e dove gli Usa allinearono la ‘parte’ italiana dentro la zona del proprio dominio occidentale fin dalla loro occupazione(1944), attraverso la creazione di un governo di “Liberazione”, in accordo con i costituendi partiti che intendevano uscire dal fascismo, insieme alla rilevante componente comunista. Togliatti, come segretario del partito comunista, fissò, con la “svolta di Salerno”, una piena adesione ai principi delle democrazie parlamentari, nella ben nota “Via nazionale al Socialismo”. Una impostazione in piena adesione alle democrazie occidentali i cui gradi di (in)tolleranza nei confronti dei partiti comunisti (che dipendevano dall’URSS), dovevano essere ancora vagliati attentamente, nel campo delle intese politiche nazionali. Quest’ultima fu la ragione principale per cui l’Italia venne assegnata in “zona di decantazione”, entro cui, le ragioni dei rispettivi domini di competenza delle due aree “monocentriche”, Usa e Urss, potessero continuare ad esercitare il rispettivo dominio in confini ben definiti. Un sistema politico italiano, venutosi a creare già prima della fine della guerra, in piena occupazione americana, in accordi presi tra le due (super)potenze vincitrici (USA e URSS) e siglati negli accordi di “Jalta,” tesi a occupare uno snodo geopolitico, in cui potessero convivere zone periferiche a sistemi politici ambivalenti: due linee politiche, democristiane e comuniste, in grado di coniugarsi e configurarsi in un apparente mutamento di prospettiva, similmente, come poi avvenne, ad una sedimentazione degli ultimi fuochi ideologici.

Il partito comunista fu (ri)fondato a Napoli nel 1944, con un taglio a misura della levatura intellettuale di Togliatti, e con una scelta di dirigenti politici della “prima ora,” scelti, tra gli intellettuali che avevano dapprima partecipato al Ventennio fascista, e poi, successivamente, nella resistenza, oltre al gruppo storico degli esuli antifascisti, dei vari, Amendola, Sereni, Longo, Pajetta…; e del resto, non poteva non essere diversamente, tanta fu la distanza intellettuale e politica di Togliatti come segretario nel fissare tutta la linea politica al resto del partito: un innesto fondamentale e provvidenziale reso possibile da una selezione dall’alto della sua figura carismatica di profondo conoscitore della situazione internazionale, grazie alla sua collaudata esperienza di dirigente di grado più elevato dell’Internazionale Comunista, oltre a quello di essere stato il consulente più ascoltato di Stalin; e forse, proprio quest’ultimo aspetto consentì all’Italia di entrare in un gioco geo-politico più complesso e più aperto dal punto di vista internazionale (rispetto agli altri paesi europei), pur rimanendo nella sostanza, un fedele alleato Usa.

La caratura politica di Togliatti ebbe modo di misurarsi da subito, nell’immediato dopoguerra, con le politiche espansive (non solo dell’economia) della Dc, che tese a inglobare tutte le forze politiche residue che non avevano aderito al comunismo. A fronte di un primo sostanziale isolamento, ad esclusione del contiguo Partito Socialista, il Pci non disdegnò accordi politici con la Dc, sulla gestione della Spesa Pubblica, in derivazione di una necessario radicamento storico da realizzarsi in una compartecipazione di potere sempre più spinto nelle istituzioni, ed in piena sopravvivenza, dei suoi principi (puramente ideologici), e delle tradizioni politiche che affondavano già dai primi movimenti socialisti operai di fine Ottocento. Ma l’innesto fondamentale di Togliatti fu con il Partito comunista di Gramsci, con cui fu uno dei fondatori e coautore delle “Tesi di Lione” del 1926. E’ da questo innesto fondamentale, che Togliatti operò la trasformazione sostanziale del partito di Gramsci: un processo di adattamento del leninismo di Gramsci allo stalinismo di Togliatti sulla concezione e costruzione del partito, nella sua identificazione con lo Stato (si ricorda il vecchio slogan del Pci” la classe operaia si fa stato”). Da qui soltanto si può partire per comprendere meglio l’ambivalenza della “via nazionale al socialismo” nel tentativo di introdurre in Italia i principi del “Socialismo reale” dell’Urss, sulla base del contesto storico italiano (via Nazionale).

