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Iraq, Nella città del cemento

di Anthony Shadid - 29/07/2009


 
Nella vecchia Baghdad c’è traccia di una Baghdad ancora più antica. Potremmo definirla ironia della sorte. È lì, alla statua del corpulento poeta Maruf al-Rusafi, bucherellata dai proiettili, che dà il nome a una piazza ribelle.

Attorno a lui si estende una città celebrata nella storia ma trasandata, che i soldati americani hanno finalmente lasciato. Almeno apparentemente.
Il passato è qui. Una cupola turchese di mattoni, decorata ad arabeschi, fa capolino dietro a un velo di polvere. Un colonnato maestoso sostiene balconi e balaustre dell’epoca britannica. Una sconsolata chiamata alla preghiera arriva da una moschea ottomana.
 
Ma pochi riescono a vedere la cupola: una ragnatela di cavi che portano sporadicamente elettricità ne impedisce la vista. Non si può passare sotto al colonnato: muri anti-esplosione impediscono il passaggio. E di rado la chiamata alla preghiera riesce a superare il diluvio dei clacson.

"Una città trasformata in un cumulo di spazzatura, finestre rotte, ed edifici fatiscenti”, lamenta Hussein Karim, un portiere che guarda fuori dal suo trespolo posto sopra al lembo di cartone sulla base di granito della statua. "Baghdad", aggiunge il suo amico, Hussein Abed, "è diventata una città distrutta".

Il 30 giugno le truppe da combattimento Usa hanno completato il ritiro da Baghdad e dalle altre città irachene. Ma i soldati si sono lasciati alle spalle una capitale che è stata mutata per sempre dalla loro presenza. Augusto si vantava del fatto che aveva trovato Roma era una città di mattoni e l’aveva trasformata in una città di marmo.

Baghdad era un’altra città di mattoni, e una cerchia di generali americani l’ha trasformata in una città di cemento. Il loro cemento è ovunque - dalla Green Zone che si estende disordinatamente fino alle barriere e ai muri anti-esplosione che si trovano lungo quasi ogni strada della città – e ha riorientato la geografia fisica, spirituale, e sociale che per più di mille anni era stata dettata dalle morbide anse del fiume Tigri.
 
Tuttavia, col tempo, questi muri forse conteranno meno delle forze più profonde che sei anni di presenza americana hanno accelerato. Baghdad ora è una città divisa da se stessa. Nei quartieri sciiti si trovano raramente dei sunniti, e in quelli sunniti, che oggi sono molto meno numerosi, non ci sono più sciiti. I cristiani se ne sono andati quasi tutti. I politici al potere cercano rifugio nelle fortezze, e i poveri si arrangiano da soli.

Da Beirut al Cairo, fino a Baghdad, le grandi capitali del mondo arabo hanno perso tutte una parte di tolleranza, ritirandosi dietro muri, psicologici e non solo, che segnano i confini fra le varie confessioni, etnie, e classi. Tutte piangono la scomparsa di un cosmopolitismo che sembrava radicato una generazione fa. Tutte rivogliono quegli abitanti che davano alla città più grazia. In fondo, Baghdad può essere il culmine distopico di queste tendenze, non così distrutta dal presente, quanto separata dalla sua storia.

Non sono stati gli americani a creare queste tendenze, ma le hanno favorite, lasciando spazio ai peggiori impulsi della regione.

"Distruggere è facile", afferma Karim, il portiere. "Costruire, invece, richiede molto più tempo".
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Saddam Hussein portò uno stile grossolanamente marziale in una Baghdad precedente. In una capitale funzionale, i suoi monumenti avevano portato una bizzarra vanagloria.

Le Mani della Vittoria sono probabilmente il monumento più illustre in questa visione, solo per il loro cattivo gusto. Concepito nel 1985, l’arco delle spade incrociate celebrava una vittoria irachena in un momento in cui l’Iran stava vincendo la guerra durata otto anni. I pugni che afferrano le spade sono stati modellati su quelli di Saddam, ingranditi di 40 volte. Le lame  ricurve sono delle repliche delle spade di Saad Ibn Abi Waqas, il generale arabo che sconfisse i persiani nel VII secolo. Per ognuna di esse ci sono volute 24 tonnellate di metallo, ricavato dalla fusione delle pistole di soldati iracheni caduti in battaglia. Dai polsi pendono delle reti che contengono migliaia di elmetti di soldati iraniani, crivellati di proiettili. A quanto si dice, il piano originario prevedeva dei teschi iraniani.
 
I muri di oggi sono più funzionali, ma non meno caratteristici. Non hanno la permanenza aggressiva delle barriere che gli israeliani hanno costruito per separare loro stessi dai palestinesi. Mancano di quelle scritte politiche e di quell’arte ispirata che aveva reso così caratteristico il muro di Berlino. Invece esprimono chiaramente le ambizioni disparate in un Iraq che sta emergendo dalla guerra, anche se molti si chiedono che cosa questa abbia lasciato.

