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Che cos'è l'essenza necessaria o sostanza della vita?

di Francesco Lamendola - 29/07/2009

Che cos'è l'essenza della vita?
Per tentare di rispondere a questa domanda, dobbiamo anzitutto operare una distinzione tra «essenza» ed «essenza necessaria» o, per dirla con Aristotele, «sostanza» di una determinata cosa: intendendo, con questi ultimi due termini, non già un carattere parziale e relativo di essa, ma il suo carattere qualificante, nel senso più profondo.
Ebbene, è facile rendersi conto che il concetto di «sostanza» viene a coincidere con quello del «perché» di quella determinata cosa: nel senso che, una volta identificata la natura ultima e necessaria di una cosa, si arriva anche a comprendere quale sia il perché di essa, ovvero la sua ragione di essere.
Ciò premesso, proviamo innanzitutto a definire che cosa sia l'essenza necessaria o sostanza in quanto tale; indi passeremo a riflettere sull'essenza necessaria o sostanza della vita, e, di conseguenza, anche sul suo perché, sulla sua ragione di essere.
Citiamo dal «Dizionario di Filosofia» di Nicola Abbagnano (terza edizione a cura di G. Fornero, Torino, UTET, 2001, pp. 402-403:

«Essenza: s'intende con questo termine ogni risposta alla domanda: "che cosa?". Per es., nelle seguenti espressioni: "Chi fu Socrate? Un filosofo", "Che cosa è lo zucchero? Una cosa bianca e dolce", "Che cosa è l'uomo? Un animale razionale", le parole "un filosofo", "una cosa bianca e dolce", "un animale razionale", esprimono l'Essenza delle cose cui si fa riferimento nelle domande rispettive. Qualcuna di queste risposte si limita semplicemente a indicare una qualità dell'oggetto (ad es., quella di essere bianca e dolce) o un carattere (come quello di essere filosofo) che l'oggetto potrebbe anche non avere. Qualche altro, p. es. quella che afferma che l'uomo è un animale razionale, sembra indicare qualcosa di più: cioè un carattere  che qualsiasi cosa detta "uomo" non può non possedere e che perciò è un carattere NECESSARIO dell'oggetto definito. In quest'ultimo caso la risposta alla domanda: "Che cosa?" ha enunciato non semplicemente l'Essenza della cosa stessa ma l'Essenza NECESSARIA della cosa stessa o la sua SOSTANZA; e si può assumere appunto come definizione di questa. Si deve quindi distinguere: 1°, l'Essenza di una cosa, che è qualsiasi risposta si possa dare alla domanda: "Che cosa; 2°, L'ESSENZA NECESSARIA o SOSTANZA che è quella risposta (alla stessa domanda), che enuncia ciò che la cosa non può non essere ed è il PERCHÉ della cosa stessa: come quando si dice che l'uomo è un animale ragionevole e s'intende dire che l'uomo è uomo perché è ragionevole.
I capisaldi che abbiamo ora esposti sono stati stabiliti per la prima volta da Aristotele, che è il fondatore della teoria dell'Essenza com'è il fondatore della teoria della sostanza. Vero è che Aristotele trovava i precedenti di questa teoria in Platone, che a sua volta la riportava a Socrate: "Mentre ti pregavo di definire la virtù intera, rimproverava Socrate a Menone, tu ti guardi bene dal dirmi CHE COSA essa sia ed affermi che ogni azione è virtù se è fatta con una parte di virtù, quasi che tu avessi già detto CHE COSA è la virtù nella sua interezza e io la dovessi riconoscere anche dopo che l'hai ridotta in frantumi ("Menone", 79b). Nelle quali parole l'esigenza che Menone dica che cosa è la virtù nella sua interezza è l'esigenza che egli enunci l'Essenza necessaria o ciò che la virtù non può non essere in ogni circostanza. Questo è appunto ciò che Aristotele chiamerà sostanza. […]»

