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Biodiversità alimentare, autosussistenza con le piante spontanee e decrescita

di Radura Luminosa* - 09/07/2009

 

L’occidentalizzazione del mondo si è ormai estesa all’intero pianeta, esportando

ovunque lo stile di vita e i miraggi di benessere delle ideologie sviluppiste della

crescita. Ciò nonostante, il 5% della popolazione mondiale (più di 300 milioni di

persone) resiste caparbiamente all’occidentalizzazione: si tratta per lo più di

popolazioni tribali, che continuano a vivere seguendo esclusivamente logiche

premoderne di autosussistenza, benché il rullo compressore dell’avanzata occidentale

cerchi di schiacciare e stritolare quanto resta di queste antiche culture, rendendogli la

vita sempre più impossibile
1. Nella loro disperata ostinazione, esse continuano a

testimoniare ciò che un tempo era la norma anche da noi: cioè la capacità di vivere

sobriamente in sostanziale equilibrio con la natura
2. La conservazione di tale

equilibrio era sorretta da saperi ad hoc, cosmocentricamente orientati: saperi che

riguardavano il funzionamento degli ecosistemi e gli innumerevoli aspetti della

biodiversità3, per esempio ciò che noi chiamiamo riduttivamente “risorse naturali”.

Tali saperi permettevano la sopravvivenza in condizioni difficili che risulterebbero

proibitive per un occidentale contemporaneo. In tale contesto, va segnalata in

particolare la conoscenza dei vegetali per scopi medicinali
4 e alimentari: conoscenze

in gran parte oggi perdute, e comunque disprezzate, specie negli ultimi secoli (quelli

del trionfo dello sviluppismo iperconsumistico). Questo evento epocale si è reso

possibile nella misura in cui le strutture di autoproduzione e autoconsumo, che

assicuravano l’autosufficienza, sono state via via erose e disgregate, rendendo così gli

individui sempre più fragili e dipe ndenti dal grande mercato, dall’apparato tecnico -

scientifico e più in generale dal “sistema” che si incarica di garantire quella sicurezza

e quella sussistenza di cui le persone non sono più autonomamente capaci: con

l’eccezione appunto di quel 5% di popol azione mondiale di cui si diceva all’inizio

(mentre i popoli del 3° mondo che vivono di agricoltura, e che costituiscono una parte

molto rilevante della popolazione planetaria, si trovano in una situazione intermedia,

poiché la loro attività è strettamente connessa al mercato mondiale e alle logiche della

globalizzazione, di cui subiscono fortemente i condizionamenti).

Tuttavia, ferma restando la tendenza di fondo di cui sopra, nei momenti critici

riaffiora l’esigenza di recuperare almeno qualcosa di quelle conoscenze dimenticate.

Così, nel 1767 il medico fiorentino G. Targioni Tozzetti, a seguito della carestia del

1764 scrive un trattato di alimurgia, intitolato De alimenti urgentia, allo scopo di

“rendere meno gravi le carestie”. Alimurgia, che compare n el sottotitolo, secondo

alcuni sarebbe la contrazione di “alimenta urgentia”, oppure deriverebbe dai termini

greci che indicano l’attività (ergon) necessaria per togliere la fame…in ogni caso, col

termine alimurgia si voleva indicare la necessità di ricorr ere ad alimenti d’emergenza

in contesti problematici. E poiché tali alimenti sono più che altro vegetali, avrà una

certa fortuna il termine fitoalimurgia, che bene sintetizza il ricorso alle piante

alimentari.

A seguito delle devastazioni dovute alla prima guerra mondiale, Oreste Mattirolo,

ordinario di Botanica e direttore dell’Orto Botanico di Torino, pubblica nel 1918

Phytoalimurgia pedemontana: ossia censimento delle Specie vegetali alimentari della

flora spontanea del Piemonte. Il testo viene ristampato nel 1919, con il titolo

leggermente modificato. Nell’introduzione all’opera l’autore, oltre a deprecare le

devastazioni belliche, realizzate con “larghezza stupefacente di mezzi, inventati dalla

scienza asservitasi all’opera di distruzione”, ravvisa la
necessità di inventariare e

richiamare in vigore alcuni dei principali mezzi di sussistenza che si usavano in

passato, cioè le piante spontanee.

