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Quando la donna è il buon genio dell'uomo: Almerina e Dino Buzzati

di Francesco Lamendola - 02/05/2009


L'incontro tra l'uomo e la donna è un incontro decisivo per la vita di entrambi, a partire dall'incontro madre-figlio e, più tardi, nelle amicizie e negli amori che si instaurano fra i due sessi nel corso della giovinezza e di tutta l'età adulta.
Nell'articolo «Nella parabola del Maestro e Margherita l'incontro felice tra il maschile e il femminile» (consultabile sul sito di Arianna Editrice) abbiamo svolto alcune riflessioni sulla ricchezza meravigliosa che l'uomo e la donna possono donarsi reciprocamente, se sono capaci di spogliarsi del proprio egoismo e di aprirsi con vera dedizione, ossia con sincera preoccupazione del bene dell'altro, alla prospettiva del «tu».
Ma può anche accadere che l'incontro fra l'uomo e la donna diventi l'infernale campo di battaglia di passioni disordinate e di rancori e frustrazioni inconfessabili, che sfociano nella reciproca devastazione; e anche di ciò abbiamo parlato in vari scritti, e specialmente nell'articolo «Quando la donna è il cattivo genio dell'uomo (e di se stessa)» (anch'esso sul sito di Arianna), particolarmente dedicato al caso dello scrittore svedese August Strindberg e della sua prima moglie, l'attrice Siri von Essen, che gli diede due bambini.
Abbiamo anche sostenuto che la psicologia maschile non può fare a meno di rappresentarsi in forme idealizzate la figura femminile, ciò che corrisponde non tanto a un «topos» letterario ed artistico, ma ad una esigenza reale e profonda, che trova la sua radice in una effettiva disposizione della donna normale, ossia della donna non ancora impazzita a causa dei meccanismi stravolgenti della modernità (cfr. F. Lamendola, «Ma una certa idea della donna resterà sempre come un sogno di pace e di bellezza», sempre sul sito di Arianna).
Ma non è il caso di parlare solo in astratto di una dinamica che è osservabile nella vita reale; e, per fare un esempio tra i più felici e convincenti dell'influsso positivo che una donna può esercitare su un uomo, specialmente se quest'ultimo sia stanco e non più giovane, provato da molte battaglie interiori e anelante ad una certezza superiore che, tuttavia, non riesce a trovare, possiamo prendere quello dello scrittore bellunese Dino Buzzati - l'autore del celebre «Il deserto dei Tartari» (del cui film omonimo ci siamo già occupati nella rubrica «Un film al giorno») e di altri libri di successo, come «La boutique del mistero» o «La famosa invasione degli orsi in Sicilia» - con una donna bella e giovanissima, dolce e piena di vita, che rallegrò i suoi ultimi anni e divenne sua moglie e la sua compagna fedele al capezzale dell'ultimo viaggio verso l'Altrove.
Dino Buzzati, veramente, si considerava prima un pittore e poi uno scrittore e un giornalista; si considerava, per essere precisi, un pittore con l'hobby della scrittura; e, in effetti, è difficile separare le due facce della sua creatività artistica, come in quel bellissimo quadro, «Il Duomo di Milano», in cui la stupenda cattedrale gotica del capoluogo lombardo appare trasfigurata in una montagna fastosa e indecifrabile, che ricorda le sue amate Dolomiti, ma anche un'opera della mano umana, sospesa tra realtà e fantasia come un paesaggio metafisico del primo De Chirico.
Ma torniamo all'incontro felice di Buzzati con la giovane Almerina: la quale, per usare l'espressione di Vittorino Andreoli, svolse la preziosa funzione di insufflare nell'animo dell'artista quasi anziano  una bella carica di «élan vital» (per dirla con Bergson).
