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Iraq, tira aria di tempesta

di Nir Rosen - 05/05/2009





Nel sesto anniversario della caduta di Baghdad per mano delle forze americane nel 2003, Nir Rosen scopre che gli iracheni sono più sicuri, ma non proprio sicuri, le tensioni confessionali sono state nascoste ma non eliminate, i rifugiati non sono disposti a rischiare di tornare nelle loro case, e quasi tutti si aspettano il peggio dopo il ritiro delle truppe statunitensi.

A sei anni dal giorno in cui la statua di Saddam Hussein venne rovesciata a Baghdad, la guerra che ha dominato la politica americana per mezzo decennio e messo sottosopra un intero ordine regionale sta venendo rimossa dal centro della scena con non molto garbo. A Washington, gli specialisti di Iraq nel Consiglio per la sicurezza nazionale hanno appeso sulle porte dei loro uffici cartelli che dichiarano che la loro è ora "la guerra giusta"; l'amministrazione Obama è ansiosa di dichiarare vittoria in Iraq e spostare la propria attenzione sul conflitto in Afghanistan a lungo trascurato.

È difficile prevedere cosa accadrà mentre gli americani riducono il numero delle loro truppe, ma pochi iracheni si sentono ottimisti, nonostante la recente diminuzione della violenza: qualunque cosa succederà, è improbabile che l'Iraq si riprenderà rapidamente da sei anni di caos e spargimento di sangue.

L’economia irachena è tuttora a pezzi. Il governo centrale ha comprato una pace provvisoria mettendo centinaia di migliaia di uomini in età da servizio militare sul proprio libro paga. Ma il calo dei prezzi del petrolio ha costretto lo Stato a ridurre drasticamente il bilancio in un momento in cui l’esercito è quasi l'unica fonte di occupazione.

Il settore petrolifero, ancora l'industria irachena più significativa, è afflitto da infrastrutture fatiscenti. A Bassora gli oleodotti sono tenuti insieme "con lo sputo", secondo un funzionario americano preoccupato. "Potrebbero esplodere in qualsiasi momento". La maggior parte degli iracheni oggi potrebbe dire quasi lo stesso sul proprio Paese. Sono grati per la tregua temporanea dall’ estrema violenza, ma certi che non ci vorrà molto tempo per riaccendere le fiamme.

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Ho trascorso la maggior parte degli ultimi sei anni all'interno dell'Iraq, ma quando il mese scorso sono tornato a Baghdad la città era indubbiamente cambiata. La violenza casuale che una volta colpiva chiunque e tutti come proprio bersaglio si è placata, e notevoli ostentazioni di ricchezza, impensabili un anno fa, sono ovunque.

Le strade di Baghdad sono piene di Hummer H3s, 4x4, e altri veicoli di grandi dimensioni che costano decine di migliaia di dollari in contanti. Sono stati aperti nuovi ristoranti, ristoranti costosi che soddisfano le esigenze di nuova élite - o di una che finora si nascondeva. Nelle università di Baghdad le ragazze sono vestite più alla moda che mai, mentre i ragazzi hanno adottato gli stili comuni in Libano.

Negli anni passati non si sarebbe mai assistito a tali manifestazioni di ostentazione della ricchezza: chiunque avesse soldi era un obiettivo per i rapitori, le donne in abiti impudichi rischiavano di essere uccise, mentre gli uomini che sfoggiavano moda occidentale era come se chiedessero di essere picchiati. Oggi gli uomini si riuniscono nei bar di nuova apertura: un segno, come minimo, che i vigilantes estremisti hanno smesso di farli saltare in aria. I parchi gioco sono pieni di bambini, i giovani giocano a calcio in nuovi campi, e la gente  non ha più paura di uscire di casa.

Ma niente di ciò sembra del tutto reale. Una sera stavo passeggiando lungo via Abu Nawas con il mio amico Hussein. Coppie camminavano lungo il fiume, i bambini giocavano fuori. Niente di speciale, in apparenza:  solo il ritorno della normalità e della stabilità in un luogo che aveva avuto la sua quota di entrambi prima della guerra - ma è stata dura da accettare, dopo anni di terrore e di occupazione.