Ora che abbiamo brevemente chiarito cosa si intenda per essenza necessaria di un qualsiasi ente, proviamo a individuare quale sia l'essenza necessaria della vita.
Non la vita umana, o quella animale, o quella vegetale; non la vita del singolo individuo, o di un popolo o di una civiltà, e magari di un astro del firmamento o di una galassia; non la vita materiale, o quella spirituale, o quella ultraterrena: ma la vita in quanto tale, la vita senza alcuna ulteriore specificazione.
I cultori delle singole discipline coinvolte da un tale interrogativo, insorgeranno indignati, a difesa dei diritti di sfruttamento esclusivo del proprio orticello.
Il biologo, per esempio, si alzerà stracciandosi le vesti, ed esclamerà: «Che cosa ha mai da spartire la mia scienza con le speculazioni sulla vita ultraterrena, discutibile oggetto della teologia?». E lo storico delle civiltà, altrettanto scandalizzato: «Chi osa paragonare il mio lavoro di ricerca con la semplice biografia di un individuo qualsiasi, storicamente del tutto irrilevante?». L'astronomo, poi, negherà che si possa parlare della «vita di una stella», se non in senso meramente figurato: poiché le stelle, per lui (ma non per gli astronomi-astrologi dei secoli e millenni passati), non sono che un insieme di sostanze chimiche e di reazioni termonucleari.
Ciascuno di essi avrà la sua piccola, modesta fettina di ragione; ma nessuno di loro avrà la ragione tutta intera dalla propria. Perché la vita, in senso superiore, è la vita di tutto ciò che esiste, che è esistito e che esisterà: esistenza significa anche vita; che sia la vita di un tavolo, o di un fiore, o di una cascata, o di una montagna, o di un essere umano.
Questa affermazione è in contrasto, non possiamo né vogliamo negarlo, con il significato corrente della parola «vita»; sicché, oltre alle proteste dei cultori delle singole scienze, dovremo vedercela anche con una schiera di linguisti infuriati.
Se prendiamo a caso un vocabolario della lingua italiana, lo Zingarelli, ad esempio, e cerchiamo il significato corrente della parola «vita», possiamo leggervi una definizione di questo tenore:

«Vita (biol.): complesso delle proprietà, quali la nutrizione, la respirazione, l'irritabilità e la riproduzione, che caratterizzano la materia vivente e la distinguono dalla materia non vivente».

