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OGM e consumatore

di Claudio Malagoli - 27/05/2009

In un momento in cui non sono ancora chiari gli effetti degli Organismi
Transgenici (OT) sulla salute umana e sull’ambiente, il consumatore potrebbe
affrontare una certa dose di rischio nel consumo di Cibi Transgenici (CT) nel
caso in cui essi gli comportassero vantaggi economici e non soltanto
economici. In particolare, nel caso in cui:
1) i CT avessero le stesse caratteristiche qualitative di quelli
convenzionali ed avessero un prezzo di acquisto inferiore;
2) i CT avessero lo stesso prezzo di acquisto di quelli convenzionali,
ma offrissero migliori caratteristiche qualitative;
3) i CT aumentassero la variabilità degli alimenti presenti sul mercato;
4) i CT aumentassero la sicurezza alimentare;
5) i CT aumentassero la sicurezza ambientale;
6) i CT fossero in grado di risolvere i problemi della fame nel mondo;
7) i CT consentissero di diminuire le differenze sociali tra le diverse
persone.
1. - A proposito di medesime caratteristiche qualitative e minori prezzi
Da un punto di vista strettamente economico il consumatore tende
sempre più a risparmiare nelle operazioni di acquisto dei singoli beni, al fine
di aumentare i consumi totali. Pertanto, non vi è alcun dubbio sul fatto che egli
potrebbe rivolgere l’attenzione verso i CT se essi avessero le stesse
caratteristiche qualitative di quelli convenzionali ed avessero un prezzo di
acquisto inferiore. In primo luogo,però, occorre evidenziare che
l’equivalenza qualitativa tra l’alimento transgenico e quello convenzionale è
ancora tutta da dimostrare, in quanto il CT contiene sia il transgene o i
transgeni, sia la proteina o le proteine espressione del transgene.
Non v'è dubbio che, a parità di qualità, nel caso in cui si verificasse una
reale contrazione dei prezzi dei beni alimentari, si potrebbe determinare un
incremento di benessere per la società, in relazione alla possibilità di
consentire alle popolazioni più povere di poter acquistare una maggior
quantità di beni necessari a soddisfare il loro fabbisogno alimentare e alla
possibilità da parte dei consumatori dei Paesi ricchi di risparmiare
nell'acquisto di alimenti, per poi destinare la restante parte del loro reddito ad
altri consumi di livello superiore.
Da rilevare che nel caso di prezzi di vendita inferiori rispetto a quelli
convenzionali, il consumatore pagherà meno questi alimenti, ma gli rimarrà
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comunque l'incertezza sulle loro reali capacità nutrizionali. Tale incertezza
determina una diminuzione del grado di soddisfacimento dei bisogni, in
quanto l'eventuale minor prezzo di acquisto dei CT, potrebbe essere visto
come un vantaggio virtuale, non reale, caratterizzato da un livello di utilità
inferiore a quello che il consumatore avrebbe ottenuto dal consumo di cibi dei
quali conosce le reali proprietà organolettiche e nutrizionali (costa meno, ma
probabilmente vale anche meno!!). Non si spiegherebbe altrimenti il forte
aumento del consumo di prodotti biologici e dei prodotti tipici che si è
verificato negli ultimi anni (il consumatore paga di più un prodotto che
secondo il suo giudizio è caratterizzato da una maggior utilità e che, pertanto,
ritiene maggiormente idoneo a soddisfare i suoi bisogni, che oggigiorno fanno
riferimento alla qualità, alla genuinità, alla sicurezza alimentare e alla
tracciabilità).
