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Un quadro al giorno: «Paolo e Francesca», di Gaetano Previati (1901)

di Francesco Lamendola - 20/07/2009


Quella di Gaetano Previati fu, nel panorama della pittura italiana di fine Ottocento e dei primi del Novecento, una vera e propria rivelazione: l'annuncio che una stagione completamente nuova stava prendendo il sopravvento sui rigidi canoni dell'arte di ispirazione realista; e ciò in accordo con quanto accadeva nella letteratura e nella filosofia, ove il Simbolismo e vari indirizzi di tipo spiritualistico e anti-razionalistico si stavano sostituendo, rispettivamente, al Verismo e al Positivismo.
Boccioni e De Chirico erano entusiasti di lui.
Il primo lo salutava come il più grande innovatore della pittura italiana dal tempo di Giambattista Tiepolo; il secondo vedeva in lui l'alfiere di un nuovo modo di intendere l'arte, oltre le strettoie del verismo, in direzione di un intenso simbolismo, che gli pareva una tappa di avvicinamento alla sua pittura metafisica (cfr. il nostro precedente articolo: «Un quadro al giorno: "Mélancholie et mystère d'une rue" di Giorgio De Chirico, 1914; mentre su Tiepolo cfr. «Un quadro al giorno: "La Resurrezione" di G. B. Tiepolo nel Duomo di Udine, 1754 ca.», entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Così scriveva Umberto Boccioni in un articolo pubblicato in piena prima guerra mondiale, il 26 marzo 1916:

«Quando finirà questa infame noncuranza, questa vergognosa incoscienza artistica e nazionale verso il più grande artista che l'Italia ha avuto da Tiepolo ad oggi.
[…] L'opera di Gaetano Previati è di una vastità e di un valore che sconcertano. […].
Previati è il solo grande artista italiano, di questi tempi, che abbia concepito l'arte come una rappresentazione in cui la realtà visiva serve soltanto come punto di partenza. Egli è il solo artista italiano che abbia intuito da più di trent'anni che l'arte fuggiva il verismo per innalzarsi allo stile,  Gaetano Previati è stato il precursore in Italia della rivoluzione idealista che oggi sbaraglia il verismo e lo studio documentato del vero. Egli ha intuito che lo stile incomincia quando sulla visione si costruisce la concezione, ma mentre la sua visione si è rinnovata nella modernità, la concezione  è rimasta, come ossatura, al vecchio materiale elaborato del Rinascimento italiano.»

Fresco di studi all'Accademia di Brera, Previati (Ferrara, 1852 - Lavagna, 1920) aveva fatto i suoi esordi nella pittura italiana cimentandosi con il genere storico: «Gli ostaggi di Crema» gli era valso il Premio Canonica, e «Il Valentino a Capua» era stato esposto alla Nazionale di Torino del 1880, con un buon successo di critica, che lo salutò come «la manifestazione del genio a vent'anni» (anche se l'artista ne aveva già ventotto).
Sembrava avviato, dunque, a ricalcare le orme e a rinverdire la gloria di Francesco Hayez o di Massimo d'Azeglio; allorché, sotto l'influenza dello scultore Grandi e delle sue idee luministiche, Previati diede una svolta radicale alla propria evoluzione artistica, trasformando la propria pennellata in senso sempre più filamentoso e sempre più luminoso, fino a dissolvere la forma per far emergere la realtà spirituale dei soggetti rappresentati. Egli era sospinto in questa nuova direzione sia dai numerosi contatti con la Scapigliatura milanese, sia dalla precoce «scoperta» della pittura francese di tendenza simbolista, specialmente quella di Odilon Redon.
Scrive Raffaele De Grada in «Le Muse. Enciclopedia di tutte le Arti» (Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1967; vol. IX, p. 353):