Cartesio, dunque, ha colpito ancora!
E, per convincersene, basterà riflettere che questa rozza, superficiale distinzione tra «materia vivente» e «materia non vivente», che discende dritta dritta dalla divisione cartesiana tra la «res cogitans» e la «res extensa», possiede, nella cultura contemporanea, una valenza specificamente biologica, come lo stesso lemma del vocabolario ha precisato.
Dunque, si affida ai biologi il compito di definire, senza diritto d'appello per alcun altro, che cosa sia il fenomeno «vita», istituendo surrettiziamente una completa identità tra il concetto della vita in se stessa, e quello della vita come modo d'essere di quegli enti che la scienza moderna (ma non quella antica e medievale) qualifica, appunto, come viventi!
Non vi è un circolo vizioso in tutto ciò? Una volta stabilito che determinati esseri fanno parte della categoria dei viventi, ed altri no, si stabiliscono i criteri per la definizione di ciò che è vivente, prendendo a modello le funzioni e le qualità proprie dei primi, e non riscontrabili (almeno apparentemente) nei secondi.
No, cari signori, così non va: che cosa vi fa credere che al mondo esista qualcosa di non vivente; qualcosa di amorfo, di pesante, di insensibile; qualcosa che sia totalmente sprovvisto di istinto, di sensibilità, insomma di vita, e sia pure su una scala spaziale e temporale che le vostre piccole menti non arrivano nemmeno a concepire?
A dispetto del potere dispotico che i biologi esercitano sul linguaggio, non esitiamo ad affermare che una montagna, ad esempio, è viva: e, nel fare questo, non ci sentiamo affatto soli, ma in accordo con la sapienza di migliaia e migliaia di anni, specialmente presso i popoli dell'Oriente, ma anche presso le società che vivono a livello etnologico (cfr., in particolare, il nostro precedente articolo: «La montagna è un essere vivente dotato di anima e volontà?», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Così pure, e in pieno accordo con la sapienza astronomica e astrologica coltivata in Occidente fino al pieno Rinascimento, crediamo che le stelle, i pianeti, le comete, siano altrettanti corpi viventi; così come lo è, del resto, la nostra vecchia Terra; e alcuni scienziati moderni (vedi l'ipotesi «Gaia» di Lovelock) stanno incominciando a recuperare questa prospettiva, che era familiare a tutti gli antichi scienziati e che è stata abbandonata solo con l'avvento della concezione materialista, meccanicista e selvaggiamente utilitarista di Francesco Bacone e compagni (cfr. F. Lamendola, «Manipolazione spietata di cose, vegetali ed animali nella "Nuova Atlantide" di Francesco Bacone», ancora sul sito di Arianna Editrice).
Perciò, a quei linguisti che ci rimproverassero di attribuire un significato troppo estensivo alla parola «vita», risponderemmo che le parole hanno una storia, e che la storia la fanno i vincitori; e che, pertanto, il significato delle parole è il frutto di una operazione politica e non di una dissertazione accademica neutrale e spassionata. Essi amano concepire la vita nei termini in cui la pensavano  Francesco Bacone e Cartesio; noi preferiamo concepirla in accordo con la millenaria saggezza di Oriente ed Occidente, prima della rottura operata dalla modernità pochi secoli or sono. La nostra operazione è legittima almeno quanto la loro, e possiede una dignità filosofica e spirituale molto più antica e molto più universalmente condivisa.
Riteniamo, di conseguenza, che sia perfettamente legittimo parlare della «vita» di una sedia, di un dipinto, oppure (e a maggior ragione) di un giocattolo, di una bambola, di un vestito; e, analogamente, della vita di un vulcano, di un lago, di un fiume, di un mare, di una stella o dell'intero Universo.
Nel nostro recente articolo «La vita non è frutto del caso ma di un disegno intelligente e benevolo» (sempre sul sito di Arianna Editrice) abbiamo riportato la definizione di un eminente fisiologo francese dell'Ottocento, Xavier Bichat, secondo il quale «la vita si può definire come «l'insieme delle forze che contrastano la morte».
Ebbene, una tale definizione non si adatta forse a tutto ciò che cade sotto i nostri sensi e anche a quella porzione della realtà che non è visibile, misurabile, quantificabile, con gli strumenti dello scienziato, né riproducibile in laboratorio?
«La vita dell'anima», per esempio: chi ha il diritto di affermare che questa espressione è priva di senso comune? Forse quegli scienziati materialisti, meccanicisti e riduzionisti, che hanno tirato un tratto di penna sulla parola «anima», poco più di un secolo fa, sostenendo che essa non è altro che l'inutile retaggio di un passato morto e sepolto?
Ma c'è di più.
Se noi spingiamo lo sguardo un poco oltre la superficie delle cose, non tarderemo ad accorgerci che le vite dei singoli enti non sono che l'insieme delle manifestazioni di un'unica vita, la vita cosmica, la vita «tout court».
Prendiamo il caso di un albero. In genere, noi consideriamo l'arco della sua vita come quello che si estende tra la germinazione del seme e la fine della funzione clorofilliana, che essa avvenga per malattia, per inaridimento o per la caduta traumatica del tronco (incendio, tempesta, smottamento del terreno). Ma si tratta di una semplice convenzione: perché la vita dell'albero prende avvio dal seme, ed è impossibile dire dove questo abbia avuto inizio; e termina con il ritorno delle cellule al terreno, cosa che avviene gradualmente e insensibilmente: sicché, anche da questo verso, è impossibile dire ove essa finisca di preciso, e dove incominci quella di altre piante che hanno utilizzato quelle medesime sostanze di cui era fatto il nostro albero.
E la stessa cosa vale per tutti gli enti. La verità è che niente incomincia dal niente e che niente ritorna al niente; che tutto è interrelato; che tutto si salda con tutto. Noi uomini siamo soliti pensarci come delle monadi isolate, mentre è vero il contrario: noi, come ogni cosa, siamo parte di un flusso vitale che risale indietro nel tempo, attraverso innumerevoli generazioni di antenati, e che si prolunga in avanti, attraverso innumerevoli generazioni di discendenti.
Una volta che si sia messo bene a fuoco questo concetto, riesce molto più facile comprendere in che cosa risieda la sostanza della vita, e quale ne sia il perché.
La sostanza della vita è l'amore, perché senza un atto di amore, niente ci sarebbe e niente si conserverebbe: le forze che contrastano il nulla della morte troverebbero campo libero, e ridurrebbero tutto ciò che esiste all'annientamento, al non essere.
L'Essere ha generato le cose con un atto di amore; e la catena degli enti propaga la rete capillare della vita, mediante infiniti altri atti di amore. Dal seme che muore perché possa nascere la pianta, ai genitori dell'animale che si privano del cibo per nutrire il loro piccolo, al filosofo, all'artista e allo scienziato che sacrificano denaro, salute, gioie domestiche, per realizzare l'ideale di verità e di bellezza che nutrono nell'anima: tutto procede per mezzo dell'amore, a dispetto delle mille forze avverse che minacciano, offendono e impoveriscono la vita.
E questa sostanza, è anche il suo perché: la vita esiste per amare; noi esistiamo per amare; tutto ciò che esiste, esiste per amare.
Il peccato, allora, è l'abbandono a quella tendenza egoistica che persegue una falsa immagine di bene, del proprio bene, a danno del bene degli altri e a danno del bene generale; il peccato è chiamarsi fuori dal circuito virtuoso della vita, per lasciarsi trasportare dalle forze negative, dissolutrici, malefiche, che conducono alla morte.
Molte persone, che si credono vive, e che tali sono credute dagli altri, in realtà sono già morte: sono morte spiritualmente; e la loro anima in putrefazione ammorba l'aria e inquina la vita di coloro con cui sono relazione.
Essere morti in vita, significa non credere più nell'amore, non credere più nel bene, non credere più nella vita: è questo il peccato dal quale non si torna indietro.
Viceversa, si può essere fisicamente malati fino alle soglie della morte, e tuttavia risplendere di bellezza e di vita, se si continua a credere nel bene e nell'amore.
Se, giunti a questo punto, dovessimo dare una nostra definizione del fenomeno «vita», una definizione non biologica e non materialista, ma che tenga conto di quanto abbiamo sin qui argomentato, più o meno ci esprimeremmo così: «la vita è la forza stessa dell'amore che pervade ogni cosa e che contrasta la morte, irradiando ovunque la luce dell'Essere; e nell'amore essa trova il suo perché, il suo scopo, la sua ragione ultima.»