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Il “duro lavoro nell’orto”

di Nicola Savio - 07/05/2009

Nell’immaginario collettivo, prendersi cura dell’orto è considerato un lavoro estremamente faticoso e, quindi, da evitare. Ma davvero è così? Da dove nasce questa convinzione generale? Ce lo spiega Nicola Savio che di questo “duro mestiere” ha fatto la sua vita…


 

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Prendersi cura dell’orto è considerato un lavoro estremamente faticoso e, quindi, da evitare. Ma davvero è così? (Foto di Nicola Savio)
Tra gli “ortolani” esistono vari approcci al lavoro. C’è chi passa la sua giornata con la zappa in mano, chi cerca sollievo dal lavoro attraverso la chimica e chi attraverso una ferrea logica ed organizzazione. In generale, quasi tutti, vi diranno che “l’orto dà lavoro”.

 

La reazione generale conseguente sarà, nel migliore dei casi, “non ho abbastanza tempo”, nel peggiore, “ma chi me lo fa fare”.

 

Ma oltre agli aspetti tradizionali che legano il nostro immaginario “agricolo” all’idea di terribili sudate sotto un sole rovente o di piedi congelati in pozze di fango, cosa fa sì che l’orto “dia lavoro” e, quindi, consumi energie (siano esse fisiche, secondo l’approccio biologico, od economiche, approccio chimico)?

Semplice: i nostri sistemi tradizionali di coltivazione non sono ecologici.

 

Con questo non voglio dire che l’orto tradizionale stia sterminando i delfini o sia la causa dei disastri conseguenti l’affondamento delle petroliere…

Stando alla definizione del vocabolario della lingua italiana Zingarelli (11° edizione), ecologia - /ekolo’dzia/ [ted. Oekologie, comp. del gr. Óikos ‘casa, abitazione’] - è la branca della biologia che studia i rapporti reciproci fra organismi viventi e ambiente circostante e le conseguenze di tali rapporti.

Prendendo spunto dall’ottimo libro di Stefan Buczacki Il Giardino Ecologico (Franco Muzzio editore, 1990), per ecologia si intende “tutto quello che vive, dove e perché”.

Gli esseri umani hanno la tendenza a valutare il comportamento di piante ed animali riferendosi sempre ad una sola specie, la propria, e questo porta di conseguenza ad una serie di malintesi.

La convinzione del “duro lavoro dell’orto” nasce proprio da questi fraintendimenti ed errori e, quindi, da un’inefficienza ed inefficacia di base.

 

 

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In natura, esistono due tipi principali di ambiente: la foresta e la prateria (Foto di Nicola Savio)
Generalizzando si può dire che in natura, esistono due tipi principali di ambiente: la foresta e la prateria.

 

Ogni singolo metro quadro di terra strappato dall’uomo a questi due sistemi cercherà di ritornare allo stato naturale con tutte le sue forze e le sue armi che, nel caso del nostro piccolo orticello, saranno perfettamente rappresentate da “infestanti” e parassiti, per contrastare i quali dovremo fare ricorso alle nostre energie. Voi, contro il mondo… un’esperienza da titani!

 

Toby Hemenwey nel suo Gaia’s Garden descrive approfonditamente i meccanismi che soggiacciono a questa “lotta” e, soprattutto, descrive gli strumenti attraverso cui “arrendersi” ed iniziare a lavorare con la natura piuttosto che contro.

Uno degli esempi più chiari che Hemenwey porta come dimostrazione di “giardino ecologico” è quello della policultura.

Nell’orto tradizionale siamo abituati ad individuare zone specifiche per ogni tipo di coltivazione: creiamo filari di pomodori e campi di insalata seguendo una logica assolutamente “umana”.

Così facendo, però, diamo origine alle nicchie ambientali perfette per il propagarsi di malattie crittogame, parassiti ed erbe infestanti.

Nella policultura, al contrario, le coltivazioni vengono mischiate secondo una logica “naturale” dove non esistono monoculture o “zonizzazioni” nette, a meno che i terreni non siano stati disturbati precedentemente.

 

 

Piantine
Nell’orto tradizionale siamo abituati ad individuare zone specifiche per ogni tipo di coltivazione
Uno degli esempi di policultura riportati da Hemenwey consiste nel realizzare un “letto” o “bancale” di 2 mq per ogni adulto che parteciperà dei frutti della policultura.

 

Due settimane prima dell’ultima gelata si preparano in semenzaio o in serra 10 piantine di cavolo per ogni bancale.

Una settimana dopo l’ultimo gelo si seminano ravanelli, finocchio selvatico, pastinaca, calendula e diverse varietà di lattuga. Quindi, l’intera area viene ricoperta mischiando i semi, ma piantandoli separatamente per evitare che i più pesanti si raccolgano tutti da una parte. I semi vengono disposti in modo che ve ne sia almeno uno ogni 5 cm quadri ed il tutto viene rivestito con un sottile strato di compost e bagnate.

Quattro settimane dopo dovrebbe essere possibile raccogliere i primi ravanelli. Nelle buche rimaste si potrà, a questo punto, trapiantare i cavoli mantenendoli ad una distanza di circa 40 cm.

Giunti alla sesta settimana le lattughe dovrebbero essere abbastanza cresciute da poter essere raccolte (man mano che le diradate le restanti potranno arrivare a completo sviluppo).

Ad inizio estate seminate fagioli nani negli spazi lasciati liberi dalle insalate, a questo punto dovrebbero essere quasi pronti per la raccolta anche i cavoli, seguiti a ruota dai fagioli.

La pastinaca, a sviluppo molto lento, sarà cresciuta all’inizio dell’autunno quando potrete piantare fave ed agli da raccogliersi al ritorno della primavera del prossimo anno.