Una felice sintesi di quell'ultimo capitolo della vita di Buzzati è contenuto nel libro di Lucia Bellaspiga «Dio che non esisti, ti prego. Dino Buzzati, la fatica di credere» (Milano, Àncora Editrice, 2006, pp. 167-68):

«Oggi di nuovo, come in tante altre occasioni, ma con lo stesso stupore di una volta, entro in casa Buzzati. "Avanti - mi dice la voce acuta di Almerina, voce ancora di Almerina. Quando, nel 1966, si sposarono, lei aveva 25 anni, lui 60, trentacinque di più. Da quel giorno lei è stata l'allegra vestale del suo mondo fantastico, l'ispiratrice di quadri e disegni famosi, la donna che con la sua estrosità ai limiti dell'originale spesso lo divertiva, a volte lo spaventava. In comune avevano il rifiuto di ogni conformismo. "Ci siamo sposati l'8 dicembre, lo abbiamo deciso il 7, il giorno prima. Non lo abbiamo detto a nessuno e nella chiesa di San Gottardo  eravamo in cinque: noi due, monsignor Ernesto Pisoni, e i due testimoni, l'editore Neri Pozza e sua moglie Lea. Furono loro tre a organizzare il tutto a nostra insaputa: il 7 sera ci attirarono in un ristorante e buttarono là la proposta, "perché non vi sposate domani?". Noi rimanemmo interdetti, Dino mi chiese cosa ne pensassi, io non avevo nulla in contrario. I documenti? Monsignor Pisoni aveva già preparato tutto.". Il matrimonio restò segreto per quasi un anno, nemmeno i parenti o l'amico Gaetano Afeltra ne seppero nulla. "Quando si venne a sapere successe un finimondo. Ma avvennero anche scenette divertenti - ride Almerina- : i salotti buoni di Milano, ora che ero ufficialmente la moglie con tutti i crismi, iniziarono a invitarmi alle feste più in. Pensare che anche prima ero sua moglie, ma credendomi la fidanzata mi lasciavano a casa… Dino odiava certi ambienti snob, pieni di soldi e privi di cuore, e io ero la sua rivincita. Si divertì un mondo a vedere le loro facce quando, tolta la lunga mantella, rimasi in minigonna: allora era una rarità, Maria Pezzi mi aveva portato da Londra il primo esemplare di Mary Quant…".
Almerina non fu l'amore nel senso più appassionato del termine, "io i tormenti non glieli ho mai dati" , ma fu la serenità, la compagnia gioiosa, il raggio di luce. "Mi chiamava la sua contadinotta veneta, ed era un complimento: veneta ero, e certo non ero l'intellettuale che tanto lo infastidiva". Buzzati la conosce nel 1960, un anno dopo aver intrecciato la dolorosa e mortificante relazione con Laide, la giovane e amorale protagonista di "Un amore": Almerina, la "contadinotta veneta", è un po' il contraltare, la ventata di pulizia, il porto sicuro in cui guarire le ferite. È a lei che si rivolge quando gli manca l'ispirazione per scrivere: "Allora salivamo in macchina e mi chiedeva di guidare, non importava verso dove. Poi di colpo mi diceva: possiamo tornare. L'idea gli era venuta."
Almerina dai folli capelli, Almerina che tutta notte accettava di restare con le luci accese per sopire le angosce del marito ("Lui si addormentava, io leggevo i libri che mi dava. Dormivo la mattina, quando usciva"), Almerina la sposa bambina dalla voce squillante. "Sua madre? Non la conobbi mai, morì nel 1961, quando Dino e suo fratello ancora vivevano con lei. Ma certe sere che venivo per cena lei dal suo letto ci sentiva parlare. Seppi un anno dopo che , ricevendo l'estrema unzione, chiese al sacerdote di quella giovane donna dalla voce allegra…". L'aveva colpita.
Inutile oggi chiederle il peggior difetto di Buzzati o il miglior pregio. "Io mi sono sempre occupata di Dino e non di Buzzati, e Dino non era Buzzati. Con me, poi, era scherzoso, anche per una questione d'età: non mi voleva annoiare". Così ripenso a quanto Buzzati disse a Panafieu poco prima di morire: "Per me mia moglie è come se fosse mia figlia, in un certo senso… L'ho sposata per un problema di carattere morale. La donna ha bisogno di essere difesa col matrimonio…". So coglie come il senso di protezione nei suoi confronti fosse reale, tanto quanto l'allegria che lei gli portava in cambio. "Pochi sanno quanto Dino amasse lo scherzo e fosse umorista. Al "Corriere" è rimasto famoso l'episodio delle uova di Notarnicola…". Si era in tempo di guerra, certo non si scialava, ma Buzzati non seppe resistere e a mani aperte schiacciò le tasche del collega, colme di uova fresche. "Forse era così anche per nascondere quei suoi tormenti notturni. La sua paura non era affatto la morte, ma che dopo non ci fosse nulla: senza un aldilà, e quindi senza un Dio, l'esistenza non aveva senso.»

È quasi un caso da antologia.
Ecco qui un uomo di sessant'anni, angosciato dal mistero della morte (è ridicolo affermare che non temeva la morte, ma il mistero di essa: si tratta di un'unica cosa), al punto che non può dormire se non con la luce accesa, sfoga la tensione in scherzi a volte discutibili, sente il bisogno di una presenza giovanile accanto a sé, cui fare da padre ma dalla quale sentirsi anche coccolato e rassicurato; e una ragazza semplice, tutt'altro che intellettuale, ma schietta, generosa, capace di buttarsi nelle cose senza starci tanto a pensare 
Quando si spense, nel 1972, all'età di sessantasei anni (era nato a Belluno nel 1906), Buzzati - proprio come il tenente Giovanni Drogo ne «Il deserto dei Tartari» - non era riuscito a sciogliere l'enigma di Dio, che pure lo assillava da sempre; non era riuscito ad approdare a una fede religiosa, pur conservandone tutta la nostalgia e quasi la drammatica urgenza.
