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Melancholia I e psicoanalisi

di Emilio Michele Fairendelli - 21/04/2009

I La psicoanalisi come nemico

Ricerca spirituale e psicoanalisi sono sempre stati posti in antitesi.
Le critiche di Guénon e di Evola alla psicoanalisi e ai suoi “misfatti” all’interno del mondo della modernità, le affermazioni di un pensatore indiano come Sri Aurobindo, formatosi intellettualmente all’interno della cultura occidentale, sono chiare e ben note e il nucleo centrale delle stesse incontrovertibile.
A distanza di più di mezzo secolo è possibile riattualizzare, pur nella brevità richiesta alle mie note per la loro sede, tali critiche.
Coerentemente alla prognosi guenoniana questo mezzo secolo ha completamente rovesciato le forme e i tempi del mondo materiale così come quelli della coscienza umana, la gerarchia stessa tra i vari livelli che la compongono.
La psicoanalisi ha perso la rigidità tipica di ogni teoria o scienza appena istituita e ha elaborato se stessa; critiche rivolte a una struttura e a statuti puramente freudiani non sono già più applicabili, p. e., a Adler o Jung o a percorsi successivi come il Sistema delle Costellazioni di Bert Hellinger: non solo il mondo è cambiato, ma anche la psicoanalisi.
Quando Evola scrive “…la concezione freudiana dell’uomo è il disconoscimento, nell’uomo, della presenza e del potere di qualsiasi centro spirituale, sovrano, insomma dell’Io in quanto tale.” , scrive qualcosa di ingeneroso, perché il problema denunciato è in verità molto semplice ed è quello della determinazione di un campo di libertà da dove ogni conquista individuale, e il cammino dell’uomo verso il Regno dello Spirito, possano avere un inizio reale.
L’Io di Evola è l’Io di volontà e potenza, un Io superomista, egli stesso argomenta “…la psicanalisi è un pericolo (solo?) quando non premetta a se stessa una disciplina volta a formare una unità spirituale, una personalità vera al luogo di quella esteriore e inconsistente creata dalle convenzioni sociali, dai mediocri frammenti di un desiderio assunto e addomesticato, dagli sfoghi isteroidi”.
Tale disciplina, che permette la non pericolosità, e quindi una possibile utilità della psicoanalisi, esiste; non è forse identificabile, aldilà di ogni giudizio, nella visione dell’ebraismo, la sua matrice antropologica?
Il determinismo della scienza freudiana viene accusato di essere assoluto? Si potrebbe chiedere estrema flessibilità a una scienza (della mente e dei suoi livelli) all’inizio del suo stabilirsi? Quando deve infrangere i muri di granito dei modi del sapere precedente? La teoria newtoniana della gravitazione universale ha reso possibile le teorie di Einstein e quelle quantiche, ma non contiene ovviamente in sé alcuna capacità di comprendere quella successiva visione del mondo. Non è per questo meno vera, e, senza di lei, il niente a seguire.
Non si tratta di avventurarsi nelle cantine buie e maleodoranti dell’essere per credere che su quel solo livello tutto debba essere agito e per negare che tutto debba essere trasformato da una Luce superiore di ordine spirituale, ma proprio per vedere quanto non era visibile, riconoscerne i meccanismi di azione, nominare le cose, dire, infine, la Verità.
E salire con qualcosa in mano. Perché la Luce possa così scendere in quello spazio guadagnato, prima occupato ed ora vuoto.
Non temere l’atroce, l’oramai irreparabile, ma guardarlo in viso, ascoltarlo.
L’analista, anche quello delle origini, agisce come chi apre in un uomo ferite dove stavano da sempre schegge di vetro dalle forme orrende, come stelle distorte, le estrae lacerando le vene ed i tessuti in cui sono immerse per poi illuminarle al di fuori del corpo, come prima giustizia.
Questa illuminazione è, di per sé sola, una grande ragione per dire sì al principio base del lavoro psicoanalitico.
La luce (intendo qui il termine nella sua accezione materiale, la semplice luce solare) ha il potere di attivare processi biologici, di legare e di dissolvere, come per esempio avviene per una patina opaca sul velo superficiale di uno specchio di acqua limpida.
E’ una legge fisica, che simboleggia una profonda realtà nell’ordine spirituale.
Di questo solo si tratta: illuminare.
La luce che circola nel mentale e nel vitale, nell’infraconscio dove la psicoanalisi opera, non è la Luce suprema, e tuttavia una luce degna e sufficiente.
Il lavoro di affinamento metodologico nella ricerca psicoanalitica è stato negli ultimi decenni enorme, in alcune ricerche recenti (tra le altre il già citato Sistema delle Costellazioni di Bert Hellinger) si è già giunti all’ipotesi di un continuum impersonale che agisce ancora per categorie ma non per spazi consueti ed è altro anche rispetto ai sistemi degli archetipi e dell’inconscio collettivo: una visione integrale, vedantina, del mondo non è lontana; presto realtà dichiarate come inconciliabili si uniranno all’interno di un unico processo di comprensione dell’uomo, dei livelli del suo essere e della Manifestazione in cui è immerso.

