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Se le anatre fanno mobbing

di Paolo Giordano - 28/04/2009

 

Così un fenomeno naturale è diventato un virus della modernità
Mobbing è un termine che sa di nuovo. Richiama alla mente l'odore bruciato dei fogli
fotoco­piati, il frullio intermittente delle ventole che raffreddano i computer
sempre accesi, il gonfiore delle caviglie da troppe ore incrociate sotto la
scrivania, i neon rettangola­ri appesi al soffitto e il linoleum traslucido
in­collato al pavimento. Come molti inglesismi con la desinenza -ing (stalking,
phishing, hacking, spamming...), il mobbing viene spes­so classificato come una
cattiva abitudine del­la modernità, un virus creato dal progresso, incubato nella
cattività dell'ufficio e rimesso pericolosamente in circolo, infinite volte, dai
sistemi chiusi di aerazione.

Invece, il mobbing è innanzitutto un feno­meno naturale. L'etologo Konrad Lorenz,
pre­mio Nobel per la medicina nel 1973, fu il pri­mo a utilizzare il termine, parlando
di anatre selvatiche, per descrivere l'aggressione di un gruppo ai danni di un altro
esemplare. Un as­salto collettivo, con lo scopo di spaventare e allontanare il
singolo, percepito come minac­cia. In effetti, si tratta proprio di questo.

Comincia senza clamore. Un giorno scopri di essere stato spostato di ufficio. Vieni
separa­to dal collega con cui condividevi le pause caf­fè e commentavi le partite
della domenica. Ti dispiace, ma potrebbe anche trattarsi di una svolta positiva:
ora, alle scrivanie accanto alla tua, siedono infatti due impiegati che hanno grande
confidenza con il nuovo capo. Sembra­no amichevoli, ti propongono delle uscite
se­rali, di andare a fare jogging insieme, ma poi, per ragioni ogni volta diverse, non
si combina mai nulla. I ritmi rallentano, c'è meno da fare. Con il tempo, avverti
un'incipiente fiacchezza, hai l'impressione che i compiti che ti vengono affidati
siano via via più semplici, quasi incon­sistenti. In silenzio, ti capita di
domandarti sempre più spesso se il tuo lavoro sia veramen­te utile
(«demansionamento»). Poi, a pochi giorni dalla conclusione del progetto che ave­vi
ideato, curato e portato avanti per mesi, ti viene comunicato che la responsabilità
non è più tua, che il timone passa a una coppia di stagiste inesperte («straining»).
Allora non so­no io, dici, sono loro. Già, ma loro chi? I due compagni d'ufficio fanno
spallucce: non trova­no ci sia nulla di strano («Non sarai troppo stressato?»).
Ormai è da tempo che non ti invi­tano a unirti alle loro pause caffè. Li sorprendi
spesso a parlare sottovoce, gli occhi puntati nella tua direzione, quasi stessero
cospirando («mobbing orizzontale»). Il capo è sempre troppo impegnato per
riceverti, non risponde neppure al telefono («mobbing verticale», «bossing»). Ti
ritrovi accerchiato e solo, con quel senso d'impotenza kafkiano che prende quando,
dopo mesi di un disservizio irrisolto, la ragazza di un call-center risponde: «No,
non posso passarle il mio superiore. Non ho neppure il suo numero». La certezza del
com­plotto arriva quando il tuo account e-mail vie­ne bloccato. Improvvisamente
hai paura. Di cosa? Di qualcosa di spaventoso, come solo ciò che è invisibile può
essere. Inizi a soffrire di nausea, hai le vertigini, forti mal di testa («disturbo
post-traumatico da stress»). «For­se ti serve una vacanza», consigliano i
colle­ghi. Tu diventi irascibile, ti dibatti come un pe­sciolino stretto in una
mano, minacci azioni legali e questo non fa che giustificare e alimen­tare ogni
ulteriore ostilità nei tuoi confronti.

Infine, una mattina come tante, trovi la stan­za d'ufficio misteriosamente
spopolata. Sulla tua scrivania sgombra è poggiata una lettera. Licenziato. La
giusta causa? I ripetuti ritardi. Umiliazione, panico, svuotamento. C'è una
se­quenza della brillante fiction televisiva The Of­fice, realizzata nel Regno
Unito dalla Bbc e tra­smessa in Italia da Mtv, che racconta esatta­mente questi
istanti. Nell'ultimo episodio del­la seconda serie il viscido, compiaciuto ed
esi­larante protagonista David Brent viene licen­ziato (gli inglesi hanno una
forma più genti­le/ ostile per dirlo: to make redundant, rende­re superfluo).
Inizialmente, Brent abbozza di fronte al superiore, che gli ha appena comuni­cato la
notizia. Ma, quando questo gli tende la mano per la stretta finale, lui gliela
trattiene. «Don't make me redundant - sussurra, sup­plichevole, spogliato di ogni
dignità -, plea­se ». Non mi licenzi. Per favore.