Nei suoi dipinti  e nei suoi romanzi e racconti ricorrono continuamente i simboli del mistero e di una realtà metafisica speculare a quella d'ogni giorno, e tuttavia da essa lontanissima: arcani presagi e oscure presenze; poltrone vuote che cullano l'assenza di qualcuno; porte socchiuse su di un mondo esterno indecifrabile; ombre inquietanti che si allungano giù dai monti; rocce che paiono statue, monumenti che paiono montagne (o viceversa); uomini curvi che si avviano incontro al destino, appoggiandosi al bastone; santi armati di lance (ma potrebbero anche essere demoni) che trafiggono draghi; nuvole dalle forme bizzarre che si librano su paesaggi onirici, frastagliati e surreali, in una strana atmosfera d'attesa.
Già, l'attesa.
È come se tutta l'opera di Buzzati ruotasse intorno a questo concetto, metà kafkiano e metà gotico: l'attesa come metafora della vita e della sua conclusione imperscrutabile, che noi chiamiamo morte, ma che non sappiamo affatto cosa sia.
C'è, in Buzzati, molto di più dello scrittore surreale e fantastico, dalle vaghe ascendenze romantiche nord-europee; molto di più di uno scrittore «anomalo», che stenta a trovare una sua collocazione - come Tommaso Landolfi - nel quadro della compassata ed impegnata letteratura realista e progressista di quegli anni, dove se non si parlava di Marx e di nazional-popolare si era considerati «Liala» (com'era toccato a Bassani e a Cassola).
Per le sue inquietudini metafisiche, per il suo senso opprimente del mistero che incombe, per la sua aspirazione a una certezza trascendente, Buzzati è, al contrario di quel che vorrebbe il cliché fabbricato postumo su misura per lui - perché, in vita, gli intellettuali «seri» lo avevano abbondantemente snobbato, quasi tutti -, il più rappresentativo testimone della crisi dell'uomo post-moderno, sospeso fra due abissi: l'abisso delle certezze positivistiche, ormai crollate e ridotte in macerie, e l'abisso della fede, che la ragione dichiara assurda ma che risorge, come un tafano molesto, dalle ceneri della ragione strumentale e calcolante, produttrice di mostri (come il fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki).
Ebbene, a quest'uomo così genuinamente tormentato e così veracemente ancorato nel disagio della post-modernità, un destino benevolo ha fatto incontrare la donna della serenità: non l'intellettuale carica di problemi esistenziali; non la civetta smaniosa di conquiste illustri, o l'ambiziosa interessata alla celebrità, sia pure riflessa, derivante dal legame con un uomo famoso; ma la donna semplice, buona, generosa, che fa dono della sua giovinezza, della sua allegria e della sua gioia di vivere ed, in cambio, accoglie riconoscente il tesoro dell'esperienza, della cultura e dell'arte che il pittore-scrittore ormai maturo le porge.
Due nature diversissime, ma complementari, hanno saputo trovare il modo di integrarsi ed arricchirsi vicendevolmente, di comunicarsi forza e fiducia nel domani; si sono sostenute per un tratto di strada, con ammirevole coraggio e con baldanzosa spigliatezza, lungo i sentieri non sempre facili della vita.
Una donna che sappia donare la sua giovinezza e la sua freschezza in un tal modo, è ammirevole; significa che ha saputo trasformare il proprio TEMPERAMENTO (entusiasta e un po' incosciente, ma allegro e volitivo) in un CARATTERE, ossia in una personalità orientata secondo una precisa scelta spirituale, sulla base di valori e non di impulsi passeggeri o di effimere emozioni.
Di questo vi è bisogno, perché l'incontro con l'altro, o con l'altra, si risolva in un incontro felice e non in una lotta spietata, magari a colpi di avvocato, per strapparsi in tribunale le proprietà economiche o, peggio, l'affidamento dei figli. Solo chi riesce a trasformare il proprio temperamento in un carattere, disciplinandolo e affinandolo, è maturo per incontrare l'altro.
Ed è logico che sia così: perché, per costruire il proprio carattere, è necessario innanzitutto incontrare se stessi, riconoscersi, scegliersi; e, infine, seguire la propria chiamata, senza paure o tentennamenti.