A conclusione di queste considerazioni relative all’ipotesi che il
consumatore possa ottenere dei benefici dalla riduzione dei prezzi dei prodotti
alimentari transgenici, occorre rilevare che nella realtà i fatti dimostrano il
contrario, ovvero che l’introduzione di alimenti transgenici non ha portato ad
una riduzione dei prezzi dei rispettivi prodotti, ma ha determinato un aumento
dei prezzi dei corrispondenti prodotti “non transgenici”. Tale effetto, sotto
molti punti di vista paradossale, è dovuto al fatto che nei Paesi industrializzati,
dove lo scetticismo nei confronti di questi alimenti è maggiore, sono state
create due filiere per il medesimo prodotto: una per quello transgenico, e una
per quello non transgenico. Questa suddivisione, effettuata al fine di
consentire al consumatore di operare una scelta di acquisto consapevole,
comporta dei costi di distribuzione (di segregazione, di conservazione, di
lavorazione, di etichettatura, di analisi, ecc.), che riducono sensibilmente i
vantaggi economici ottenibili durante la fase di produzione agricola. E’ ovvio
che l’aumento del prezzo andrà a ripercuotersi sul consumatore, il quale già
ora è costretto a spendere di più (per acquistare i tradizionali prodotti non
transgenici) per la sola ragione che qualcuno ha voluto introdurre questi nuovi
alimenti, senza affrontare preventivamente le problematiche economiche e
sociali ad essi connesse (secondo informazioni assunte presso operatori del
settore, per avere soia certificata “GMO free” occorre pagare una
maggiorazione del 15% circa).
In questo contesto, in cui i prezzi delle materie prime
transgeniche non sono sostanzialmente inferiori a quelli dell'omologo prodotto
convenzionale, non si capisce perché mai il consumatore dovrebbe sostituire
un alimento tradizionale, che da sempre fa parte della sua alimentazione e che
ha dato dimostrazione nel tempo di essere sicuro, con un alimento che
presenta, anche solo potenzialmente, dei rischi per la sua salute, per quella
delle generazioni future e per l'ambiente.
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E’ necessario che la ricerca chiarisca questi dubbi prima di adottare CT
per l’alimentazione umana.
2. – A proposito di stessi prezzi e migliori caratteristiche qualitative
Il consumatore potrebbe essere disposto a correre qualche rischio nel
consumo di CT se, a parità di prezzo di acquisto rispetto a quelli
convenzionali, essi manifestassero migliori caratteristiche qualitative
(nutrizionali, di modalità di consumo, di reperibilità ecc.). Economicamente
parlando si tratta di una situazione che difficilmente potrà verificarsi, in
quanto se il nuovo alimento avrà caratteristiche qualitative superiori a quello
convenzionale, difficilmente in un medesimo mercato potrà avere lo stesso
prezzo; sicuramente avrà un prezzo superiore, che terrà conto dell’elemento
differenziale.
A proposito di miglioramento qualitativo, occorre rilevare che al
momento attuale la ricerca ha lavorato solo ed esclusivamente alla creazione
di piante semplici da ottenere (pochi geni specifici) e in grado di massimizzare
i profitti delle imprese che detengono il brevetto su questi vegetali (piante
resistenti ai diserbanti, agli attacchi di insetti, che non marciscono, ecc.). Il
consumatore finora non ha ottenuto alcun vantaggio da questi prodotti, in
quanto ai fini nutrizionali essi non comportano nessun beneficio rispetto a
quelli non modificati. Purtroppo, dai primi elementi a disposizione sembra
anche che questi nuovi alimenti non siano migliori da un punto di vista
organolettico rispetto a quelli già presenti sul mercato (il pomodoro che non
marcisce, al di là dei problemi legati ai maggiori costi di produzione, è stato
eliminato dal mercato per il consumo allo stato fresco, in quanto sembra che
avesse un forte sapore metallico). Va detto, però, che siamo alle prime
applicazioni e che le piante transgeniche attualmente coltivate sono destinate
per la gran parte alla produzione di derivati industriali di prima
trasformazione, per cui è estremamente difficile esprimere un giudizio
razionale e oggettivo sulle loro caratteristiche qualitative.
Per quanto riguarda questi prodotti, occorre poi rilevare che essi
aumenteranno le incertezze nutrizionali dei consumatori. Tale affermazione è
supportata dal fatto che essi esteriormente sono identici a quelli convenzionali,
per cui potrebbe accadere che al consumatore siano venduti come alimenti non
transgenici, alimenti transgenici. Trattasi di un aspetto molto importante, in
quanto per esempio, nel caso di alimenti che contengono più vitamine,
sappiamo che è dannoso per la salute umana sia una carenza di vitamine, sia
un eccesso delle stesse. Pertanto questi prodotti dovranno essere segregati da
quelli convenzionali e venduti sotto stretto controllo.
