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Un quadro al giorno: Giuseppe Pellizza da Volpedo, «Lo specchio della vita» (1898)

di Francesco Lamendola - 13/07/2009


«Lo specchio della vita» appartiene alla seconda fase della intensa vicenda artistica di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, Alessandria, 1868-1907) e rappresenta uno dei vertici assoluti del suo itinerario pittorico.
Se, per ragioni di comodità, suddividiamo la sua vita in cinque grandi periodi: gli esordi veristi; l'adesione al divisionismo; il passaggio al simbolismo; l'epoca de «Il quarto stato» e gli ultimi anni - allora possiamo collocare più chiaramente quest'opera notevolissima nella giusta prospettiva storica., ossia, press'a poco, nel punto d'intersezione della fase divisionista con quella simbolista vera e propria.
Qualche anno prima, nel 1894, Pellizza aveva soggiornato a Firenze e vi aveva condotto intensi e appassionati studi di studi di filosofia, estetica, logica e letteratura; si era sprofondato nella lettura di Dante, e nel canto III del Purgatorio (versi 79-84) aveva trovato ispirazione per la suggestiva allegoria «Lo specchio della vita»:

«Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l'altre stanno
timidette atterrando l'occhio e 'l muso;
e ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
addossandosi a lei, s'ella s'arresta,
semplici e quete, e lo 'mperché non sanno…»

Nel 1890, Pellizza aveva scritto testualmente: «[…] il mio scopo è il bene dell'umanità, è di esprimere le verità che arrivano al mio intelletto. [...] Amo più essere giusto nel pensiero che nella forma»: ed è un magnifico programma di onestà intellettuale, nel senso della «poesia onesta» di Umberto Saba, se ci è concesso l'anacronismo.
Ecco qui, dunque, un pittore che esce da tutti gli schemi, che non si lascia assolutamente imbrigliare in uno stereotipo o in una ideologia; e tutti quei critici di ispirazione marxista che hanno levato le lodi più sperticate alla sua opera più famosa, ma non certo la più bella, «Il quarto stato», si sono poi trovati un tantino imbarazzati davanti a numerose altre opere, da «Sul fienile» del 1893, a «Speranze deluse» del 1894, a «Lo specchio della vita», appunto, cui l'artista piemontese lavorò dal 1895 al 1898, nelle quali tutto si può trovare, tranne che una ideologia militante, anzi, una ideologia di qualsiasi tipo: tanto chiaro e trasparente è lo sforzo di verità interiore e la tensione verso una dimensione simbolica del reale, che è celata all'occhio del corpo e che solo con l'occhio interiore può essere raggiunta ed esplorata.
Da parte nostra, non esitiamo ad affermare che un'opera come «Lo specchio della vita» riflette assai meglio lo spirito autentico dell'artista di Volpedo, la sua ansia di purezza e di verità, piuttosto che l'enfasi sociale quasi intollerabile e la turgida retorica, quantunque a suo modo sincera, di un'opera  come «Il quarto stato», tanto magnificata per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con un criterio di valutazione puramente estetico.
La vena fondamentale di Pellizza non è quella sociale, anche se egli - uomo di estrazione contadina e legatissimo alla sua campagna, come si vede anche dal fatto che volle sempre firmarsi "da Volpedo" - aderì indubbiamente con perfetta onestà intellettuale alle lotte sociali di fine Ottocento e si schierò dalla parte delle classi lavoratrici; bensì quella lirica, sognante, malinconica, vorremmo dire virgiliana: si pensi ad opere come «Idillio primaverile» (1896-1901), trasparente allegoria dell'infanzia, dell'innocenza, della primavera e della pace campestre.
Ne «Lo specchio della vita» la scena è reale, e tuttavia il significato dell'opera è nettamente simbolico.
Una fila di pecore avanza da destra verso sinistra: non se ne vede il principio e nemmeno la fine, il che suggerisce l'idea di un inarrestabile andare, di un flusso che non termina mai e che non si sa di dove abbia principio.
Non è, peraltro, una fila vera e propria: le bestie procedono in maniera piuttosto disordinata, muovendosi su diversi piani, che conferiscono profondità alla scena; i dorsi vellosi illuminati dal sole in controluce contribuiscono ad accrescere l'effetto prospettico, mentre un paio di agnelli dal mantello più scuro introducono una nota di varietà coloristica, che spezza la monotonia della lunga processione.
In primo piano, alcune pozze d'acqua nelle quali si riflettono le sagome degli animali e che quasi certamente sono quelle presso la riva del fiume Curone, nella cui valle è ambientata la scena; le pecore, in secondo piano, trotterellano lungo l'argine del corso d'acqua.
In terzo piano, una linea di colline e di boschi chiude la vasta campagna con il suo profilo ineguale che, tuttavia, suggerisce un senso di circolarità ed accompagna, con il suo verde scuro, la linea bianco-gialla delle pecore in movimento.
Infine lo scenario delle nuvole, in alto, nel cielo azzurro chiaro, completa il gioco delle simmetrie e crea una corrispondenza con l'effetto dell'acqua in primo piano, ove si rispecchiano le pecore che procedono lungo l'argine del fiume.
Tutto l'insieme appare di una straordinaria semplicità ed efficacia: la semplicità di chi va al cuore delle cose e dunque come punto di arrivo, non certo la faciloneria o l'ingenuità di chi la assume come dato originario della coscienza.
Un altro elemento che balza subito evidente è la solennità: ma, ancora, una solennità dimessa, se ci si passa l'ossimoro; in ogni caso, non una solennità retorica. L'assenza completa di esseri umani o di altri segni di presenza umana (eccezion fatta per l'argine del fiume) contribuisce a rafforzare i due fattori della semplicità e della solennità.
Più di ogni altra cosa, tuttavia, è la luce a pervadere la scena e ad imprimere la nota dominante all'intera opera: una luce radente e soffusa, che si sparge vittoriosa sull'intero paesaggio, dal primo piano fino all'orizzonte; e che trae la sua fonte dalla qualità particolare della pennellata, fatta di piccole macchie di colori puri che conferiscono alla tela, di grandi dimensioni (cm. 132 x 291, custodita presso la Galleria d'Arte Moderna di Torino) uno splendore diffuso, che pare scaturisca da ogni punto della sua superficie.