Anche alcuni testi di Storia in uso nelle scuole ricordano di sfuggita che in tempo di

guerra i ceti più poveri facevano ricorso a tuberi, germogli e foglie di piante

selvatiche, per mitigare la crisi alimentare: ma riportano tutto questo in fretta e con

aria di sufficienza, tanto per citare un dato patetico e bizzarro, un espediente

“arretrato” di sopravvivenza, frutto della disperazione. Tuttavia, questi espedienti

“arretrati” si ripetono anche nel corso della seconda guerra mondiale: ne è

testimonianza la Carta fitoalimurgica dell’Istria e dell’Illiria (1943), dovuta al prof.

A. Tukakov (Università di Belgrado) ed ai suoi collaboratori, i quali sperimentarono

sul campo le conoscenze popolari, nutrendosi per mesi solo con i vegetali oggetto

della ricerca.

Perfino le truppe americane operanti in Italia nella seconda guerra disponevano di un

manuale di sopravvivenza, la cui parte alimurgica era stata appositamente aggiornata

da un comitato di botanici inserendovi le piante eduli spontanee diffuse in Europa.

Come si può notare, i momenti di crisi presentano anche dei risvolti positivi, si

potrebbe dire altamente educativi, poiché inducono a recuperare stili di vita più

disciplinati, incentrati sulla parsimonia e sull’apprezzamento di risorse naturali locali

che in fin dei conti sono a portata di mano, grazie alla generosità (di solito non ricambiata) della natura5, le cui elargizioni spontanee e gratuite superano di molto il

valore economico delle attività umane 6.

Tra l’altro, il riferimento pedagogico alla sobrietà è ben radicato nella tradizione

occidentale premoderna: il paradigma educativo della temperanza è formu lato in

modo eccellente nelle opere di Platone, di Plutarco e di altri filosofi greci, che sarebbe

bene ristudiare e rivalutare.

Tutto questo può essere riscoperto anche oggi, in tempo di crisi (che è economica, ma

anche sociale, etica, culturale…): una cr isi tutt’altro che passeggera, e che graverà di

più sui ceti popolari. Questi, a differenza dei ricchi, probabilmente non potranno

continuare a praticare il lusso irresponsabile dello spreco, e questa obbligazione lungi

dall’essere una disgrazia ha un valo re provvidenziale, poiché costituisce la base

materiale su cui è possibile ricostruire una nuova identità culturale, etica, spirituale,

orientata su istanze di decrescita, in alternativa all’irresponsabilità sviluppista e

consumista di un mondo in decaden za. Se questo avverrà, i ceti subordinati potranno

riacquistare una dignità smarrita da molto tempo, cioè da quando hanno interiorizzato

la visione del mondo del capitalismo sviluppista, aspirando al tenore di vita dei ricchi,

visto come il modello più des iderabile.

Avendo perso l’autonomia di un tempo (autonomia culturale, sociale, economica…)

tali ceti sono ormai abituati ad elemosinare dallo stato, dalle imprese, dal sistema,

maggiori livelli di consumo7, posti di lavoro sempre più improbabili, politiche di

sostegno alle famiglie e ad un reddito sempre più eroso…Ma non si intravedono

grandi risultati, e questo spiega il fallimento di una sinistra che ha giocato tutte le sue

chances sui miraggi della crescita, dello sviluppo delle forze produttive, del

consumismo e dello stato sociale. Di contro le politiche vincenti, quelle dette

liberistiche, sembrano invece orientate a privilegiare le banche, il capitale finanziario,

le grandi aziende, i grandi apparati, puntando su un surplus illimitato e continuo di

produttivismo e di consumismo: questa è rimasta l’unica vera parola d’ordine che il

sistema riesce ad esprimere, ed essa rappresenta molto bene la sua pochezza culturale

e dunque la mancanza di saggezza e lungimiranza.