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A proposito delle precedenti affermazioni, dobbiamo dire che il primo
incidente alimentare causato da OT si è già verificato. Negli U.S.A. una partita
di STARLINK, un mais transgenico autorizzato solo per l’alimentazione
animale, è stato erroneamente avviato all’alimentazione umana; risultato, circa
50 persone hanno accusato malesseri e sono ricorse alle cure mediche, alcuni
prodotti trasformati a base di mais sono stati ritirati dal mercato, alcuni
stabilimenti di lavorazione del mais hanno dovuto interrompere la lavorazione,
si sono avuti danni economici per migliaia di miliardi.
Pertanto il problema della rintracciabilità e dell’etichettatura dei
prodotti transgenici è un elemento da non sottovalutare, in quanto sempre più
frequentemente il consumatore vorrà conoscere l’origine ed il percorso
produttivo e commerciale del prodotto che intende acquistare.
3. – A proposito di aumento della variabilità alimentare
Il consumatore potrebbe accettare i CT nel caso in cui essi aumentassero
la variabilità degli alimenti presenti sul mercato, al fine di avere a disposizione
una maggior scelta di cibi e, quindi, una maggior variabilità nutrizionale. A
questo proposito occorre rilevare che, al contrario, l’introduzione di OT
determinerà con ogni probabilità una riduzione della variabilità genetica e,
conseguentemente, una perdita in termini di variabilità nutrizionale. Tale
situazione sarà determinata dal fatto che le poche piante trasformate (da un
punto di vista economico ai costitutori non conviene ampliare la gamma delle
piante “brevettate” di una stessa specie, in quanto costerebbe molto ottenerle e
sarebbero tra loro concorrenti sullo stesso mercato), in relazione
all’automazione del processo produttivo che metteranno in atto, saranno
utilizzate su vasta scala dagli agricoltori. In questa situazione, anche le piante
migliori da un punto di vista di talune caratteristiche qualitative (cultivar
locali, cultivar con sapori particolari o con contenuti nutrizionali particolari
ecc.) potrebbero essere sostituite da quelle transgeniche. Un primo esempio di
questa evoluzione l’abbiamo avuto dalla fortissima espansione delle superfici
coltivate a mais e soia transgeniche negli U.S.A, in Canada e in Argentina. In
pochi anni, in relazione al fatto che non essendoci segregazione di filiera il
prezzo di mercato del mais e della soia è determinato dal minor costo di
produzione delle piante transgeniche, gli agricoltori, al fine di mantenere un
certo margine di redditività dall’attività di coltivazione, sono stati “obbligati”
(ovviamente dal mercato) a sostituire le cultivar convenzionali (non più
competitive da un punto di vista dei redditi) con quelle transgeniche. Pertanto,
l’introduzione di piante transgeniche, soprattutto nel caso in cui non vi sia
segregazione di filiera con l’analogo prodotto non transgenico, determina un
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percorso obbligato anche per l’agricoltore che non vuole coltivare queste
piante. Egli sarà “costretto” a coltivare queste piante se vorrà mantenere una
certa redditività dall’attività agricola.
La perdita di variabilità qualitativa determinerà poi una modificazione e
una omologazione dei gusti del consumatore, che non sarà più in grado di
distinguere i sapori tradizionali (i relativi alimenti saranno più rari e con ogni
probabilità con un prezzo superiore), dai sapori tecnologici (alimenti
maggiormente diffusi e con prezzi, forse, inferiori). Del resto la
globalizzazione dei mercati svolge in questo senso un ruolo trainante, in
quanto i sapori sono legati ai luoghi di produzione con le relative cultivar
locali e rappresentano un limite alla globalizzazione delle aree di produzione.