«[Verso il 1880] Previati […] era all'inizio di una crisi di evoluzione che si manifestava già in un "Crocifisso", dipinto nello studio dello scultore Grandi, dalle cui idee luministiche egli era ormai influenzato. Un nuovo stile di ombra-luce è evidente anche nel "Torquato Tasso", cui fu però  preferito per il Premio Fumagalli all'Esposizione milanese del 1880, un ritratto di C. Rapetti.
Gli anni che seguirono furono tormentati dal desiderio di raggiungere una tecnica scientifica nell'uso del colore, che era la sua nuova scoperta: lo si avverte nel "Bacio" (1887) e specialmente in una serie di studi di figure sul prato, a cominciare da "Pace" (1889), considerato da lui "il mio primo tentativo nella tecnica nuova della spezzatura del colore, una tecnica che dà l'impressione di una maggiore intensità di luce". Nello stesso anno iniziava la sua grande "Maternità", il primo quadro di impostazione idealistica nella tecnica del divisionismo luministico.
Il divisionismo, da lui teorizzato in due trattati, veniva applicato dal 1890 in poi, finché Alberto Grubicy, nel 1911, lanciò addirittura una "Società per l'Arte di Gaetano Previati", mentre il fratello Vittore ne diffondeva criticamente i principi.»

Pertanto, Previati precede i Futuristi nella elaborazione di una nuova tecnica pittorica, basata sulla luminosità della pennellata e sulla costruzione di sapienti giochi di ombra e luce in movimento, o meglio, in vibrazione; e avanza dritto per la sua strada, aprendo nuovi scenari e nuove prospettive, raggiungendo il culmine della sua ricerca negli anni della prima guerra mondiale.
Una delle sue ultime opere (smetterà di dipingere nel 1917, tre anni prima della morte), e una delle più interessanti in assoluto, è la tela «Gli orrori della guerra», chiaramente ispirata alla ritirata dal Friuli dopo il disastro di Caporetto, dove la fiumana dei civili in fuga con le loro povere cose si trasforma quasi un vortice di volti smarriti e disfatti, di sguardi sgomenti e disperati, ritratto con una potenza veramente dantesca.
Per quanto riguarda il divisionismo di Gaetano Previati, che si differenzia nettamente sia da quello di Giuseppe Pellizza da Volpedo, sia da quello di Giovani Segantini, hanno scritto Pietro Adorno e Adriana Mastrangelo (in «Segni d'arte», Firenze, Casa Editrice G. D'Anna, 2007; vol. 3, pp. 314-315):

«Come in Francia, anche in Italia, sulla fine dell'Ottocento, la conoscenza delle teorie sul colore conduce alla   formazione di una corrente artistica che, analogamente al puntinismo, sostiene la necessità di non mescolare i colori sulla tavolozza, ma di accostarli direttamente sulla tela, puri, cosicché la loro fusione avvenga nella retina dell'osservatore. Poiché i colori rimangono dunque divisi, questa corrente pittorica è detta "divisionismo".
E analogamente a quanto avviene in Francia il divisionismo si carica di significati simbolici, come la riaffermazione dell'intima spiritualità dell'artista contro il verismo e, quindi, contro i macchiaioli.
Le teorie divisioniste furono esposte da Gaetano Previati (Ferrara, 1852 - Lavagna, Genova, 1920) in alcuni scritti degli inizi del Novecento, ma la corrente era nata da qualche decennio. Fra i suoi esponenti si contano Giovanni Segantini e lo stesso Previati, che in  "Sul prato" adottala nuova tecnica al fine di ottenere un'esaltazione del colore e una maggiore luminosità, cosicché la realtà, come smaterializzata, si accende di un improvviso lirismo.»