Questo innesto ideologico fu sempre perseguito di Togliatti (almeno fino alla sua morte) con la spiegazione, che “ Lenin ..apre a tutto il marxismo la strada di un nuovo sviluppo creativo affermando che condizione della rottura rivoluzionaria è lo sviluppo e lo scoppio delle contraddizioni del capitalismo giunto alla fase imperiale….” dal cui consolidamento a Unico paese socialista “era in atto lo sforzo borghese di restaurazione riformista, la classe operaia ,..affermava la sua egemonia in una competizione mondiale ..in guerra di posizione.. e che secondo Gramsci si era passati alla fase decisiva della lotta, nella fase più difficile..” (citazioni prese dagli “Appunti per la relazione su Gramsci e il Leninismo” scritti da Togliatti per il convegno di Studi gramsciani tenuti a Roma nel 1958). Nella guerra di posizione troviamo l’innesto ideologico maggiore di Togliatti in Gramsci, nell’idea di una organizzazione a partito, che per sopravvivere deve resistere per trovare una corrispondenza biunivoca, tra “la pratica-pratica” del partito e la costruzione dello stato: mano a mano che cresce l’organizzazione crescono insieme ad essa pezzi di stato.
Togliatti intese tale resistenza (e/o guerra di posizione) come potere da conquistare rafforzando l’organizzazione della classe operaia nella democrazia parlamentare, come “viaggio dentro le istituzioni.” Visto al contrario, la “guerra di posizione” del partito comunista, di Gramsci, doveva assumere un compito storico di guidare resistenza della classe operaia (in collegamento all’internazionalismo proletario), rispetto all’onda montante delle reazioni che i governi occidentali adottarono, per ridimensionare il nuovo evento imprevisto della rivoluzione russa.
Il partito di Togliatti risultò nella storia italiana una organizzazione “monolitica” in concorrenza con gli altri partiti e tutta interna al gioco della democrazia parlamentare e che divenne di fatto una corposo monopolio pubblico: un coacervo di interessi industrial- finanziario, con tutti gli annessi e connessi dei mass-media, fino al mondo universitario.



Un partito di “governo” ed al tempo stesso di opposizione, sempre pronto a sostituirsi agli altri (o in coalizione e/o dall’esterno); non è un caso che il modello di riferimento era il Socialismo di Stato,” dell’Urss, similmente ad una declinazione italiana del modello di “Capitalismo di stato” (vedi il sistema “dell’IRI”). Una organizzazione di partito ‘in progressione’, i cui crescenti consensi elettorali consentivano, sempre secondo la vulgata comunista, di realizzare un più elevato sviluppo delle forze produttive e impedite, fino ad allora, da una mancata “Rivoluzione borghese.”

