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E Woody Allen “corresse” Dante e Puccini

di Marco Iacona - 09/07/2009

 

Nei giorni scorsi, nella Spoleto del Festival dei due Mondi, uno degli appuntamenti culturali più importanti dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi, si sono dati convegno due tipi niente male. Il maestro Giacomo Puccini e il maestro Woody Allen. A farli incontrare (terzo fra cotanto senno), un altro signore, del quale, almeno da un paio di stagioni, pare si dica un gran bene… il maestro Dante Alighieri. Di un incontro così speciale – fra vivi e morti – non potevano, infatti, non essere complici certe alte sfere, delle quali il fiorentino – come sappiamo – aveva una qual conoscenza diretta... È bastato, insomma, un atto unico pucciniano il Gianni Schicchi, tratto dalla Divina Commedia (Inferno – canto XXX) e da una farsa del premio Nobel Roger Martin du Gard (Le testament du père Leleu), terzo e ultimo “atto” di uno spettacolo in parti autonome del 1918 (Il Trittico pucciniano, appunto), perché il grande Woody, più di quaranta film alle spalle, si avvicinasse per la prima volta all’opera lirica, come regista teatrale. Sembra inoltre che anche i buoni uffici di un altro grande maestro, Placido Domingo, il signor numero 58 fra i geni viventi dell’intero pianeta, abbiano giovato alla definizione dell’incontro “pericoloso” Allen-Puccini. Così, Gianni Schicchi, quasi sconosciuto al grande pubblico e a novant’anni dalla sua prima rappresentazione italiana al teatro Costanzi di Roma, potrebbe passare alla storia come l’opera più amata dalle intelligenze del mondo; alla combriccola aggiungiamo, poi, il librettista dell’atto unico pucciniano, Giovacchino Forzano, un intellettuale eclettico (fu cantante egli stesso), morto ultraottantenne nel 1970, che lavorerà per il cinema durante il regime fascista (chissà se Woody l’anarchico lo sapeva…).
Gianni Schicchi, dunque… ma chi era costui? La trama di questo penultimo lavoro pucciniano prima dell’incompiuta Turandot è assai gradevole, trattandosi in buona sostanza di un’opera comica. Né, al suo interno, mancano le pagine musicali celebri come, ad esempio, l’aria di Lauretta, la figlia del protagonista, O mio babbino caro. La storia è quella di un imbroglio, anzi di un doppio imbroglio: su frettolosa richiesta di alcuni parenti delusi, il fiorentino Gianni Schicchi si sostituisce al mercante Buoso Donati (appena morto), per dettare un testamento falso a favore dei primi; alla fine però l’astuto Schicchi-Buoso si farà beffe dei parenti ingordi e lascerà tutto a se stesso (cioè al vero Gianni Schicchi). Nella versione dantesca della storia, Schicchi – realmente esistito nel XIII secolo come Gianni Schicchi de’ Cavalcanti – si trova nella bolgia dei falsari (falsari di persone); la sua condanna è mordere gli altri dannati come fosse un porco: l’astuto fiorentino era infatti reo di aver falsificato il testamento di Buoso Donati, dettandolo in proprio favore allo scopo di ottenere una bella cavalla. Le atmosfere delle due commedie, quella pucciniana e quella dantesca risultano, ovviamente, del tutto diverse. Nella prima si respira una tenue aria farsesca, che emerge come sottile divertimento, essa è invece del tutto assente sia nella Divina Commedia, sia, per altro verso, nelle prime due parti del Trittico pucciniano, cioè Il Tabarro e Suor Angelica, sia nel Puccini più conosciuto, da Manon Lescaut a Butterfly, passando per Bohème e Tosca.
Di questa intima eccentricità dell’opera pucciniana, di questo pezzo quasi-unico, dev’essersi dunque invaghito Woody Allen, che ama mescolare serietà e divertimento in un tutt’armonico di gran fattura, con finale a bomba. A spalleggiarlo nell’estate umbra, artisti di prim’ordine, come nella tradizione dei Festival che si svolgono, anno per anno, nel nostro Paese. In linea generale, lo spettacolo spoletino, prima europea dello Schicchi alleniano dopo il debutto l’anno scorso, a Los Angeles, cioè nel regno dominghiano, è andato molto bene (la prima italiana era per il 26 giugno). Bravo il direttore d’orchestra, l’americano James Conlon, bravo il protagonista, l’altrettanto esperto Thomas Allen, bravi gli altri interpreti anche se tutti stranieri, bravo lo scenografo Santo Loquasto. Per quel che riguarda specificamente la parte registica, cioè quella alleniana, in verità, non è mancato qualche mugugno. Lamentale provenienti non tanto dal pubblico (dieci minuti di applausi finali, titolava il Corsera del 27 giugno scorso), quanto dalla critica più colta: il più “feroce” di tutti pare sia stato Paolo Isotta (ancora sul Corsera del 29 giugno), il musicologo che, notoriamente, non