A conclusione di queste poche considerazioni, occorre rilevare che il
giudizio qualitativo è sempre un fatto soggettivo, per cui è difficile affermare
che l’introduzione di un gene che aumenta il grado zuccherino o impedisce la
maturazione rappresenti un miglioramento o un peggioramento qualitativo: il
giudizio è sempre personale, legato a gusti e ad abitudini alimentari
consolidate nel tempo. In questo contesto occorre soprattutto preservare il
diritto fondamentale del consumatore di poter scegliere consapevolmente
il cibo che intende acquistare. Da questo punto di vista l’etichettatura appare
elemento di primaria importanza. Deve però essere un’etichettatura semplice,
chiara e non fuorviante e, soprattutto, deve essere data la possibilità al
consumatore di acquistare cibo sicuramente non transgenico, senza alcuna
soglia di tolleranza.
4. – A proposito di sicurezza alimentare
I sostenitori dei CT affermano che essi aumenteranno la sicurezza
alimentare, in quanto le piante saranno più sane e presenteranno una minor
quantità di micotossine. Trattasi di un elemento importante da tenere nella
dovuta considerazione allorchè si tratterà di valutare rischi e benefici del CT.
Purtroppo, però, anche nel caso delle produzioni transgeniche, così come per
altri prodotti che non hanno mai fatto parte della nostra dieta, ci troviamo di
fronte a nuovi alimenti dei quali non sono ancora conosciuti gli effetti sulla
salute umana. Che qualche rischio sia presente lo possiamo rilevare dal fatto
che la legislazione comunitaria ha vietato l’impiego di OT per la produzione
di alimenti destinati alla nutrizione dei lattanti e dei bambini al di sotto dei tre
anni e che le compagnie di assicurazione si rifiutino di stipulare contratti nei
confronti dei rischi da OT.
Tra gli altri elementi che inducono a pensare che vi possa essere
qualche altra probabilità di rischio per la salute si ricordano:
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- la possibilità di poter confondere CT arricchito con proteine o con
vitamine con cibo tradizionale;
- la possibilità di poter confondere CT ad uso umano con quello
destinato ad esclusivo uso zootecnico;
- gli effetti allergici che possono essere provocati da talune sostanze
presenti nell’alimento transgenico e normalmente assenti
nell’alimento convenzionale;
- il passaggio del gene che codifica per la resistenza ad alcuni
antibiotici (utilizzato durante la fase di creazione dell’OT) alla flora
batterica intestinale e da questa ad alcuni batteri patogeni che
diventerebbero essi stessi resistenti all’antibiotico;
- gli effetti e le interazioni dovuti alla presenza della proteina
espressione del transgene che è stato introdotto e che si trova
nell’alimento;
- gli effetti e le interazioni dovuti alla presenza del transgene
introdotto e che si trova nell’alimento;
- gli effetti prodotti dai promotori e dai terminatori sull’alimento e
sull’ambiente.
Molto difficile è risolvere il problema delle allergie, in quanto anche
una minima parte della popolazione che si nutre di questi alimenti potrebbe,
senza esserne a conoscenza, risultare allergica a quella particolare proteina e
avere quindi delle conseguenze sulla salute (anche senza arrivare allo shock
anafilattico).
Ancora una volta di estrema importanza è lo sviluppo della ricerca in
merito agli effetti sulla salute e sull’ambiente degli OT e l’etichettatura di
questi prodotti, al fine di consentire al consumatore una scelta consapevole.
5. – A proposito di sicurezza ambientale
Il consumatore potrebbe correre qualche rischio nel consumare CT, nel
caso in cui essi fossero prodotti con un minor impatto sull’ambiente e fossero
in grado di aumentare la sicurezza ambientale. In particolare, la coltivazione
di OT resistenti alle più svariate patologie, potrebbe sicuramente contribuire
alla diminuzione degli effetti negativi prodotti dall'agricoltura convenzionale.
Trattasi di un elemento di estrema importanza, poiché questi effetti sono
per lo più di tipo diffuso, difficilmente controllabili con progetti puntuali sul
territorio (filtri, depuratori ecc.). Anche in questo caso, però, i ricercatori non
hanno fatto i conti con la complessità del “sistema naturale”, in quanto
specifiche ricerche hanno verificato che, col tempo, gli insetti, ma così sembra
anche i patogeni vegetali, maturano una naturale resistenza genetica, per cui si
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creano generazioni di insetti resistenti alla tossina (sembra ogni 4-5 anni per la
piralide), mentre le piante infestanti possono acquisire, mediante
impollinazione incrociata, il gene di resistenza all’erbicida, vanificando così,
di fatto, gli sforzi operati per rendere resistenti al diserbante soltanto le piante
coltivate (secondo taluni autori, nei Paesi che per primi hanno introdotto OT
esistono già piante infestanti resistenti al ROUNDOP).