Sul sito dell'Aivil (Associazione Italiana Vit­time e Infortuni sul Lavoro,
www.associazio­neaivil. com) c'è scritto che, a differenza di al­tri problemi la
cui portata si può intuire con uno sforzo di immaginazione, per quanto ri­guarda le
situazioni di emarginazione profes­sionale o stress lavorativo, «solo
l'esperienza diretta, non sempre facilmente comunicabile razionalmente, non
sempre oggettivabile» è in grado di fornire un'adeguata comprensio­ne.

Ma, quantomeno per intuire la portata del disagio, si può leggere il romanzo di
Annette Pehnt, intitolato proprio Mobbing, appena pubblicato in Italia
nell'affidabile collana Bloom di Neri Pozza (traduzione di Riccardo Cravero, pp.
154, e 15). L'autrice tedesca rico­struisce un caso emblematico di mobbing, dalle
prime avvisaglie fino all'inevitabile epilo­go, con perizia documentaristica ma
senza al­cuna pedanteria, in uno stile incalzante e sin­copato. Joachim viene
ostracizzato dai colle­ghi, esautorato del proprio ruolo e infine eli­minato. La
sua discesa agli inferi è raccontata dalla moglie, con la voce allarmata,
compas­sionevole, affettuosa, irritata e talvolta esau­sta di chi non vive la
situazione in diretta, ma ne paga tutte le conseguenze. La protagonista assiste alla
distruzione di suo marito, che gli assilli lavorativi rendono addirittura incapace
di baciarla, di aiutarla ad accudire le due fi­glie piccole, di stringerle la mano
dopo il lun­go travaglio che precede la nascita della se­conda.

Per Annette Pehnt, il mobbing non esauri­sce il suo effetto sulla vittima designata.
È una catena disastrosa: dal marito alla moglie, dalla madre al figlio, dalla coppia
agli amici, e così via. Il nervoso accumulato in ufficio si sfo­ga in una risposta
aggressiva data a casa, la preoccupazione per i soldi che cominciano a scarseggiare
diventa una sberla di troppo alla bambina, l'impossibilità economica di
per­mettersi le vacanze «come tutti gli altri» un disincentivo per telefonare anche
all'amica più cara. Prima ancora di suo marito, la prota­gonista è forse una vittima
del mobbing, di un mobbing diverso però: casalingo, striscian­te, accolto come un
sacrificio dovuto alla fami­glia. Ha abbandonato il lavoro di traduttrice per
restare con le bambine, fino a confinarsi nel rassicurante e desolato isolamento
dome­stico, dove - proprio come nell'azienda del marito - non ha nessuno con cui
confidarsi, e dove le figlie sono una presenza incancella­bile e spesso alienante,
«valvole di sicurez­za », che costringono a comprimere la rabbia nel petto, senza
lasciarla mai esplodere.

Il mobbing è un fenomeno naturale. Appar­tiene alle anatre selvatiche e agli esseri
umani, a ogni branco ed eco­sistema. È una crudele dinamica di sopravvivenza. Di
certo, l'ostraci­smo dal proprio ambiente lavorati­vo è una condizione difficile
da im­maginare, se non la si sperimenta in prima persona. Ma per avvici­narvisi è
possibile fare un salto in­dietro, a quando eravamo bambi­ni, a quando eravamo più
spietata­mente «naturali», e rivivere una scena quoti­diana. Un bambino si
avvicina a un gruppo di compagni di scuola, riuniti in cerchio intorno a un percorso
per le biglie, le mani poggiate a terra, le teste chine. Chiama il capetto,
toccan­dolo timidamente sulla spalla: «Posso giocare anch'io?». «No, tu no».
Qualcuno fa eco alla ri­sposta, qualcun altro tace, imbarazzato: il lea­der non va
contraddetto. Fuori da quel cerchio ci siamo stati tutti, almeno una volta. E quella
risposta negativa e ingiustificata l'abbiamo da­ta in altrettante occasioni. Se
abbiamo sempli­cemente taciuto, non fa poi molta differenza, mobbizzati e
mobbizzatori che siamo.