Ma cediamo la parola a una critica d'arte che ha saputo cogliere magistralmente le caratteristiche fondamentali di questa opera del Nostro: Aurora Scotti (in: «Pellizza da Volpedo. Catalogo generale», Milano, 1986, scheda 1002; riduzione del testo originale):

«L'opera - che riesce a riflettere il destino dell'uomo e significati universali in un brano di natura pur privo di ogni presenza umana, ed è ambientata sul greto del Curone, non distante da casa Pellizza - è ispirata dal verso dantesco: "e ciò che l'una fa, e l'altre fanno"(Purgatorio, canto III, 82). Assoluto è l'equilibro fra e opposte forze rappresentate nella tela: l'incontro fra luce ed ombra, fra linee rette e linee ondulate, fra ritmico avanzare delle pecore e stasi assoluta della natura, fissata in una cristallina stesura di colori. La fattura è a divisionismo estremamente sapiente, con stesura del colore puro a piccoli punti e  tratti non molto appariscente, con qualche affinità con la contemporanea tecnica di Morbelli, ma anche con ricerche di effetti di rifrazione nell'azzurro del cielo. Nessuna tonalità cromatica è in esso dominante, se non una grande ed accesa intensità di luce chiara e cristallina. L'equilibrio compositivo è assoluto: la linea orizzontale dell'argine viene ribadita e replicata dalla sequenza di pecore che giunge esattamente a metà dell'altezza della tela; a questa linea convergono, pur senza toccarla direttamente, le pozze d'acqua in primo piano, mentre essa sembra ribadita dall'ampia pianura retrostante a cui convergono le morbide linee dei colli e delle macchie d'alberi.»