In un quadro di crisi globale, strutt urale e non occasionale, esiste un’altra direzione

cui volgersi: rivalutare le pratiche di autosufficienza, di autoproduzione e di

autoconsumo, ridimensionando così il ricorso al mercato internazionale e agli aiuti

“pelosi” del sistema; ricostruire legami comunitari conviviali, come diceva Illich 8,

adatti all’attuale contesto storico; riequilibrare il rapporto con la natura, totalmente

stravolto nel corso dell’era sviluppista; ripensare un’etica non
-antropocentrica,

rispettosa degli ecosistemi e dei non -umani; più in generale, si tratta di rielaborare

una nuova identità, postsviluppista, in grado di motivare, relazionare e valorizzare

tutte le istanze di cui si è detto.

In definitiva, possiamo schematizzare così: la perdita dell’autosufficienza è, in

generale, un requisito indispensabile per l’affermarsi del capitalismo e di un sistema

tentacolare che avvolge gli individui rendendoli totalmente dipendenti da esso 9; al

contrario, l’attivazione di un processo inverso, volto all’espansione

dell’autosufficienza,
ha un valore strategico insostituibile: le persone tornano a

familiarizzare con i mezzi di sussistenza (almeno con una parte di essi), cresce la loro

autonomia e decresce la dipendenza dai grandi apparati, presupposto basilare per una

migliore società capace di valorizzare la responsabilità e la partecipazione attiva dei

membri che la costituiscono.

Torniamo perciò all’autosufficienza con le piante spontanee: questo è importante

anche nella prospettiva della biodiversità, e al riguardo abbiamo molto da im parare

dai saperi tradizionali dei popoli premoderni. Sappiamo infatti che essi erano in grado

di conoscere e utilizzare migliaia di specie e di varietà per uso alimentare (e ancor di

più per uso medicinale e per altri impieghi di sussistenza): la più impo nente

documentazione in proposito risulta essere quella raccolta dall’etnobotanico Glenn

Wightman, in collaborazione con gli aborigeni australiani 10. Invece con l’affermarsidell’agricoltura industriale rivolta prioritariamente se non esclusivamente al prof itto,

sono state selezionate poche decine di specie, maggiormente adatte alla coltivazione

su grande scala ed economicamente redditizie, trascurando tutto il resto. Ciò ha

determinato una crescente omologazione della produzione e dei consumi alimentari a

livello planetario, perdendo di vista migliaia di specie e di varietà, ben note alle

culture tradizionali11. Mentre l’agricoltura industriale è antiecologica, poiché è

aggressiva nei confronti dei ritmi naturali e degli ecosistemi, semplifica il suo campo

d’azione promuovendo le monoculture e l’impoverimento della biodiversità 12, le

economie di autosufficienza sono biomimetiche 13, cioè imitano i processi naturali 14,

promuovono l’agricoltura sostenibile e la biodiversità, riconoscendo l’apporto degli

ecosistemi e del maggior numero di specie, che quindi vengono riconosciute e

custodite. In queste economie, nei secoli scorsi, venivano coltivate migliaia di specie

e di varietà (e a queste bisogna aggiungere le specie spontanee oggetto di raccolta);

oggi nei paesi occidentalizzati sono coltivate solo 150 specie, e tra queste alcune

vengono largamente privilegiate nelle monoculture: “Il risultato di una simile

strategia è che una manciata di specie nutre letteralmente l’intero Pianeta. Oltre il

90% del cibo mondiale è fornito da 15 specie di piante e quasi i due terzi da tre

cereali: riso, granoturco e frumento” 15.