II Melancholia I

Questa notte mi è apparsa in sogno, indicatami senza parole, da un uomo dalla tonaca scura e incappucciato, l’incisione Melancholia I di Dürer.
Tradizionalmente, l’immagine è intesa come illustrazione di simboli del mondo ermetico-alchemico mentre la figura alata rappresenterebbe l’artista vinto ed impotente di fronte al compito cui è chiamato: raggiungere il più alto livello dell’espressione artistica, la Pietra dell’Arte.
E’ curioso che questo tema sia trattato da Dürer proprio al culmine delle sue capacità: la qualità dell’incisione, dei grigi e delle ombre è tale da dare profondo smarrimento a uno sguardo ravvicinato.
Alcuni degli elementi presenti nella composizione, su cui sono stati spesi fiumi di inchiostro circa corrispondenze simboliche, ermetiche, geometriche, numerologiche, si prestano anche a essere letti con un approccio psicoanalitico.
Sostituiamo al compito di trovare la Pietra o di elevare il proprio linguaggio al massimo livello dell’Arte il compimento di sé, la consapevolezza del proprio agire qualunque esso sia, il centrarsi della propria individualità, le difficoltà che si frappongono, il Male che lascia i suoi segni come detriti:

- il compasso, simbolo del comprendere e dell’agire spirituale è al petto o quasi, ma impugnato impropriamente non per il fulcro ma per un’asta; in questo modo lo strumento non potrà che operare in modo imperfetto e deviato, non potrà tracciare da un centro, inscrivere segni e parole che troverebbero in questa inscrizione il loro ordine, il loro senso;

- il macigno, il romboedro imperfetto è la controparte formale della figura alata; il suo peso nella composizione dell’incisione è visivamente quasi insopportabile, minaccia il fragile costato del nudo agnello a terra, ravvolto ed inerte, che non può così rappresentare più alcuna innocenza e la cui vita appare al termine, sbarra la strada verso la scala che sale a un luogo non visibile, verso l’orizzonte aperto; un teschio umano, evanescente, è inciso da Dürer con una qualità quasi metafisica che supera ogni limite dello strumento, il bulino, del supporto materico e delle dimensioni ridottissime dell’incisione, su un piano del romboedro che diviene così specchio per il viso della figura principale; la figura solida non rappresenta come sempre è stato argomentato la perfezione del cristallo di sale alchemico (diversamente il personaggio alato, che non ha il coraggio di guardare e dunque “vedere” nulla - neanche l’immagine della propria morte - lo contemplerebbe e la posizione stessa del romboedro sarebbe differente) ma la versione rotta e incompleta, opprimente, del poliedro perfetto, trasparente e sospeso, un rombocubottaedro, che appare nel ritratto di Luca Pacioli, religioso e matematico con cui probabilmente Dürer entrò in contatto diretto, attribuito a Jacopo de’ Barbari; un blocco pesante, senza risoluzione, per ora immodificabile;

- gli strumenti dell’operare e una sfera perfetta, sono a terra, più importanti di quanto è alle pareti, ricchezza umile e incomparabile ad un tempo - ne conosciamo infatti la funzione ma non gli esiti - caduta, tralasciata, senza cura; occorrerebbe chinarsi, ricomporre, lavorare con resti e frammenti dopo che qualcosa di innominabile è accaduto, riordinare, rinunciare alla perfezione e tuttavia agire; un piccolo essere, un genio, a sua volta alato siede mestamente su una ruota di pietra priva di asse, impossibilitata a muovere;

- al di sotto dell’arcobaleno, certamente serotino e più definitivo di qualunque tramonto perché tutto lo spettro della luce vi è convocato, la coda della cometa è tracciata denunciando l’allontanamento della Luce dalla scena; resta così un cielo destinato all’oscurità e in quello la scritta ostesa dal demone, il nostro nome, un nome che è anche colpa, il nostro vero nome di oggi, ancora irretito, prigioniero;

- Federico Zeri ha sostenuto che la prova assoluta della qualità di un dipinto è nella sua capacità di sopportare ingrandimenti anche di venti, cinquanta volte, lo si proiettasse su enormi muri; questo è certamente vero anche per le minime (24 x 19 cm) dimensioni di Melancholia I; ingrandita su una parete l’incisione non solo non denuncia alcuna perdita di qualità ma mostra, per quanto qui interessa, qualcosa di sorprendente; la figura alata, che in una visione per così dire letteraria dell’incisione viene percepita come mesta e corrucciata, è invece sorridente; tale sorriso, che vive in pochi millimetri, è ambiguo, nascosto da Durer dietro la mano su cui appoggia un lato del viso, ma chiarissimo; come già detto la figura non osa guardare alcun elemento della composizione, né il cielo in alto a sinistra; il suo sguardo è rivolto nella direzione del piede nascosto dell’arcobaleno, verso qualcosa che non sappiamo, al di fuori della composizione; qualunque cosa la figura guardi con luminosità interiore è altro rispetto ai crolli e alle devastazioni, alle incompiutezze della scena: un approdo ulteriore della coscienza, un “sì” ad un proprio destino di cui nulla è detto se non la necessità del suo costruirsi.