Dunque, delle due terzine dantesche sopra citate, sarebbe il verso: «e ciò che fa la prima, e l'altre fanno» ad avere particolarmente ispirato la concezione dell'opera, di cui costituisce, esplicitamente, il sottotitolo.
Perciò, se ci poniamo la domanda su quale sia il reale soggetto della tela, dovremmo dedurne che esso è la stoltezza umana, o, più precisamente, l'istinto gregario, che spinge gli uomini ad abdicare al proprio statuto ontologico di persone ed al proprio spirito critico, per aggregarsi in maniera passiva e pecorile, in balia di ciò che fanno dei capi i quali, molto spesso, sono dei ciechi essi stessi: ciechi che conducono alla rovina altri ciechi.
Senonché, vi sono forti indizi per pensare che questa interpretazione sia insufficiente e, in ogni modo, fortemente riduttiva.
Infatti, se il tema dell'opera fosse semplicemente la stoltezza umana, dovrebbero esservi chiari elementi di segno negativo, tali da avvalorare un approccio antropologico di tipo fortemente pessimista. Invece, nulla autorizza una simile chiave di lettura ed una simile conclusione: né i colori, chiari e brillanti; né la luce, tersa e luminosa; né, infine, l'ambientazione complessiva della scena, che è piuttosto di segno bucolico, e sia pure di quel particolare bucolicismo permeato di una vaga e sottile inquietudine - per intenderci, alla Pascoli -: ma un'inquietudine che deriva dalla consapevolezza del mistero inerente alle cose, non ad un atteggiamento di amarezza e disincanto nei confronti di esse.
Al contrario, le pecore sono rappresentate con evidente simpatia ed affettuosità - come, del resto, fa Dante, se si leggono tutte intere le due terzine e non solo il verso 82. Non vi è ombra di disprezzo nel modo in cui sono ritratte mentre si avviano lungo l'argine del fiume; e tutta la cornice naturale che le avvolge - compresa la cornice stessa della tela, che è essa medesima un'altra rappresentazione simbolica, segnata da pennellate intese a ricreare le venature del legno - spira pace e serenità, e un soave senso di innocenza e di leggerezza.
Impossibile dedurne una concezione negativa dell'uomo, e meno ancora un giudizio moralistico nei suoi confronti: semplicemente, una tale lettura sarebbe in contrasto con il linguaggio dell'artista e con tutti gli elementi - paesistici, luministici, coloristici, prospettici - che concorrano alla rappresentazione dell'insieme. Con buona pace degli imperterriti esegeti di segno ideologico, cui prima abbiamo accennato, è semplicemente impossibile valutare «Lo specchio della vita» come una denuncia dello spirito gregario dell'umanità.
Né si dica che Pellizza, figlio di contadini e innamorato del mondo contadino, era per sua natura incapace di quella durezza ideologica che fu tipica, invece, dei profeti del socialismo di formazione operaia; perché una tale affermazione è vera, ma non giustifica certo una così grande incongruenza, come sarebbe stata quella di voler dipingere un'opera di denuncia sociale, per poi abbandonarsi a un idillio campestre bello e buono.
E allora?
E allora non resta che rifiutare l'interpretazione tradizionale de «Lo specchio della vita» e ammettere che, se Pellizza si è ispirato ai versi di Dante, bisogna nondimeno considerare quei versi nella loro interezza, e non sezionarli a piacere; dopo di che, ci si accorgerà che, se la caratterizzazione dello spirito gregario è certamente uno degli elementi centrali delle due terzine in questione, essa si accompagna, ed è prontamente stemperata, dall'altro elemento, che finisce per diventare quello dominante: ossia il tema della mansuetudine.
Non si dimentichi che le pecorelle descritte da Dante sono una allegoria della condizione delle anime del Purgatorio (anzi, per la precisione, dell'Antipurgatorio); e che la nota caratteristica di tali anime è, appunto, la mitezza, derivante dalla coscienza dei propri peccati e dal profondo anelito alla redenzione.
Pellizza da Volpedo, dunque, non ha voluto tanto denunciare una condizione negativa della natura umana - la stoltezza -, quanto esaltarne una altamente positiva: la mansuetudine; e, sebbene le due cose, nella concreta vicenda della storia collettiva e individuale, vadano generalmente di pari passo, anzi, siano più o meno strettamente intrecciate, nondimeno l'accento di Dante, così come quello del pittore-poeta piemontese, non cade sul primo aspetto, ma sul secondo.
Solo così si può dare pienamente ragione di tutti gli elementi compositivi dell'opera; diversamente, sarebbe impossibile.
Questa ci sembra la giusta chiave di lettura per accostarci ad un capolavoro come «Lo specchio della vita»: lasciamo che il quadro ci parli da sé, con il suo incanto aurorale e con la sua pensosa dolcezza; e lasciamo perdere le forzature di certi signori critici che, se non vedono denunce sociali e pugni chiusi ad ogni pie' sospinto, non riescono a trovare pace.