Da queste semplici considerazioni risulta evidente che la trasformazione
genetica non è in grado di risolvere il problema, in quanto dopo pochi anni
esso si ripresenta nella medesima condizione, se non addirittura in termini
peggiori, in quanto l’insetto o la pianta da controllare sarà caratterizzata da
una maggior variabilità genetica e, quindi, sarà ancor più difficile da contenere
(di tale eventualità non saranno certo entusiasti i coltivatori biologici, che si
troveranno a dover contrastare senza mezzi chimici di sintesi insetti con
patrimoni genetici diversi e, quindi, caratterizzati da una maggior virulenza).
Da un punto di vista ambientale il problema di maggior rilievo è quello
relativo all’inquinamento genetico. Questi OT, infatti, hanno geni costituitivi
che si esprimono in ogni parte della pianta, anche nel polline (sembra sia già
disponibile una tecnologia che consentirebbe di eliminare questo problema,
ma non è ancora applicata), che, ovviamente, si disperde nell’ambiente
mediante il vento e gli insetti. Il polline di OT, quindi, può fecondare piante
parentali non transgeniche, che darebbero così origine a semi che contengono
il transgene. Ovviamente in un’annata successiva, anche nel caso in cui
decidessimo di non coltivare queste piante, il transgene potrebbe passare dalle
piante parentali a quelle coltivate e via di seguito. Così il transgene potrebbe
autonomamente replicarsi senza l’ausilio dell’uomo.
In relazione alla diffusione aerea del polline, andrebbero verificate
anche le possibilità di inquinamento genetico delle coltivazioni convenzionali
attuate in prossimità di coltivazioni transgeniche. Quali conseguenze si
avranno per le colture tipiche che non prevedono nel loro disciplinare di
produzione la possibilità di utilizzare individui transgenici? Quali
conseguenze si avranno per le produzioni biologiche che bandiscono
completamente l’utilizzo agricolo e zootecnico degli OT? Chi sarà
responsabile dei danni economici prodotti? Quali e quanti contenziosi si
apriranno?
In merito alle piante transgeniche resistenti ai patogeni, siano essi
animali o vegetali, è già stato verificato che col tempo si potrebbe avere una
naturale selezione genetica di insetti e di piante infestanti resistenti. Cosa
accadrà quando questi insetti o queste piante divenute resistenti inizieranno a
produrre danni? Fondamentalmente si potrà andare in due direzioni:
- introduzione nella medesima pianta transgenica di altri geni in grado di
renderla di nuovo resistente ai patogeni (ed è la strada che potrebbe essere
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perseguita, al fine di brevettare ogni 5-6 anni una nuova pianta transgencia e
consolidare così la dipendenza dell’agricoltore dall’industria sementiera per
l’acquisto dei semi);
- studio e produzione di specifici formulati chimici in grado di eliminare
l’antagonista (nuovi antiparassitari, nuovi diserbanti ecc.).
Nessuna delle due soluzioni appare sostenibile, in quanto nel primo
caso, col tempo, avremmo una proliferazione di geni estranei contenuti nella
medesima pianta (quando nella stessa pianta i transgeni saranno 10, 20 o 1.000
sarà ottenuto lo stesso cibo o qualcosa di diverso?), mentre nel secondo caso ci
troveremmo dopo pochi anni nella situazione di partenza, ovvero a un punto in
cui sarà necessario studiare e applicare nuovi formulati chimici per
“controllare” le generazioni di insetti resistenti.
