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Medio Oriente: la pace nello specchio deforme

di Stefania Pavone - 27/05/2009

 

Nonostante l’embargo di Gaza continui con morti e sempre più morti e il cerchio del dolore strangola nella morsa l’intera economia palestinese, il dialogo di pace è ripartito. L’ottimismo obamiano è stato subito gelato a Washington dalle richieste perentorie di un combattivo Nethanyau. La destra israeliana, che ha nel Primo Ministro la sua voce più piena, ha posto come condizione il riconoscimento di Israele come stato ebraico da parte di tutte le forze che lavorano per la liberazione della Palestina. Ovviamente nessuno Stato palestinese è nella mente di Nethanyau. Parole che hanno gelato il presidente americano e una diplomazia che si preparava a tessere la tela della politica negli intricati nessi della questione mediorientale. Ma cosa vuole ottenere esattamente Nethanyau con le sue richieste?

In apparenza, la proposta del premier israeliano sembra innocua. Perché Israele non andrebbe riconosciuta come stato ebraico? Ma l’insidia è dietro l’angolo, la contropartita troppo dura. Ai palestinesi, con questo rinascimento, si chiede di ripudiare la propria storia, disconoscendo la Nabka. All’opposto, Nethanyau, rinfocola i presupposti del nazionalismo ebraico, di quel sionismo che non è disposto a trattare su nulla poiché considera proprie terre le annessioni ottenute con la pulizia etnica del 1948.

Il Premier israeliano, attraverso la conditio sine qua non del riconoscimento dello Stato ebraico, punta ad oscurare la Nabka e considerare israeliani di diritto i territori acquisti nel 1948, a tutto danno di palestinesi del loro senso di identità e appartenenza. Insomma, Nethanyau vuole “sionizzare” la Palestina, mettendo in soffitta i motivi storici della crisi arabo-israeliana. Dal canto loro, tutte le forze palestinesi riconoscono Israele come entità politica sociale.

Persino Hamas sembra aver accettato i bellicosi vicini quando si mostra disponibile a trattare con gli israeliani, a patto che vengano restituiti ai legittimi proprietari i territori occupati con la guerra dei sei giorni. Ma il patto su cui si regge il discorso politico di Nethanyau ha un fine ben preciso: acquisire per diritto di prelazione i profughi evacuati dalle loro terre nel 1948. Vietando con questo impari scambio, il “diritto al ritorno” degli arabi nella loro terra, il premier israeliano compromette uno dei capisaldi dei lavori diplomatici che hanno fatto la storia del processo di pace in Medio Oriente. Infatti, attraverso la questione del diritto al ritorno, i palestinesi intendono la riparazione dei torti e delle ferite che scandiscono anni e anni di speranze negate: con la sua politica Nethanyau gliele nega tutte insieme. E in un sol colpo.

La leadership politica palestinese sa di non poter rinunciare al problema dei profughi e che esso è essenziale sul terreno negoziale. Ma la linea dura del premier israeliano sembra essere insuperabile. Contrariamente alla volontà di Obama, Nethanyau - che a Washington, con il fair play da buon politico si è detto disposto a incontrare le forze politiche palestinesi - ha annunciato di voler costruire nuove colonie ebraiche in Cisgiordania. Neppure Obama, dunque, ha fatto cambiare idea ad uno degli uomini più duri dell’establishment israeliano.

All’ombra di un falco travestito da colomba, di domande apparentemente innocenti, si snoda la tragedia di un popolo che qualcuno vuole cancellare dal volto del mondo. Oggi in Israele si vieta, su proposta di una commissione governativa, la celebrazione della Nabka. Le ombre del razzismo si stendono sui fermenti deteriori della società israeliana. Inoltre Beitenuei vorrebbe per legge un giuramento di fedeltà allo Stato ebraico. Libertà di opinione, di stampa di dissenso, sono messe in crisi dalla nuova direzione dello Stato israeliano. Con il divieto di celebrare la Nabka si vieta ad un popolo il diritto di guardare allo specchio la propria storia. Ma se neppure Obama riesce a orientare le mosse di Nethanyau, come si parleranno nel prossimo futuro palestinesi ed ebrei?