Hussein mi diceva che i suoi figli giocano a farsi saltare in aria con immaginari ordigni esplosivi improvvisati. Faceva gesti sprezzanti verso una pattuglia di sicurezza che si spostava verso un parco nelle vicinanze. "Tutto questo è una menzogna", sogghignava. "Se fosse sicuro non ci sarebbe bisogno di una pattuglia di sicurezza". Al Qa'eda e le altre milizie sunnite sono solo momentaneamente inattivi, diceva, come l'Esercito del Mahdi. Ero scettico e gliel’ho fatto notare, e lui ha fermato una coppia che passeggiava a piedi in direzione opposta. "Scusate", ha detto, "il mio amico è un giornalista. Vi sentite sicuri adesso?" Il giovane ha risposto senza esitazione: "No", e ha continuato a camminare.

Mentre l'occupazione americana si avvicina presumibilmente alla fine, l'Iraq oggi si sente come se fosse occupato dagli iracheni. Le strade non sono più bloccate da soldati americani aggressivi, ora sono bloccate da forze di sicurezza irachene aggressive in abbigliamento militare, di polizia, o in borghese, che ancora gridano e agitano le armi, con fare non meno intimidatorio dei loro predecessori  americani. Gli onnipresenti checkpoint a Baghdad, oggi presidiati da forze irachene, hanno fornito una misura di sicurezza alla capitale devastata dalla guerra - ma il prezzo è stato la creazione della società più fortemente militarizzata al mondo.

Il palese settarismo delle forze di sicurezza è stato mitigato, e non sono più impegnati nel massacro indiscriminato dei sunniti - ma la loro identità sciita è indiscutibile. Nessun sunnita passa attraverso un checkpoint senza paura; sanno di poter essere ancora fatti sparire. Un pomeriggio, mentre stavo guidando per Baghdad con un amico iracheno in una macchina che apparteneva a un altro amico, siamo stati fermati a un checkpoint della polizia nazionale irachena. Il poliziotto ha chiesto la registrazione (tassa di possesso) della macchina.

Quando il mio amico gli ha detto che non era a nome suo, il poliziotto è diventato ostile e ha chiesto le generalità del mio amico. Ma quando ha letto ad alta voce il nome - Hassanein, un nome chiaramente sciita - il suo comportamento è diventato allegro, e ci ha fatto segno di passare. Quando ho visitato edifici governativi, gli interni erano spesso ornati con manifesti dell'Imam Hussein: un chiaro segno che erano dominati dagli sciiti, e questi manifesti sono visibili anche nelle stazioni di polizia irachene. Sui muri di cemento fuori dalla sede del Consiglio di Baghdad c'è un grande murale che raffigura pellegrini sciiti in marcia verso Karbala. Questi esempi producono tra i sunniti una sensazione che lo Stato e le forze di sicurezza sono sciiti, che loro sono degli estranei.

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Secondo un diplomatico americano a Baghdad, gli americani considerano la polizia nazionale irachena "la forza di sicurezza che ha fatto maggiori progressi". "Era uno squadrone della morte", dice il diplomatico. "Ora i peggiori ufficiali vengono licenziati o trasferiti dove non possono fare danno".

Tuttavia, secondo gli iracheni, il settarismo si è semplicemente ritirato sotto la superficie. Ho parlato con un capitano nell’ INP nel distretto di Dora a Baghdad, uno sciita di Shaab, sposato con una sunnita. Prima della guerra era stato un ufficiale nelle forze armate, dove gli avevano inculcato un nazionalismo iracheno non confessionale. Si era rifiutato di arrestare sunniti a scopo di riscatto e aveva insistito a prendere di mira l'Esercito di Mahdi, cosa che gli era valsa l'ira dei suoi superiori. Dopo essersi rifiutato di arrestare sunniti senza mandato di arresto, era stato trasferito nel nord, a Mosul, alla fine del 2008 - un incarico molto più pericoloso. Lì, ha detto, era stato incastrato con l'accusa di rubare automobili - il suo accusatore era un comandante dell’ Esercito del Mahdi della zona sud di Baghdad - e, solo pochi mesi fa, portato in un carcere segreto, al secondo piano del palazzo della Commissione affari interni del Ministero degli Interni. Ventisette persone, mi ha raccontato, erano in una piccola cella, di non più di tre metri per due, e dormivano in piedi. Tutti gli altri uomini erano sunniti. Le torture hanno avuto inizio a mezzanotte.

