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La lezione da Tucidide a Tacito: senza conflitto non c’è racconto

di Luciano Canfora - 21/05/2009


Guerra, madre di tutte le cose (compresa la letteratura)



Il fenomeno della guerra è talmente cen­trale nelle società antiche, sin dall’epoca greca arcaica, che ogni aspetto della real­tà ruota intorno a essa: dalla inclusione nella cittadinanza dei soli maschi in quanto guerrieri al linguaggio amoroso che si esprime per l’appunto in termini di guerra e conquista. Il riflesso più evidente è nella storiografia: quando non c’è guerra non c’è racconto. Lo di­chiarano con diversa profondità Diodoro di Si­cilia (XII, 26) in epoca cesariana e Cornelio Taci­to, che scrive all’inizio dell’epoca antoniniana ( Annales, IV, 32) e quasi esprime una qualche invidia per gli storici del passato — pensando soprattutto a Tito Livio — che hanno avuto ben altra materia, «guerre gigantesche e terri­bili conflitti civili», e non invece quella «pace immobile e appena appena increspata di con­flitti » che è per l’appunto la sua materia. E in­fatti archetipo di ogni successivo libro di storia fu l’Iliade, nella quale non soltanto la materia privilegiata è la guerra ma non manca nemme­no il «conflitto civile», che lì si presenta come scontro tra i capi, magari per il possesso di una schiava. Per Tucidide, che, secondo Luciano di Samosata, «dettò le norme dello scrivere sto­ria », scrivere storia è innanzitutto scrivere del­la guerra e di quanto le è connesso, a comincia­re dalla guerra civile. E il rapporto col passato per intendere la grandezza del presente lo si misura, secondo lo storico ateniese, comparan­do questa, «grandissima», con le altre guerre.

È stato calcolato (Yvon Garlan) che la città greca di cui conosciamo meglio la storia, Ate­ne, fu mediamente in guerra ogni due o tre an­ni tra il 490 e il 336, cioè nel periodo che per noi è meglio documentato. Ma se allarghiamo lo sguardo ad altri aspetti del reale, non trovia­mo che conferme di questa impostazione men­tale da cui non si può prescindere se si vuol comprendere il fulminante aforisma di Eracli­to secondo cui il Polemos (la guerra) è «padre di tutte le cose». Così la «virtù» ( areté) è, nella poesia greca, innanzitutto «virtù guerresca», e «morire combattendo nelle prime file» è, per Tirteo, la «bella» morte.

«Quando Roma sottomise l’Italia», scrisse il maggior interprete tardo ottocentesco delle ci­viltà antiche, Ulrich von Wilamowitz-Moellen­dorff, «chi vinceva e poi comandava era il po­pulus Romanus, cioè l’esercito romano: poi­ché questo è il significato vero e proprio di po­pulus.

L’esercito coincide con il popolo. Que­sto populus sceglie i suoi magistrati nei comizi centuriati, vale a dire si raduna per compagnie, e ogni centuria o compagnia ha un voto». E de­scrive la «cerimonia» del voto (la cui scarsa cor­rispondenza alla nozione di suffragio «ugua­le » è ben nota) con dettagli determinanti: «I cittadini eleggono i magistrati nel luogo del­l’adunanza e delle esercitazioni militari davan­ti alle porte della città, sul campo di Marte (…). Chi vota porta l’abito di pace, dunque la città è indifesa e perciò vengono collocati corpi di guardia per proteggerli da un improvviso attac­co dei vicini. Questa istituzione è molto antica: implica che un tale pericolo è sempre presen­te ».

Il Wilamowitz spiegava, in linguaggio sem­plice e accattivante, questa realtà di compene­trazione totale tra esercito e popolo agli ufficia­li tedeschi nel Belgio occupato, nel giorno di Pasqua del 1918, in una conferenza, poi pubbli­cata, dal titolo Esercito e popolo negli Stati del­l’antichità.

