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Xinjiang, il “Tibet islamico” di Pechino

di Alessandro Sassone - 08/07/2009

 

 
Xinjiang, il “Tibet islamico” di Pechino
 



Forte imbarazzo per il premier cinese Hu Jintao, impegnato in questi giorni nel summit del G8 italiano, per quanto sta accadendo nella regione autonoma dello Xinjiang, dove ieri l’etnia cinese Han è scesa in piazza (foto) con mazze e machete per farsi giustizia contro gli uighuri musulmani.
Gli ultimi bilanci parlano di 156 morti e circa 900 feriti; intanto i manifestanti chiedono notizie dei 1.434 arrestati dalla polizia.
Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, gli scontri in corso nella capitale a maggioranza musulmana porteranno ad una dichiarazione comune da parte dell’Unione europea. La dichiarazione avrà come oggetto il rispetto dei diritti umani, tallone d’Achille di una Cina considerata, in questo periodo di recessione globale, una cenerentola capace di far ripartire l’economia mondiale.
Lo Xinjiang rappresenta per il governo di Pechino un “Tibet musulmano”, una seconda spina nel fianco, ma anche un territorio ad alto sviluppo demografico e, quindi, economicamente appetibile, al quale, proprio come per la questione tibetana, il governo cinese non vuole rinunciare, in linea con l’ideologia nazionalista di “una sola Cina”.
Da una parte, il territorio dello Xinjiang, chiamato dalla minoranza musulmana Est Turkestan, è ricco di giacimenti petroliferi e di riserve di gas, dall’altra, rientra in quella strategia di sinizzazione, messa in atto nell’ultimo decennio da Pechino, per ripopolare zone a bassa densità demografica e sviluppare una forte politica economica, anche attraverso incentivi e sgravi fiscali destinati alle etnie cinesi che in questo modo attuano una vera e propria colonizzazione di aree ricche di risorse naturali.
Una pratica che viene incontro anche all’esigenza di dare respiro alle grandi città della Cina, ormai demograficamente sature. Una strategia, questa, che sta provocando le preoccupazioni dell’etnia uighura, che fino a poco tempo fa rappresentava la razza predominante della regione e che lotta da tempo per ottenere la secessione dal governo di Pechino.
Ad oggi, il rapporto tra le due etnie è molto cambiato. L’etnia locale di religione musulmana nella capitale Urunqui (2,5 mln di abitanti) rappresenta solo il 30% della popolazione; questa una prima ragione dell’esasperazione degli uighuri.
A giocare un ruolo decisivo c’è poi la questione degli incentivi economici che ricevono da Pechino i cittadini Han per lo sviluppo di attività commerciali; senza contare usi e costumi che differiscono non poco da una popolazione di fede musulmana e turcofona.
La situazione della regione dello Xinjiang apre al confronto con quanto accade in Tibet, dove ad esempio a Lhasa l’etnia cinese sta superando quella tibetana. Diverse le similitudini proprio per il modello economico messo in atto da Pechino; tuttavia, non solo l’informazione ma soprattutto la comunità internazionale mostra scarsa attenzione per la situazione: la causa uighura non raccoglie in Europa e negli Stati Uniti le stesse simpatie di quella dei buddisti tibetani che possono contare su un leader di riferimento come il Dalai Lama.
Gli uighuri a causa della loro religione musulmana e le accuse di connivenza con l’integralismo islamico pagano la diffidenza del mondo occidentale.
Dopo l’11 settembre 2001, Pechino ha anche segnalato, forse anche in modo strumentale, diverse connivenze dell’etnia uighura con al-Qaida ottenendo così un certo isolamento della causa secessionista. In particolare il governo cinese teme che gli uighuri possano trovare il sostegno delle repubbliche dell’ex Unione sovietica, anch’esse di religione islamica. A tale proposito Pechino ha anche intavolato uno scambio di informazioni con Iran e Pakistan per tenere sotto stretto controllo i movimenti uighuri al confine tra le due regioni.