Rivalutare le piante selvatiche ed i saperi connessi, nonché le numerose pratiche di

autosufficienza che ne derivano, significa operare in controtendenza risp etto

all’omologazione planetaria in atto. Nel nostro contesto, caratterizzato da una

cementificazione oltremodo aggressiva del territorio, gli spazi naturali vengono

continuamente ridotti e semplificati
16, e con essi anche le risorse spontanee

disponibili. Ciò deve incentivare l’impegno per arginare la devastazione del

paesaggio, così come prevede anche la Convenzione europea del paesaggio, trattatosovranazionale ratificato dal governo italiano nel 2006 17; parallelamente, è necessario

diffondere, tramite coltivazione naturale, biologica, varie piante esistenti allo stato

spontaneo, per non compromettere, con la raccolta eccessiva, la loro diffusione in

natura. In piccola parte questo sta già accadendo 18 con alcune piante: la pastinaca, il

raperonzolo, l’allium tuberosum, l’aglio ursino, la bardana, la portulaca, il

finocchietto selvatico, il topinambur, lo spinacio di montagna, alcune varietà di

rabarbaro, l’arcangelica, il levistico…in Inghilterra si coltiva una varietà di consolida

e vari tipi di allium esistenti anche allo stato spontaneo.

Gli incontri che si tengono ogni anno presso l’Orto botanico Locatelli di Mestre e

presso alcuni CTP (Treviso, Mestre), le correlate escursioni naturalistiche in aree di

pianura e di montagna, il campo di lavoro alpino…han no tra l’altro lo scopo di far

conoscere le piante selvatiche, di insegnare il loro impiego alimentare o medicinale, e

in certi casi di incentivarne la coltivazione o la diffusione in natura, riattivando così

un importante settore delle economie di autosuf ficienza in chiave vegetariana o

vegana (in linea con lo stile delle maggiori scuole filosofiche occidentali premoderne,

che hanno rappresentato le nostre tradizioni al livello più alto). Così facendo, si educa

a mantenere leggero il più possibile l’impatt o ecologico sulla Terra19 e nello stesso

tempo si arricchisce la biodiversità in campo alimentare, mostrando molto

concretamente che è possibile migliorare la qualità della vita senza far crescere il PIL,

in una prospettiva di decrescita e di sostenibilità alla portata di chiunque.

 

*A cura di “Radura Luminosa” (iniziative AEF per l’ecologia) / Redazione

AEF(Associazione Eco-Filosofica)

 

1 Secondo Vandana Shiva, “privatizzando l’acqua, brevettando i semi e la biodiversità, affidandol’agricoltura al monopolio delle multinazionali, la globalizzazione non fa che accelerare e sviluppare

ulteriormente questa pratica di svuotamento delle economie di sussistenza. Il carattere aggressivo e

violento di tale modello di sviluppo si rivela proprio nella deliberata condanna alla morte per fame che

colpisce le economie di sussistenza dei popoli coinvolti” (Vandana Shiva, Il bene comune della terra,

Feltrinelli, 2005, pag. 25).

2 In riferimento a tutto questo, Evo Morales ha osservato che “il movimento indigeno è la ri serva

morale dell’umanità…noi popoli indigeni crediamo che dobbiamo vivere in armonia e difendere la

madre terra” (
Intervista a Evo Morales. Fonte: www.gennarocarotenuto.it) .

Analogamente, Vandana Shiva ha sc ritto che “i sistemi non-occidentali di conoscenza sono meglio

attrezzati per garantire il rispetto della vita”, mentre “il paradigma occidentale del riduzionismo

meccanicistico è alla radice della crisi ecologica e sanitaria” (Vandana Shiva,
Biopirateria, CUEN,

2001, pag. 91).

3 Vandana Shiva riporta molta documentazione riguardante l’importanza dei saperi tradizionali per

l’autosufficienza: “Grigson ha sottolineato che nel Bastar, ad esempio, non c’è mai stata carestia,

perché le tribù sono sempre riusci te a procurarsi metà del cibo dagli innumerevoli prodotti

commestibili esistenti nella foresta. Tiwari ha compilato una lista precisa delle specie di piante

selvatiche mangiate dalle tribù del Madhya Pradesh…La ricerca etnobotanica su molte tribù indiane

rivela la loro profonda e sistematica conoscenza forestale” (Vandana Shiva, Monocolture della mente,

Bollati Boringhieri, 1995, pag. 20 e 19).

