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La banalità dell’economia (ideologia) del libero mercato

di Luca Correani - 27/07/2009

Fonte: appelloalpopolo

 

Basta sfogliare le prime pagine di un libro di microeconomia per accorgersi subito di quali siano le categorie concettuali che stanno alla base del moderno pensiero economico. Il primo capitolo sarà sicuramente dedicato al consumatore il secondo all’impresa.

Nelle Università si insegna allo studente che il consumatore vuole massimizzare l’utilità e lo fa consumando quanti più beni possibili; l’impresa, invece, massimizza i profitti.

Il funzionamento dell’economia è così racchiuso in due azioni ben precise: produzione e consumo.

La teoria economica ci spiega che una nazione prospera se la produzione delle sue industrie aumenta continuamente e con essa il consumo delle merci prodotte. I modelli matematici, sempre più complessi e incomprensibili, dimostrano che il libero mercato e la deregolamentazione facilitano questo processo. Lo stato, quindi, deve intervenire solo in casi eccezionali in quanto ogni sua azione genera distorsioni nei naturali equilibri tra domanda e offerta.

Non è necessario conseguire un PHD in economia al MIT di Boston pere capire come un sistema basato sulla crescita smisurata della produzione di merci e sul loro consumo sia destinato ad un inevitabile collasso, soprattutto quando la ricchezza prodotta confluisce principalmente al capitale piuttosto che al lavoro.

La continua ricerca della massimizzazione dei profitti, la necessità di garantire rendimenti crescenti agli azionisti e la presenza di forme di mercato ben lontane dalla concorrenza ha spinto le imprese da un lato ad adottare una politica di riduzione dei costi, dall’altro ad aumentare i prezzi. La perdita di potere d’acquisto del reddito da lavoro è in effetti un fenomeno evidente a tutti e comunque in atto da ben prima della crisi che stiamo vivendo.

Per molti anni il sistema finanziario ha cercato di evitare l’inevitabile crollo dei consumi (e quindi dei profitti delle imprese) attraverso la concessione di credito al consumo. Ma nemmeno questo è bastato. per garantire la crescita continua del PIL si è resa necessaria la concessione di prestiti anche a soggetti privi di garanzie e dichiaratamente insolventi.

L’ingegneria finanziaria ha poi organizzato il trucco della riallocazione sul mercato finanziario di questi prestiti, con la promessa di rendimenti enormi, dando il via ad una stagione di forti e incontrollate speculazioni.

Il sistema bancario si è così trasformato, perdendo del tutto la propria funzione di finanziatore dello sviluppo per diventare invece abile speculatore, prestando denaro virtuale a soggetti senza garanzie e incassando denaro reale dalle società di intermediazione finanziaria alle quali cedevano tali crediti; quest’ultime, poi, provvedevano a riallocare tali crediti presso il pubblico, che così era destinato a sostenere enormi perdite a seguito dello scoppio della bolla speculativa.

Il crollo del sistema è sopraggiunto non appena l’enorme valore creato da queste operazioni si è rivelato fasullo e privo di qualunque legame con l’economia reale.

IL libero mercato ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza di fronte all’avidità umana e a farne le spese è stato il cittadino che ha dovuto non solo ridimensionare i propri consumi (ma questo è positivo), trasformando la crisi finanziaria in crisi da sovrapproduzione, ma rifinanziare con le proprie tasse le banche e (sia pure in misura molto più limitata) le imprese travolte dal crollo del sistema.

All’improvviso l’intervento dei governi è stato da tutti invocato, anche dagli economisti votati al liberismo più fondamentalista.

L’economia del libero mercato e della crescita del PIL ha dimostrato tutta la sua infondatezza scientifica rivelandosi al mondo come pura ideologia; una ideologia che, osservata con occhi freddi, si rivela anche molto banale.