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Michael Jackson, chi?

di Claudio Ughetto - 02/07/2009

 

Non sono mai stato fan di Michael Jackson, né l’ho mai trovato simpatico. Forse perché ha incarnato alla perfezione quegli anni 80 di cui in troppi celebrano i fasti, mentre io continuo a desiderare che finiscano una volta per tutte, per non tornare mai più. Certo, in quegli anni si è prodotta anche dell’ottima musica, ma non v’includerei quella della popstar appena scomparsa. Sono sempre stato tra coloro che a Michael Jackson contrapponevano, stupidamente e arbitrariamente, Prince, in base ad associazioni che oggigiorno lasciano il tempo che trovano: finto negro il primo, visceralmente funky il secondo; trasgressivo il secondo, adolescenziale e infantile il primo; star di plastica il primo, relativamente indipendente il secondo. Paragoni incongrui nel terzo millennio. Ascesa e caduta di due personaggi di grande talento, dei quali ci rimangono gli album realizzati durante la gloria, sebbene a mio avviso la musica prodotta dal genio di Minneapolis preservi tutt’altro spessore.
Ora, bisognerebbe essere miopi e presuntuosi per mettere in dubbio l’enorme talento di Jacko, uno che si è fatto il mazzo come nessun altro e che come produttore di spettacolo eccelleva quasi in tutto. Voce particolarissima, aggressiva, suadente nelle ballad, infantile - quasi da bambino capriccioso, di una sensualità disturbante; inventore e artefice di coreografie di grande originalità, fatte per entrare di botto nell’immaginario adolescenziale; capacità di circondarsi della “gente giusta”: basti pensare al Re Mida Quincy Jones, che ha sempre saputo dare a suoi album un magico equilibrio tra qualità e vendibilità. Ma è proprio qui che secondo me spuntano i limiti di Michael Jackson come songwriter. Finito il legittimo cordoglio per la morte di un artista che ha, nel bene e nel male, segnato un’epoca, ormai giunto all’apice del declino per scandali, debiti e proprie maniacali ossessioni, cosa rimarrà del musicista che ha venduto all’inverosimile? Non sono mai riuscito a comprendere l’idolatria per certe icone, scomparse ai limiti della mezz’età, piene di talento e persino di genio, i cui fasti sono però ricordati per gli atteggiamenti più plateali e kitsch. Quale valore possono avere le performance liricheggianti di Freddie  Mercury, tranne far sentire migliori degli spettatori che non capiscono nulla di musica classica e di melodramma, ma conoscono a memoria le arie degli spot pubblicitari? I Queen stessi, che avrebbero potuto fare della musica straordinaria, troppo spesso si sono ridotti a schitarrare inni o a fare a gara con Céline Dion. È un caso che qualcuno li paragonasse, con tutto il rispetto, ai Pooh o agli Abba? In un’epoca in cui si sdoganano gli Abba, è indubbio che i Queen diventano preziosi.  
Michael Jackson ha duettato ai limiti del kitsch con le più blasonate popstars americane, ha frequentato attrici hollywoodiane che gli hanno fatto da mamma, è stato l’eminente promotore dei nonluoghi Augeiani, dei MacDonald’s e dei parchi giochi, ha combattuto per l’Amazzonia e per la Pecunia in nome di quella che in America viene chiamata “la ricerca della felicità”. Lui di felicità ne ha avuta poca. Anzi, ha fatto una vita narcisa e solitaria, da eterno adolescente in una gabbia di vetro. Non importa. Trovo il moralismo disgustoso, e penso che Jacko non meritasse gli scandali degli ultimi anni. È probabile che egli, nella sua mente infantile, agisse davvero con la massima ingenuità, senza danneggiare nessuno. Preferisco discutere della musica. Cosa ci rimane di essa? A me sembra poco. Thriller è l’album tuttora più venduto nel mondo, eppure quando lo riascolto, pur trovandolo piacevole, mi sembra già vecchio. È proprio nel suo album migliore che si palesano i limiti di un songwriter che scriveva delle normali popsong che Quincy Jones sapeva rendere innovative. Non dimentichiamo, inoltre, che la titletrack non è neppure sua, ma di Rod Temperton. Torniamo al paragone iniziale, per quanto inadeguato. Sign of the time, di Prince, suona nuovo ora come allora: per l’uso delle percussioni, il bizzarro arrangiamento di alcuni brani, l’amalgama degli stili, la maliziosa giocosità dei testi, l’intenzionalità a non cercare mai la via più facile pur rispettando l’ascoltatore, per sorprenderlo sempre. Posso ascoltare innumerevoli volte Housequake o The ballad of Dorothy Parker e trovarci qualcosa d’inedito ad ogni ascolto. E di Thriller? Sicuramente l’incalzante e geniale basso della titletrack, l’intrusione chitarristica di Ed Van Halen in Beat It (quasi un’eresia per un’epoca dove i generi erano a compartimenti stagni, ma adesso fa meno colpo), il pop-funk di Billie Jean, con l’accattivante gioco di ritmica-tastiere (e il sax che subentra quasi a contrappuntare). Il resto permane nel brodo del funk, del soul e del rhythm and blues, onestamente suonati e laccati. In aggiunta, l’estro di un performer impareggiabile. Non è un caso che la produzione successiva di Jacko si appiattirà man mano su un pop danzereccio tagliato per gli adolescenti, sparato a mille sul palco, tra scenografie e coreografie kitsch mozzafiato. Anche il kitsch può essere un’arte, e il suo rivale Prince non è mai stato da meno. Secondo me, la differenza consiste nel modo in cui esso è trattato. Michael Jackson l’ha degradato a prodotto di consumo più di altri, alimentadolo con i peggiori topos dell’immaginario da esportazione. E anche con pochissima ironia.