le manda mai a dire a nessuno. Gran parte della questione pare stia tutta racchiusa in pochi minuti: nel finale dell’opera cambiato (parliamo della parte registica e non di quella musicale, naturalmente), Woody si è permesso, insomma, una piccola stravaganza (ma gli spettatori dell’opera sono abituati a molte stramberie ed “errori” storici), con Gianni Schicchi che alla fine viene ucciso da una parente di Buoso, Nella, che così lava l’onore della famiglia, che ha subito il pesantissimo scherzo. Nel testo originale, però, nulla di tutto ciò risulta posto per iscritto: l’opera si conclude, infatti, con Schicchi che si compiace della propria furbizia; rammentando agli uomini e alle donne del pubblico che egli sarà cacciato all’inferno a causa della propria «bizzarria», ma chiedendo al tempo stesso le attenuanti del caso. Una deroga non di poco, non è la prima e non sarà l’ultima, che tuttavia può giustificarsi con le scelte registiche di Allen: l’ambientazione del suo Gianni Schicchi è stata, infatti, spostata di un bel po’ di secoli, dall’originale 1200 al dopoguerra. I protagonisti appaiono, così, come dei “grandi” italiani dei nostri tempi, anche se, ancora, in bianco e nero: guappi, mafiosi e pezzi “da 90”; uomini insomma, che tanto “piacquero” a spettatori e osservatori d’oltreoceano - dagli anni Settanta in poi - i quali premiarono con nove Oscar la saga cinematografica del Padrino di Coppola. Luogo comune, si dirà… Come luogo comune è, però, anche l’immagine dell’americano grasso e arrogante, superficiale e sboccato che “piacque” ad attori e registi della nostra cinematografia, degli anni Cinquanta e oltre… Sovente è la fantasia a fondare il mondo reale, non bisogna dimenticarlo.
D’altra parte, sembra coerente con la sua immagine di artista ateo, il fatto che Woody non deleghi la punizione di Gianni Schicchi ad una entità trascendente, come aveva suggerito Dante, ma si premuri “egli stesso” hic et nunc di punire il colpevole del terribile scherzo: Allen non crede nell’aldilà e dunque conclude la trama della “sua” opera nel più reale aldiquà. Quello di Woody è un Puccini senza Dante, insomma, se ben ci pensiamo. Un regista che pensa che la morte sia un evento come un altro (come era stato per la pucciniana Bohème, ad esempio), senza implicazioni ultraterrene. Un video di “scuse”, aveva, d’altra parte, anticipato la visione dell’atto unico e avvisato lo spettatore spoletino, prima dell’inizio dell’opera, circa possibili imperfezioni intervenute durante quello che sarebbe stato il debutto operistico del regista di Manhattan. Il video era stato posto lì non a caso: Allen è troppo colto per non sapere di quale grado di competenza sia padrone il pubblico italiano in tema operistico. Ed è troppo anticonformista, d’altra parte, per non destare l’impressione che le “attenuanti” cercate alla fine dell’opera da Schicchi, egli abbia, in realtà, fatto proprie, all’inizio dell’opera stessa; volendo cioè italianizzare un atto unico, come solo un americano sarebbe riuscito a fare, cucendo addosso all’opera pucciniana quel vestito (gessato), che qualunque cittadino stelle-e-strisce avrebbe immaginato addosso ad un abitante della comunità italiana. Allen, insomma, sa che il vero Gianni Schicchi non è quello che lui ha diretto, ma sa benissimo che quella che lui ha portato in scena è l’Italia intera; l’Italia sudicia, arretrata e familista vista da un qualsiasi parente americano. Che il nostro Paese non sia soltanto quello dello Schicchi di Woody Allen, lo sappiamo bene (per fortuna), ma la nostra immagine internazionale (purtroppo), è ancora quella del coltello, della lupara e delle gonnelle. Da riflettere, insomma, c’è tanto ancora…
Ma cosa accomuna, d’altra parte, Allen e Puccini? Ben sanno tutti e due di musica (anche se con infinite differenze), e sanno tutti e due di donne (la storia delle loro realizzazioni artistiche è anche la storia di reazioni – reali o fittizie – consumate dai protagonisti maschili), ma ancor di più sanno di morte e di “realtà”. Allen e Puccini rappresentano quel Novecento che ha abdicato al sacro, pescando dal cilindro del destino la casualità del vivere. L’essere di passaggio su questa terra, sembra mostrarsi come il loro primo comandamento. L’estinzione - che è solo estinzione e nient’altro – arriverà presto per tutti. Forse per questo il Puccini di Allen si chiude con una “correzione” del testo. Che Gianni Schicchi non abbia fatto la (triste) fine di altri personaggi pucciniani è un segno di ottimismo che l’autore di Match Point non poteva di certo permettersi. E allora più che la spiritualità di Dante, poté il tetro sfavore della novecentesca italianità.