Nella tela ad olio «Paolo e Franesca», di grandi dimensioni (metri 260 x 230), dipinta nel 1901 e conservata presso la Civica Galleria d'Arte Moderna di Ferrara, l'itinerario di questo geniale pittore italiano raggiunge uno dei suoi vertici assoluti.
Essa si inserisce mirabilmente in quel risveglio dell'interesse per Dante Alighieri che caratterizza un po' tutte le arti, ma specialmente la pittura, fra gli ultimi anni del XIX secolo e i primi decenni del successivo, tanto che si potrebbe quasi parlare di una «Dante Renaissance». Ne sono testimonianza, fra gli altri, «Lo specchio della vita» di Giuseppe Pellizza da Volpedo (del quale ci siamo occupati specificamente in un recente articolo, per la sezione «Un quadro al giorno», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice) e tutta una serie di opere, potentemente drammatiche e originali, del pittore e disegnatore opitergino Alberto Martini, che meriterebbero di essere maggiormente conosciute sia in Italia che all'estero.
Lo stesso Previati non era nuovo ad ispirarsi a opere letterarie: valga per tutti il famosissimo «Bacio», dal dramma shakespeariano «Romeo e Giulietta», in cui i profili dei due giovani innamorati, sulla destra, si stagliano contro la luce proveniente dal finestrone sulla sinistra, creando un vigoroso ed allusivo chiaroscuro.
In «Paolo e Francesca», l'impianto compositivo, semplicissimo, riprende, in qualche modo, quello de «Il bacio», con le figure dei due amanti infelici sulla destra, quasi al buio, e un cielo azzurro-viola che fa da potente contrasto, sulla sinistra.
In basso, a destra, quasi indistinguibili nell'oscurità, si intravedono Paolo e Francesca nel momento fatidico del bacio che suggella la loro tragica storia d'amore:

«Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
Quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
Esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.»

La struttura compositiva, dicevamo, è relativamente semplice; alcune figure di anime dannate s'intravedono a fatica e concorrono a delimitare nettamente lo spazio sulla destra, ove è rappresentata la bufera infernale che travolge eternamente i peccatori di lussuria, da quello a sinistra, interamente sgombro e luminoso (luminoso per contrasto, giacché la scena si svolge pur sempre all'Inferno).
Ma la vera protagonista di questa tela è la luce: una luce vivida e al tempo stesso indefinibile, che ricorda quella percepibile dopo un violento temporale, prima che il sole ritorni, quando la natura giace come sospesa magicamente fra l'acquazzone che si è appena allontanato e il bel tempo, che ancora non osa fare capolino.
La linea curva, che separa la zona bruna sulla destra da quella luminosa sulla sinistra, ed è formata dal vestito di Francesca, in basso, e dai corpi di alcuni dannati, in alto, è illuminata da un colore giallo brillante, che accentua il contrasto fra le due metà della tela e le conferisce un movimento ascensionale vorticoso e possente, come una tromba d'aria, quale appunto la fantasia di Dante aveva mirabilmente concepito.
I volti dei due amanti infelici esprimono, pur nella estrema drammaticità della situazione, l'ardore della passione che tuttora li lega e che continuerà a legarli eternamente, creando uno stacco non solo psicologico, ma anche morale, fra loro e la massa confusa degli altri lussuriosi.
Nessun dubbio, contemplando un'opera come «Paolo e Francesca» di Gaetano Previati, che ci troviamo immersi in un'atmosfera poderosamente visionaria e quasi allucinata, dove l'azione conta nella misura in cui è il riflesso di un intenso stato d'animo: la grande stagione espressionista batte alle porte.
Generalmente si considera il divisionismo come una corrente affine all'impressionismo, di cui avrebbe sviluppato alcuni aspetti, soprattutto in direzione della ricerca cromatica; ma, specialmente nel caso di Previati, forse è più giusto vedervi un preannuncio dell'espressionismo, col quale condivide la prevalenza del momento emozionale e spirituale, rispetto a quello puramente sensoriale e naturalistico.
«Paolo e Francesca» è un buon esempio di tale prevalenza: il nucleo poetico essenziale di quest'opera non risiede nella particolare tecnica della pennellata, ma nella profonda emozione che scaturisce dall'insieme, e di cui la caratteristica pennellata filamentosa è uno strumento, per quanto altamente raffinato; e mai un fine.
Anche per questo, possiamo dire che un dipinto come «Paolo e Francesca» sembra battere con forza, e non solo cronologicamente, alle porte del secolo XX: con tutte le sue inquietudini, con le sue tensioni insoddisfatte, con le sue stesse delusioni; non vi si respira più, in alcun modo, una atmosfera ottocentesca, ma ci sente trasportati entro quel medesimo orizzonte spirituale cui anche noi, uomini del terzo millennio, ci sentiamo intimamente legati.