"Sono stato ammanettato e bendato e picchiato come nei film", mi ha detto. I suoi reni sono stati colpiti e urinava sangue. E' stato lasciato sotto una doccia fredda per molte ore. Un poliziotto di nome Gafar - che conosceva il capitano da Dora e aveva lavorato lì con l'Esercito del Mahdi - ha avuto particolare piacere ad abusare di lui. "Mentre mi picchiavano ", ha detto il capitano ha detto, "mi chiedevano: 'Perché odi l'Esercito del Mahdi?' "

I suoi compagni di prigionia, ha detto il capitano, erano stati fatti sparire senza che le loro famiglie lo venissero a sapere. Dopo che era stato imprigionato per 22 giorni, hanno chiesto un riscatto di 20.000 dollari per liberarlo. La sua famiglia ha negoziato il prezzo a 7.000 dollari, che suo cognato ha consegnato a un capitano di polizia fuori da un ristorante sulla Palestine Street a Baghdad. Dopo il rilascio ha rassegnato le dimissioni. "Ho servito il mio Paese", mi ha detto, ma ora si sentiva tradito.

Un mio amico, un ufficiale dell'esercito iracheno sciita, è stato minacciato da comandanti dell’Esercito del Mahdi perché si era rifiutato di collaborare con loro, aveva condotto una campagna contro di loro nella zona che sorvegliavano. "L'Esercito del Mahdi è finito, ma i suoi sostenitori sono ancora al governo", mi ha detto. "Il settarismo c’è ancora”. Un ufficiale che prendesse di mira le milizie sunnite avrebbe avuto l'appoggio dei suoi superiori, ma uno che prendesse di mira i combattenti sciiti sarebbe stato punito o peggio, ha detto. Uno dei leader dell’Esercito del Mahdi che aveva arrestato è scappato, e si dice lavori come guardia del corpo per un generale del ministero degli Interni. Le guardie del corpo dello stesso ministro degli Interni, dicono in molti, sono fedelissimi di Sadr.

"Il sistema confessionale portato dagli americani esiste ancora", ha detto un esperto funzionario di una ONG irachena. "Ora il settarismo è più in politica e meno fra la popolazione, ma si può attivare la violenza confessionale ogni qualvolta lo si desideri". Mi ha ricordato che il Primo Ministro Nuri al Maliki non ha combattuto le milizie sciite fino al 2008. "Ora è alleato con i sadristi in alcuni governatorati. Le milizie riconquisteranno il potere, quando gli americani andranno via".

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Un pomeriggio di marzo, stavo guidando con due amici a Sa'adun Street a Baghdad. Una berlina nera ha cercato di tagliarci la strada, ma il mio amico al volante ha accelerato per impedirgli di passare,  bloccando aggressivamente la strada. Ne sono seguiti sguardi e gesti furiosi, fino a quando non siamo stati fermati nel traffico a un checkpoint subito prima di Tahrir Circle. Il conducente della berlina è uscito e ci ha bloccato la strada. Era un uomo alto con spalle larghe e una grande pancia e baffi, l'aspetto degli iracheni che stanno nelle forze di sicurezza Aveva la testa rasata e una pistola alla cintola. Ci ha chiesto di uscire dalla macchina. Uno dei miei amici, un ufficiale trentenne dell’esercito iracheno che indossava abiti civili, con una pistola riposta sotto la camicia, è sceso dalla macchina e ha avvertito il conducente della berlina che era un ufficiale. Ma era un ufficiale dove? Il conducente della berlina pretendeva di saperlo. "Sono con un ministro molto pericoloso", ha detto il mio amico. "E' meglio che tu non lo sappia".