I dipinti sul cemento celebrano un Iraq idealizzato di gloria sumera e babilonese, o un futuro fatto di improbabili grattacieli. I venditori li utilizzano come cartelloni pubblicitari - per agenzie immobiliari, vestiti per bambini, e cambiavalute. Il governo ci scarabocchia sopra la sua visione autoritaria della legge come antidoto al disordine radicato. "Rispetta e sarai rispettato”, recita un motto. "Sii un eroe. Proteggi l’Iraq”, esorta un altro.
 
"Questi muri saranno rimossi quando il popolo iracheno si sveglierà di nuovo finalmente”, dice Wissam Karim, un soldato di 28 anni diretto verso la sua base, ad A’adhamiya.
 
Dà un’occhiata a un muro che si estende per poco più di tre chilometri e divide i residenti sunniti di A’adhamiya da quelli sciiti di Sleikh. "Viva la resistenza", recita uno slogan  scarabocchiato su una parte del muro. Qualcuno ha cancellato l’ultima parola, sostituendola con “Iraq”.

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Il Khan Mirjan è stato costruito nel 1359, e un’iscrizione sul muro del caravanserraglio rende omaggio al suo fondatore, Amin al-Din Mirjan: "Il più giusto, il re dei re del mondo”. L’edificio ha resistito 600 anni come capolavoro dell’architettura islamica.

Nei mesi successi all’invasione è stato saccheggiato. L'innalzamento della falda l’ha presto inondato. Maestoso, ma ammuffito, il Khan dà l'impressione che il Colosseo probabilmente dava a un romano del Medioevo.  

"Ha resistito per centinaia di anni", dice Hassan Ibrahim, 41enne occupante abusivo o guardiano (fate voi). “ Se lo si volesse distruggere, ci vorrebbero pochi minuti”.
 
A differenza del Cairo o di Istanbul, con il loro paesaggio urbano imperiale, ben poco dell'antichità di Baghdad è sopravvissuto. Guerre, l’inondazione del capriccioso Tigri, e qualche fulmine sporadico hanno fatto in modo che poco si salvasse. La città, invece, sembra trarre orgoglio da una cultura della memoria.

"Quando abbiamo perso il nostro spirito civilizzato?", si chiede Saad Owaiz, 58enne cliente abituale dello Zihawi Café, con il pizzetto ingiallito dalle sigarette e gli occhiali in stile Lenin.

Vagheggia un passato immaginato quanto reale. Rimpiange Rashid Street e i suoi ristoranti e cinema, ormai chiusi da tempo. Gli mancano le conversazioni tra funzionari, sceicchi, e letterati al caffè del Parlamento.

"Di questi tempi conversazioni non ce ne sono più molte", si lamenta.
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Il quartiere che si estende dalla statua di Rusafi una volta era il più vivace di Baghdad, con un mix di moschee ottomane, mercati, e appartamenti dell’epoca britannica. A River Street c’era la moda; a Rashid Street, con i suoi portici, la prima strada a essere illuminata in Iraq, la cultura. Le migliori pasticcerie, il miglior caffè, e il gelato più delizioso si potevano trovare qui. Le manifestazioni di protesta passavano sempre nella piazza, per poi riversarsi altrove.

Oggi c’è un commercio di tipo diverso, merci a buon mercato invadono le strade che non si intersecano più; i muri anti-esplosione le rendono più simili a un labirinto. Il pesce pescato nel Tigri muore asfissiato in una tinozza dentro una macchina. Una piramide di bibite (tra)suda come il suo venditore. I vestiti delle ragazze tingono di giallo, arancione, e rosa una strada grigia e marrone. 

Foto guardano fisso fuori dagli sporadici caffè e dalle ancor più sporadiche librerie. Lo sguardo gradevole di re Ghazi contrasta con l’innocenza infantile di re Faisal II. Un principe indossa la sidara, un berretto legato per sempre a un’epoca.

Ai tempi di quelle foto, si vanta Owaiz, lui non avrebbe mangiato più di un pezzo di pane e una fetta di formaggio, e poi avrebbe bevuto un bicchiere di succo di melograno comprato a un chiosco chiamato Hajji Zibala.

"Era come se avessimo mangiato una pecora intera", dice. "Ora se mangiassimo una pecora intera avremmo ancora fame… Non siamo proprio dell’umore".

"Per me Baghdad", aggiunge, "è come un fantasma".
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Nostalgia è forse il sentimento caratterizzante in un mondo arabo disincantato, che costella le conversazioni al Cairo e a Beirut, così come a Baghdad. Indica che qualcosa – un po’ di tolleranza, una vita più libertina, il cosmopolitismo di una cultura sicura di sé - è andato perduto.