4 Ciò vale anche per il nostro Medio Evo: non a caso circolavano manualetti che erano funzionali a logiche di autosufficienza. L’esempio più celebre è forse rappresentato dal libello Thesaurus

Pauperum del medico Pietro Ispano, diventato papa nel 1276 col nome di Giovanni XXI: si tratta di un

ricettario di medicina naturale molto noto all’epoca.

 

5 Sui beni e sui servizi ecologici forniti dagli ecosistemi, si consulti il bellissimo e documentato saggio

di Yvonne Baskin, Il pasto gratis, Instar Libri, 2005. L’autrice mette in rilievo l’enorme importanza,

anche economica, degli innumerevoli servizi ecologici gratuiti forn iti dalla natura; parallelamente, si

sofferma sui danni spesso irreparabili provocati dalle pratiche sviluppiste, danni che ovviamente il

sistema dominante si guarda bene dall’inventariare. Altrettanto ovviamente il sistema non inserisce tali

perdite nella contabilità economica quali fattori negativi, cioè come costi effettivi dello sviluppo. Se

questo venisse fatto (internalizzazione dei costi, nel linguaggio degli economisti), si vedrebbe bene che

ormai i costi della crescita economica superano comunque i
vantaggi. L’apparato sviluppista è ormai

un’impresa in perdita e proprio per questo deve occultare i bilanci.

6 Secondo ricerche condotte presso l’Istituto di Economia ecologica dell’Università del Maryland, il

valore economico dei servizi forniti dalla n atura oltrepassa di molto il valore dovuto alle attività

umane, così come conteggiato nel PIL: vedi i riferimenti segnalati da Franz Broswimmer in
Ecocidio.

Come e perché l’uomo sta distruggendo la natura , Carocci, 2005, pag. 19 e 176.

7 Sulla figura del consumatore medio, irresponsabile e asservito al sistema, si è soffermato H. Immler

in questi termini: “Egli pretende oggi un approvvigionamento migliore, domani prodotti il più possibile

a buon mercato e dopodomani il soddisfacimento di desideri esotici. S oprattutto crede che non sia

colpa sua se la natura sta sempre peggio. Si lamenta della distruzione ecologica e delle deprimenti

prospettive future, ma non vuole ammettere di essere lui ad accelerare questi processi” (Hans Immler,

Economia della natura, Donzelli, 1996, pag. 62). 

 

8 Vedi Ivan Illich, La ricostruzione conviviale (in www.filosofiatv.org, settore Decrescita) e il testo

dello stesso autore, La convivialità, Boroli editore.

9 Sull’asservimento dell’individuo contemporaneo al sistema economico -tecnologico, si vedano le

illuminanti riflessioni di Wolfgang Sachs in Archeologia dello sviluppo, Macroedizioni, 1992 (pag. 22-

24 in particolare). Sachs mette in evidenza che l’individuo crede di utilizzare a suo piac imento gli

strumenti tecnologici (per esempio un semplice frullatore elettrico), nel mentre è invece obbligato a

entrare in contatto con un sistema complesso che lo avvolge e lo plasma in continuazione.

10 Glenn Wightman è riuscito a raccogliere in 15 volu mi una parte significativa dei saperi tradizionali

che per millenni hanno permesso agli aborigeni di convivere con gli ecosistemi: una documentazione

preziosa sui saperi indigeni e sulle loro tecniche di sopravvivenza.

11 Secondo studi della FAO, nel corso del 1900 sono andati perduti i ¾ della biodiversità delle culture.

In Messico l’80% delle varietà di cereali preesistenti sono scomparse nel corso dell’ultimo secolo.