Per quanto attiene specificamente alle piante resistenti agli insetti,
occorre poi considerare che la proteina insetticida sembra non si limiti a
eliminare gli insetti "bersaglio" dannosi, ma potrebbe colpire
indiscriminatamente anche altri insetti, alcuni dei quali svolgono funzioni utili
per la produttività della stessa pianta (impollinazione, per esempio) o funzioni
diverse nel terreno. Trattasi di un elemento di estrema importanza, da tenere
nella dovuta considerazione, in quanto potrebbe portare alla riduzione o,
addirittura, all’eliminazione di alcune specie di insetti che svolgono il loro
ruolo all’interno della catena alimentare. Cosa accadrà, quando il transgene
che produce la proteina insetticida si trasferirà in altre piante selvatiche
parentali? Quali insetti saranno eliminati da questa proteina? Quali effetti vi
potranno essere per gli altri animali che fanno parte della medesima catena
alimentare? Occorre dare una risposta a queste domande prima di immettere
deliberatamente nell’ambiente piante transgeniche.
6. – A proposito di fame nel mondo
“Gli OT rappresentano l’unico modo per risolvere il problema della
fame nel mondo”. La precedente affermazione, cara ai sostenitori degli OT per
scopi alimentari, contrasta però con la realtà. Infatti, occorre considerare che
molto spesso i problemi di sottoalimentazione di determinate aree del pianeta
sono legati non solo ed esclusivamente ad una carenza di quantità, ma anche a
problemi interni di carattere economico e politico. Pertanto, alleviare il
problema alimentare di queste popolazioni, significa prima di tutto eliminare
la povertà (consentire loro di avere un reddito adeguato mediante il quale
acquistare il cibo necessario) e le motivazioni politiche che impediscono loro
di raggiungere accettabili livelli di reddito. Non troverebbe altra spiegazione il
fenomeno per cui, in questi ultimi anni, molti Paesi che manifestano problemi
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di sottoalimentazione (per esempio l’India) sono divenuti i principali
esportatori mondiali di cereali.
In questa situazione, occorrerà verificare anche la possibilità che la
coltivazione di OT possa addirittura aggravare i problemi di
sottoalimentazione di determinate aree del pianeta. Tale situazione potrebbe
essere determinata dalla lievitazione dei prezzi interni del cibo, in relazione
all’aumento delle esportazioni.
Eliminazione della fame nel mondo significa sicuramente produrre
maggiori quantità di cibo, ma significa anche modificare le abitudini
alimentari dei Paesi ricchi, che in nome della fettina e degli hamburger a basso
prezzo, destinano gran parte delle calorie di origine vegetale all’ingrasso degli
animali da carne. E’ risaputo, infatti, che per produrre una caloria di origine
bovina, occorrono mediamente sette-otto calorie di origine vegetale. Questo,
ovviamente, non vuol dire che per sconfiggere la fame nel mondo dobbiamo
diventare tutti vegetariani, ma evidenzia una richiesta di maggior
consapevolezza nei confronti dell’alimentazione. Consapevolezza anche degli
effetti ambientali prodotti dall’allevamento intensivo (sul suolo e sulle acque)
e delle caratteristiche qualitative delle carni, in relazione alla sfrenata ricerca
dei bassi prezzi (carne agli ormoni, carne con antibiotici, carne bovina
ottenuta con proteine di origine animale o con l’utilizzazione di sottoprodotti e
di scarti di lavorazione, ecc.).
7. – A proposito di differenze sociali
Il consumatore potrebbe avere un atteggiamento favorevole nei
confronti dei CT se essi consentissero di diminuire le differenze sociali tra le
diverse persone e consentissero un miglioramento del livello di benessere
degli strati sociali più deboli. Ad un primo sommario giudizio si può
affermare, al contrario, che essi contribuiranno ad aggravare ulteriormente le
differenze sociali esistenti all’interno della nostra società. Infatti, il loro
acquisto, in relazione ai probabili rischi ed agli auspicati minori prezzi di
mercato, sarà effettuato in prevalenza dalle classi sociali economicamente più
deboli, mentre le classi sociali più ricche continueranno ad alimentarsi con
prodotti biologici, prodotti a denominazione di origine controllata, prodotti
tipici, ecc.. Tale eventualità, soprattutto nel momento attuale in cui non sono
ancora chiari gli effetti sulla salute umana, pone problemi di sicurezza sociale
non indifferenti, che potrebbero avere forti ripercussioni a lungo termine.