Ognuno dei due pretendeva di vedere i documenti dell'altro, ma nessuno voleva mostrarli, per paura di scoprire che l’altro era più potente. Stavano in piedi, a gridare l'un l'altro, mentre gli altri uomini armati al checkpoint stavano a guardare. Dopo circa 10 minuti di tensione, si sono abbracciati e baciati: si è scoperto che si conoscevano. E' stata una fortuna, perché il conducente della berlina era nell'ufficio del Primo Ministro, e avrebbe prevalso facilmente su un semplice ufficiale dell’esercito. L'alterco, ha sottolineato in seguito il mio amico, era come se venisse direttamente dai tempi di Saddam, quando una miriade di agenzie per la sicurezza gareggiavano quanto a influenza e autorità.

E' possibile ora parlare di un "Iraq post-americano", ma non mancano i segnali preoccupanti. Maliki ha consolidato il potere posizionandosi come nazionalista arabo, e la sua popolarità aumenta dopo ogni scontro con i kurdi. Ha posto sotto il suo comando una forza di soldati scelti fedeli all'ufficio del Primo Ministro e in grado di operare senza il supporto logistico americano. "Sarà come la Guardia repubblicana", mi ha detto un funzionario americano. "Ha una forza anti-terrorismo al di fuori dalla legge che risponde solo a lui". Quando operano, mi è stato detto, i ministeri della Difesa e degli Interni non sono informati, come le unità di forze speciali americane che li hanno addestrati: sono sostanzialmente al di sopra della legge .

Tutti coloro con i quali ho parlato a marzo si aspettano il peggio dopo l'imminente ritiro americano. "Siamo tutti preoccupati se gli americani andranno via, chi riempirà il vuoto?", ha chiesto il mio amico ufficiale dell'esercito. "Forse gli iraniani. L'esercito iracheno è forte, ma gli sciiti hanno il potere nel governo e sanno che saranno loro a subentrare in Iraq. I sunniti vogliono rovesciare il governo e avere sunniti al potere. Adesso nessuno può fare nulla perché gli americani sono qui ".

Gli americani, naturalmente, non sono ancora andati via. Un iracheno che lavora con le forze armate statunitensi a Baghdad mi ha detto che le unità di forze speciali, che possono ancora ottenere l'autorizzazione per operare al di fuori del quadro dello Status of Forces Agreement tra il governo iracheno e quello americano, hanno ucciso di recente più di 20 iracheni innocenti nel suo distretto. Il capitano dell'unità locale dell'esercito Usa era furioso, ha detto – incastrato a sistemare il casino, distribuendo moduli per le richieste di risarcimento, cercando di ricucire i rapporti distrutti dai suoi commilitoni. Spari alla testa e al petto, si lamentava il mio amico, erano tuttora comuni dopo la minima provocazione. Ma le unità americane convenzionali, per quanto ho potuto vedere, sono libere di ignorare le restrizioni introdotte dallo Status of Forces Agreement: chi, dopo tutto, farà qualcosa al riguardo?

Andando in giro per l'Iraq sei anni “dopo la caduta", come dicono gli iracheni, si incontra un popolo profondamente ferito. Nessuno è stato risparmiato dalla violenza. "Siamo stati in una guerra civile", mi ha detto un medico di nome Ali, ma, come molti iracheni, restava convinto che la violenza era stata importata da fuori. Oggi, diceva, la violenza per strada era solo tra i partiti politici; era meno casuale. “Ci sono un sacco di soldi", ha detto, "e ognuno vuole la sua parte".