Negli USA, sono scomparse quasi tutte le varietà di cavoli e piselli (il 95% ! ). Anche i n Europa e in

Italia, sono in atto fenomeni similari. Un secolo fa in Italia si coltivavano circa 400 varietà di frumento,

oggi poco più di 10. 

 

12 Franz Broswimmer ha osservato che “la perdita di biodiversità nelle specie vegetali alimentari ha

implicazioni potenzialmente disastrose per la sicurezza alimentare e per la stabilità economica

mondiale” (Ecocidio, op. cit., pag. 21).

13 Prendiamo a prestito questa espressione dalla biologa Janine Benyus, che ha fondato nel 2005 il

Biomimicry Institute, con lo scopo di studiare i meccanismi ecologici della natura per imitarli e

applicarli nelle progettazioni umane, ai fini della sostenibilità. In sostanza, la bioemulazione promossa

da J. Benyus ritiene che la natura non sia un deposito da cui prelevare risorse mater iali, ma una vera e

propria scuola da cui ricavare lezioni di sostenibilità valide anche per il mondo umano.

14 Questo punto di vista è stato ottimamente elaborato da Fritjof Capra, il quale afferma, nelle sue

numerose opere, che le comunità umane devono se guire i principi organizzativi che la natura ha

attivato per sostenere la rete della vita. Ne discendono istituzioni e tecnologie ben diverse rispetto a

quelle antiecologiche oggi predominanti. Merita sottolineare che F. Capra, J. Benyus e molti altri

ricercatori, di fatto riadattano e applicano nel presente l’orientamento di fondo tipico delle culture

cosmocentriche premoderne.

15 Yvonne Baskin, Il pasto gratis, Instar Libri , 2005, pag. 161.

Vedi anche Eleonora Serrati, Alla ricerca dei semi perduti (in Terra Nuova, febbraio 2009).

16 Yvonne Baskin ha descritto molto bene questo irresponsabile modo di operare: “Noi uomini

possiamo anche scolpire il mondo in modo più evidente, ma di rado lo rendiamo più complesso dal

punto di vista ecologico. Infatti la nostr a specialità è quella di semplificare il paesaggio, convertendo

foreste e praterie ad alta biodiversità in piantagioni di alberi, filari uniformi di cereali o monotone

distese di calcestruzzo e prati rasati” ( Il pasto gratis, Instar Libri, 2005, pag. 182).

17 Si veda in proposito il recente seminario nazionale (19 -20-21 marzo 2009) tenutosi a Treviso e

dedicato proprio a questo tema. Titolo del seminario: Tutela e valorizzazione del territorio comepatrimonio culturale e identitario

. Vari riferimenti al seminario e gli atti multimediali (relazioni e dibattito relativi alle tre giornate) sono consultabili nei Quaderni e soprattutto nel sito

dell'Associazione Eco-Filosofica www.filosofiatv.org.

18 Segnaliamo che la Regione del Veneto ha finanziato l’allestime nto di tre giardini fitoalimurgici (a

Legnaro, a Po di Tramontana e a Treviso) dove inserire gran parte delle piante alimurgiche usate in

regione, ma anche raccogliere ed organizzare i saperi collegati a dette piante.

19 Risulta ormai indiscutibile il rapporto tra comportamenti individuali e impatto ecologico sul pianeta:

perciò la ricostruzione sostenibile delle comunità umane non può che passare attraverso una riforma

radicale degli stili di vita. Hans Immler, professore di Economia ecologica, si è espress o così: “Il

passaggio dalla fase meccanica della civilizzazione a quella ecologica non viene deciso nelle grandi

conferenze, per mezzo di codici legislativi o grazie a belle parole, ma attraverso i comportamenti

economici e tecnologici in cucina, in soggio rno, sul luogo di lavoro e per strada. Qui consumiamo la

natura in mille forme diverse ed è qui che è necessario ricostruirla. Se il passaggio allo stadio

ecologico della civiltà alla fine riuscirà o meno, dipenderà da come noi ci rapporteremo alla natura

nella prassi quotidiana” (H. Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica.

Donzelli, 1996, pag. 101).