Le sue parole, che rendono, con ef­ficacia e piena aderenza ai fatti, la situazione antica, avevano, e volevano avere, implicazioni più attuali. Le quali appaiono a noi non poco inquietanti. Larvatamente, e neanche tanto, lo studioso suggeriva, offrendo quella ricostruzio­ne storica, un modello alla Germania in guerra (in quel momento vincente), un modello posi­tivo, volto a squalificare il primato della politi­ca e dei politici professionali sull’esercito in ar­mi. Era, se si vuole, un appoggio a quella che alcuni storici hanno chiamato la «dittatura del generale Ludendorff».

Incrinare questa immagine della realtà anti­ca non è facile. Certo, ci sono state correnti di pensiero volte ad auspicare la «pace comune», soprattutto quando fu chiaro che nessuna ege­monia era più possibile; e certo le occasioni pa­nelleniche (feste di tutti i Greci a Olimpia e al­trove) imponevano una sospensione dei con­flitti, anche se, in tali occasioni, le rivalità laten­ti prendevano non di rado altre forme. Ma non va dimenticato che la più importante cerimo­nia civica annuale in Atene, occasione per un impegnativo intervento autocelebrativo affida­to al politico più in vista, era la sepoltura di co­loro che, nell’anno, erano morti in guerra. Ed è notevole come nei superstiti discorsi legati a tali cerimonie una parte rilevante venga riserva­ta a descrivere come si fa la guerra, e come in­vece la fanno, e vi si preparano, i «nemici».

Come nota Hans van Wees nel suo impegna­tivo e sistematico volume La guerra dei Greci, ora tradotto in italiano dalla Libreria editrice Goriziana (pp. 432, e 30), ogni straniero ( xe­nos)

era potenzialmente una figura percepita come ostile; «nella cultura, nella società, nella politica e nell’economia dei Greci c’era molto che spingeva le comunità a ricorrere alla vio­lenza ». Il pregio di questo libro, molto scrupo­losamente documentato, consiste nel non per­dere mai di vista i dati essenziali (riepilogati in un capitolo intitolato «I Greci contro il mon­do »), ma, al contempo, nel dare rilievo a tutte le sfumature e le distinzioni, indispensabili perché il quadro non risulti unilaterale. Perciò parla anche di «miti» da sfatare: ma il grande pregio non è nei presupposti ideali, è nella rac­colta empirica dei dati.

In effetti il «modello greco» di guerra ine­sausta, di autostima nei confronti del «barba­ro » e di preventiva ostilità e senso di superiori­tà verso di esso, suggestiona da tempo i moder­ni: non solo il solitario Nietzsche, che in epoca di classicismo accomodante e un po’ oleografi­co mise l’accento sulla durezza del Pericle tuci­dideo, esaltatore sia del bene che del male che gli Ateniesi hanno fatto agli altri, ma anche, al tempo nostro, la produzione storiografico-pub­blicistica di un curioso personaggio di succes­so come Victor Davis Hanson ( Massacri e cul­tura. Il volto brutale della guerra). Hanson apri­va

Massacri e cultura (Garzanti) con il capitolo programmatico intitolato «Perché l’Occidente ha vinto», che prende le mosse dalla battaglia di Cunassa e dall’Anabasi senofontea assunta come simbolo del destino di vittoria e della su­periorità dell’Occidente. Hanson compiva, cioè, con il modello Cunassa (dove i Greci vin­cono comunque, anche all’interno di uno schieramento che nel suo complesso perde), la stessa operazione ideologica che avevano fatto i Greci quando avevano stabilito che la vittorio­sa guerra contro Troia era l’antecedente remo­to delle altrettanto vittoriose guerre contro i Persiani. Sembra passata invano la lezione del Mondo e l’Occidente di Arnold Toynbee (Selle­rio), del libro cioè che è stato, alla metà del No­vecento, il migliore antidoto contro il «fonda­mentalismo » occidentalistico (e nessuno so­spetterà che Toynbee fosse un agente del Kgb!). Ben venga dunque un saggio, come quel­lo di van Wees, che, pure con argomenti non sempre persuasivi, delinea la realtà greca della guerra dando alle sfumature tutto lo spazio che meritano.