Nel 2005 aveva ottenuto il porto d'armi; i medici erano stati uno degli obiettivi preferiti dei rapitori, e dopo che un suo amico era stato sequestrato, andava dovunque con una pistola alla caviglia e una alla cintola. Quando andava a piedi al ministero della Sanità, mi aveva detto, indossava vestiti sporchi e teneva i capelli spettinati, per evitare di attirare l'attenzione. Ma non portava le pistole da almeno un anno, ha detto, dal momento che la violenza ha iniziato a diminuire. Secondo l'obitorio di Baghdad, ci sono ancora da 10 a 15 omicidi a sfondo politico ogni giorno nella sola capitale, ma questo è un enorme calo rispetto alle centinaia che arrivavano ogni giorno nel 2006, quando le donne irachene dovevano cercare tra i cadaveri sfigurati i loro mariti e figli.

Nonostante la violenza peggiore sia finita, mi ha detto Ali, lui non si è ancora ripreso. "Negli ultimi anni abbiamo visto in faccia la morte tante volte", ha detto. "Siamo diventati muti. Non abbiamo più sentimenti".

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Per tutto il periodo dell'occupazione americana, i parametri per determinare il "progresso" in Iraq, sono stati contestati all'infinito. Un funzionario delle Nazioni Unite in Iraq di grado molto elevato mi ha detto che il migliore standard disponibile è il reinserimento dei profughi. "I profughi", ha detto, "sono i migliori per determinare la temperatura sul campo. Se ritornano, la situazione si sta normalizzando. Ma se non tornano, c'è un motivo. Sono tornati, ma non in numero significativo".

I numeri non sono precisi, ma circa 25.000 profughi iracheni adesso sono tornati nel Paese (anche se non necessariamente a casa loro). Le Nazioni Unite stimano che 195.000 sfollati interni abbiano fatto ritorno alle loro case (altre stime arrivano a 300.000). Ma anche questo, ha detto il funzionario delle Nazioni Unite, è stato un netto contrasto rispetto ad altre crisi delle quali era stato testimone. "In Kosovo abbiamo avuto il ritorno di due milioni di persone", ha detto. "Eravamo felici, ma travolti". I risultati delle elezioni provinciali di questo gennaio, ha detto, hanno reso chiara la situazione: "Abbiamo visto che la città di Baghdad aveva cambiato il suo colore. C'era stata una pulizia ".

Alla periferia di Shaab, un quartiere a maggioranza sciita nella parte est di Baghdad, circa 2.000 famiglie hanno costruito case di fortuna in una zona desolata fangosa che tecnicamente appartiene all'ente che amministra i beni religiosi sunniti. Adesso è noto come il quartiere "Sadrain" (cioè dei due Sadr). Cumuli di immondizia erano dovunque, e pozze di liquami emettevano un forte fetore; era difficile respirare.

Una famiglia che ho incontrato proveniva da A'adhamiya – un distretto a maggioranza sunnita. Erano fuggiti a "Sadrain" quando erano iniziati "i fatti", ma non si erano registrati come IDP e qui non ricevevano servizi. I sadristi, dicevano, portavano la benzina e fornivano servizi nella zona, almeno prima dell’offensiva dell’esercito iracheno contro di loro nel 2008. Nei dintorni ho trovato una famiglia di occupanti abusivi, che vivono in un bunker di cemento nel quale erano fuggiti due anni prima: lo avevano "comprato" da un altro gruppo di occupanti abusivi, e non avevano alcuna voglia di tornare nella casa che una volta possedevano - inoltre, hanno detto, non avevano più l’attestato di proprietà. La maggior parte delle persone che ora vivono qui non hanno espresso alcun desiderio di tornare nei loro ex quartieri: alcuni sono contadini senza case dove tornare, altri hanno avuto parenti uccisi e ora temono per la loro vita.