Certo è che quel lontano periodo storico, di sviluppo economico-industriale a guida democristiana, si concluse con la morte di Togliatti: simbolo della fine di una fase ideale e politica, accompagnata ad una improvvisa cesura storica, fino ad allora sopravvissuta; effetto del resto, di tendenze già in atto del capitalismo italiano, per processi d’induzione d’oltre Atlantico, dovuti in gran parte all’estendersi in Europa dei “Funzionari del Capitale” (Capitalismo Manageriale Usa). Il partito comunista italiano della “Via Italiana Al Socialismo” di togliattiana memoria, non fu indenne da quei cambiamenti. Con Berlinguer, come segretario del Pci eletto (1972) attraverso una mediazione tra l’ala riformista della destra amendoliana e la sinistra ingraiana, si andò delineando non solo la nomenclatura politica tra capi e capetti sopravvissuti fino al dopo “mani pulite” quanto e soprattutto, con effetto di trascinamento, dal dopo la morte di Togliatti (1964), nella sopravvivenza del partito comunista come partito “salvifico” (si ricordano i manifesti del partito comunista di Berlinguer dei primi anni Ottanta come il partito dalle “mani pulite”), con l’occupazione dello Stato, onde governare interamente l’economia, la società la cultura… Insomma grazie al partito comunista berlingueriano, del dopo Togliatti, si continuò a sollecitare quel lungo processo storico del Pci dentro le istituzioni, trascinando con sé, tutto il suo apparato burocratico partitico-sindacale, in un primo abbozzo di Unità nazionale uscita dal “Compromesso storico” con la Dc (1972). Tutto ciò a ridosso di cambiamenti geopolitici, che la sconfitta Usa in Vietnam seppe delineare, nei contraccolpi del cortile di casa propria (i golpe militari pilotati dagli Usa in America Latina), come segnale forte, di contenimento, alle lotte di “liberazioni contro i colonialismi”, che si andavano ormai dispiegando in tutti i Continenti del Terzo mondo, grazie soprattutto agli aiuti finanziari-militari dei paesi socialisti.

Nel frattempo, Gli Usa, con la loro prima grande sconfitta militare, pur segnando un apparente arretramento della propria strategia, affinavano nuovi strumenti di dominio, dell’insieme del complesso strategico, oltre a quello prettamente militare; un processo che comprendesse una “longa manus”, da usare in modo alternativo, in relazione agli esiti che si volevano prefigurare; uno dei tanti strumenti politici dispiegati dagli Usa nell’approfondire il dominio nei confronti della propria parte occidentale fu il “Controllo finanziario”, con il decreto della fine (1972) degli accordi di “Bretton Woods” (1944), con cui Il Fmi poteva convertire in oro o dollari i versamenti delle banche centrali dei paesi membri, che potevano prendere a prestito, per finanziare i propri “deficit temporanei” di bilancio. Un segnale forte sull’insieme dell’economie mondiali (in crisi), in una fase storica che si stava chiudendo, insieme ad un rafforzamento del proprio Centro finanziario (in una accentuata finanziarizzazione dell’economia mondiale), in una sorta di resa dei conti, volta ad un accerchiamento della formazione economica-sociale dell’Est Europa (U.R.S.S.), già in fase critica e che secondo l’espressione di Berlinguer si riassumeva: in “esaurimento della spinta propulsiva della “Rivoluzione d’Ottobre” (e da qui la famosa e risibile proposta di un “Eurocomunismo”), così da accelerare dall’interno, la sua implosione, poi avvenuta, con la “caduta del muro di Berlino.”

Per altri versi, l’Italia ha sempre rappresentato il banco di prova di quei cambiamenti internazionali, anticipando, nei segni più profondi, quei mutamenti. La “Mani pulite” italiana è stata il segnale in Europa di un profondo riposizionamento geopolitico Usa, che segnò l’avvio di una fase pienamente monocentrica, con “l’allargamento” oltre i confini dell’Est Europa, in un “attraversamento strategico” oltre il confine italiano, inteso fino ad allora come “ponte ideologico” con l’Est, ed in particolare nei confronti dei paesi arabi.

In tutto questo, la storia del Pci si potrebbe dividere grossolanamente in tre parti: una prima, fino alla morte di Togliatti, una seconda, fino alla caduta del “muro di Berlino,” ed una terza, dal dopo “mani pulite” ai giorni nostri; periodi lasciati in eredità (un vuoto storico) agli storici di professione per un loro maggior e più puntuale approfondimento, nel mentre, si può fare soltanto qualche lumeggiamento storico, al fine di rendere più comprensibile quella storia, e cercando di attualizzarla ai giorni nostri. Quello che intanto risulta definitivamente chiuso, in un finale tragico ma non serio, una storia comunista da un passato glorioso: la trasformazione di un Partito comunista (Gramsci-Togliatti), in un PD (Partito Democratico), similmente alla “Creatura” del dottore “Frankestein”, fatta rinascere a nuova vita dai tanti neo-catto-comunisti.