Tornato a Shaab, ho visitato la moschea sunnita Qiba, che era stata attaccata per la prima volta dai miliziani sciiti nel 2004; un’altra sera di quello stesso anno per poco non ero stato ammazzato da un miliziano ubriaco durante un altro attacco del genere contro la moschea. Otto mesi fa, tuttavia, la moschea è stata riaperta con l'appoggio di un dignitario sciita locale, e alcune decine di sunniti ora prendono parte alla preghiera del Venerdì che vi si svolge. Lo sheikh della moschea è fuggito nel nord e non è tornato, e la sua casa nelle vicinanze ora è occupata da sciiti di Diyala. Qualcuno ha appeso un manifesto del padre di Muqtada al Sadr all'ingresso della
moschea, e i custodi hanno ancora paura di toglierlo.

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La moschea Shurufi di Shaab, dove ho assistito spesso alle preghiere del Venerdì, è controllata da molto tempo dai sadristi. Quando sono andato a sentire il sermone del Venerdì, ho notato che la stessa moschea era stata chiusa; all'interno erano state scoperte armi, mi hanno detto. Centinaia di uomini in maggioranza giovani erano seduti su stuoie e tappetini per la preghiera per strada, fuori dall'edificio, ad ascoltare il giovane Sheikh Abdel Karim. Intorno uomini della polizia nazionale irachena sorvegliavano svogliatamente.

Io ero seduto dietro con un amico che lavora in banca, ma anche per l'ala del movimento sadrista che si occupa degli affari sociali. Gli americani stavano ancora arrestando gente, mi ha detto, e suo fratello era stato ucciso dagli americani mentre era in piedi fuori dal suo negozio, durante le battaglie dello scorso maggio.

Per i sadristi, le preghiere del Venerdì sono sempre state uno strumento essenziale di comunicazione, un modo per sfidare Saddam e, più tardi, l'occupazione americana. Tra i sadristi è comune che alcuni uomini nella Congregazione si alzino in piedi e gridino slogan, e questa volta un uomo si era alzato e aveva urlato: "Continueremo la preghiera del Venerdì che Muhammad Sadr a prescindere da quello che dicono l'America e Israele o la Gran Bretagna!"

Il sermone stesso era stato una litania di lamentele. Era iniziato con una discussione religiosa, e poi Sheikh Abdel Karim aveva chiesto: "Il messaggio religioso è solo per l'aldilà o per la vita stessa?" Per entrambi, aveva risposto, passando alla situazione in Iraq oggi. Si era rivolto ai partiti politici islamici. "Vi siete impossessati del potere in nome dell'Islam, ma avete operato secondo l'Islam?" L'economia era al collasso, aveva detto, la disoccupazione alta, e l'Iraq non aveva né agricoltura né industria e dipendeva solo dal petrolio. "Hanno parlato di ragioni di sicurezza", aveva detto. "Ora la sicurezza sta migliorando e ancora non è accaduto nulla. Non abbiamo visto alcuna differenza. La gente è povera e non sappiamo perché". Si era lamentato dell'inflazione, del riciclaggio di denaro, dell'immoralità, della mancanza di cibo, della scarsità di alloggi, e della corruzione.

Dopo la fine delle preghiere, un uomo mi aveva portato nella casa di un suo vicino, dove i soldati americani avevano fatto irruzione la notte prima. La porta era stata fatta saltare con esplosivi. Tutti i vetri di porte e finestre erano stati rotti. I mobili erano stati rovesciati, gli armadi svuotati, gli oggetti rotti senza motivo. Cinque fratelli che vivevano lì erano stati arrestati. I loro parenti si erano lamentati del fatto che gli americani erano venuti con un traduttore sudanese e un informatore iracheno che indossava una maschera, e avevano preso l’oro e i contanti della famiglia, i loro telefoni cellulari, e il disco rigido del loro computer. Gli americani spesso perquisivano case nella zona, mi è stato detto, ma non così.

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A Falluja, a circa 70 chilometri a ovest di Baghdad, ho incontrato profughi che erano fuggiti da milizie sciite nella capitale. Falluja è ancora isolata, e non è facile per i forestieri entrare in città. La polizia irachena ci ha fermati alla periferia, dove ci è stato chiesto il permesso di avventurarci al suo interno. "Ogni partito ha il proprio apparato di sicurezza", si è lamentato con me un poliziotto mentre aspettavamo. "Potremmo lavorare al 100 per cento, se non ci fossero i partiti politici". Dentro la città ho visitato il consiglio locale, dove mi è stato detto che almeno 7.000 famiglie sfollate erano venute a Falluja dal marzo 2006. Da allora circa la metà erano tornate a casa - alcune in altre parti della provincia di Anbar, e altre a Baghdad.

In un cantiere abbandonato, ho trovato sei famiglie sunnite  che occupavano abusivamente una struttura in calcestruzzo incompleta. Vecchi striscioni servivano come porte per stanze di fortuna, le cui pareti erano solo fogli. Jassim Saud era venuto da una zona sciita nella parte sud di Baghdad. I suoi fratelli, ha detto, erano stati rapiti nel 2006 a un falso checkpoint; uno era ancora in carcere e gli altri erano semplicemente scomparsi. Lui fa il camionista e non può permettersi di affittare un posto per i sei membri della sua famiglia.

In un palazzo decrepito nelle vicinanze, dove i polli giravano sui balconi, ho trovato altre famiglie sunnite provenienti dalle zone sciite di Baghdad. Una donna mi ha detto che dopo che alcuni miliziani erano venuti per cercare di uccidere il marito, la famiglia è fuggita qui; non hanno intenzione di ritornare a Baghdad, perché lei teme per la propria vita. Un'altra donna, Hamad, era di Abu Ghraib, a ovest di Baghdad. Accusava l'Esercito del Mahdi di aver costretto la sua famiglia a fuggire. Suo cugino era stato appena ucciso in un attacco suicida ad Abu Ghraib che voleva colpire una riunione di riconciliazione, e lei non ha intenzione di tornare. Nella casa che possiede ad Abu Ghraib ci vive gratis una famiglia sciita, ma lei spera di venderla. Non tutti gli sciiti sono cattivi, insisteva a dirmi, solo alcuni.

Mustafa Abu Fadhil dirige una organizzazione di beneficenza a Falluja che aiuta gli orfani e fa formazione. Come quasi tutti i residenti di Falluja, era stato costretto ad andarsene nel 2004, quando gli americani avevano distrutto gran parte della città. Era fuggito a Baghdad, ma quando è tornato ha trovato gli americani che occupavano casa sua, ha trascorso quattro anni vivendo in altre case prima di recuperare la sua. I bambini con i quali lavora in Iraq, mi ha detto, "sono psicologicamente danneggiati dalla guerra e dal vedere cadaveri per strada. Il sorriso è scomparso dai loro volti".

A trenta minuti di distanza, l'ex località di villeggiatura sul Lago di Habaniya è ora in gran parte abbandonata. Sfollati iracheni vivono in roulotte su uno spiazzo sterrato. Farid Yunis, un sunnita del quartiere Jihad di Baghdad, mi dice che ha lasciato la capitale per Falluja due anni fa, dopo aver ricevuto minacce, e che il consiglio di Falluja lo ha mandato qui, a Habaniya, perché non poteva permettersi di pagare l'affitto in città.

Uno dei suoi vicini, di nome Mahmud Majid Mahmud, è fuggito da un altro quartiere sciita di Baghdad, dove viveva con la moglie e cinque figli. Nel 2006 aveva ricevuto una lettera in cui si condannavano i sunniti e si minacciava di ucciderlo. Dopo che se ne era andato, ha detto, l'Esercito del Mahdi ha cominciato a utilizzare la sua casa per delle esecuzioni. Gli ho chiesto se pensa di tornare a Baghdad, ora che il peggio della violenze è finito. "Non voglio tornare lì", mi ha detto, "un posto da dove sono stato cacciato. Non lo voglio".
 
Nir Rosen è ricercatore presso il Center on Law and Security della New York University. Sta finendo di scrivere un libro sulla guerra civile in Iraq.

(Traduzione di Rachele Baglieri, Traduttori per la pace per Osservatorio Iraq)

Articolo originale

The National