Beirut aveva il suo centro, prima che la guerra civile lo distruggesse, dove le famiglie si mettevano in posa davanti alla statua nella piazza dei Martiri per una foto. Ora zona riservata ai ricchi, una volta era un crocevia di diverse classi sociali, dove i cinema si trovavano accanto al mercato del pesce, e le boutique e le banche condividevano lo spazio con i venditori di verdura. Anche il Cairo aveva il suo centro – il caffè Groppi e i cinema quali il Rivoli, il Metro, e l’Opera – la cui era finì con l’incendio del 1952 e la rivoluzione che seguì.
 
Non era tutto magnifico, naturalmente. Il Cairo era una città molto più  piacevole per i residenti stranieri, che a volte non parlavano neanche l’arabo, piuttosto che per gli egiziani. I turisti a Beirut potevano ignorare un anello di miseria nella periferia, popolata da sciiti privati dei loro diritti civili. Ma pochi contesterebbero che l’identità, sia essa determinata dall’appartenenza a una confessione, un’etnia, o anche a una classe, fosse definita meno rigorosamente. E quasi tutti sarebbero d’accordo sul fatto che  lo sciovinismo abbia ancora la meglio sulla tolleranza.

"Come si può raccontare questa storia senza sembrare troppo nostalgici verso un mondo che, sotto molti aspetti, non vorremmo riavere?”, si è chiesto Mark Mazower, autore di  "Salonica, City of Ghosts". "Questo è il dilemma."

Per Mazower la nostalgia non è qualcosa di particolarmente arabo; è piuttosto una storia universale che sembra conquistare il fallimento così come la perdita.

"Tutti sono consapevoli di quanto sia difficile per gli stati-nazione creare dei regimi stabili e al tempo stesso tolleranti”, ha detto. "La nostalgia riflette il senso della loro crisi oggi".
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Nella Baghdad del dopoguerra non ci sono né stabilità né tolleranza. Ma Maysun al-Damluji non si spinge fino a incolpare le truppe americane che in maggioranza hanno lasciato la sua capitale.

"Ho sempre detto che un esercito è un esercito, malgrado tutto. Si tratta solo di ragazzi con i fucili”, dice la Damluji, architetto e parlamentare appartenente a una famiglia in vista. “ Non ti aspetti che un esercito si prenda cura di una città, né che sia sensibile ai bisogni delle persone”.

Baghdad era già stata impoverita prima che arrivassero gli americani. C'erano stati gli otto anni di guerra con l’Iran, quando i prigionieri di guerra venivano fatti sfilare per la città sui pickup. Le sanzioni seguirono un’altra guerra, l’invasione irachena del Kuwait nel 1991, facendo sparire col tempo quella che una volta era la vivace classe media di Baghdad.

"Ci sono intere generazioni cresciute senza conoscere altro se non il linguaggio della guerra, dello scontro, e della sfida”, dice la Damluji. "Lo vedi nei loro occhi".

I baghdadi – con questo termine fa riferimento alla tolleranza della città - sono spariti. Coloro i quali vengono dalla campagna, con le regole severe degli uomini duri, hanno preso il loro posto. Ai suoi tempi, lo sceicco di una tribù avrebbe potuto  rinunciare al suo copricapo durante una visita nella capitale. 

"Sarebbe stato troppo imbarazzante per lui”, dice. “Quando questi uomini visitavano Baghdad, si comportavano come i baghdadi. Ora le persone che vivono a Baghdad agiscono come gli anziani delle tribù che vengono dalla campagna”.

Damluji ha una risposta: un progetto per ripristinare la fascia di zona selvaggia urbana attorno alla statua di Rusafi. I proprietari diventerebbero azionisti di una società che rinnoverebbe e farebbe risorgere una parte della città che si estende per poco più di tre chilometri lungo il Tigri, da Bab al-Sharji a Bab al-Moadhem. Il traffico sarebbe interdetto. Cinema e negozi sarebbero circondati da parchi. La sua idea è simile a quella che ha favorito la ricostruzione di Beirut, ma, a differenza della capitale libanese, dice, “Cercheremo di mantenere il tessuto sociale, e non di consegnarlo a Starbucks”.

Srotola una fotografia lunga 6 metri, un’immagine satellitare della città. Non c’erano barriere, né cemento, né muri a forma di T. “ Tutto questo verrà ricreato”, giura, accarezzando la foto con la mano.

C’è una famosa canzone di Kazem al-Saher, il più famoso cantante iracheno, che parla della capitale. “ Dio ha mai creato, in tutto il mondo intero, qualcosa che sia bello come te?”, chiede il cantante. Poi il tono sale, mentre con voce lamentosa grida: "Baghdad! Baghdad! Baghdad!"
 
Era davvero bella? La Damluji fa una pausa.

"No", risponde. "No, non penso che Baghdad sia mai stata una città bella. Ma era una città animata. Era civilizzata”.

La fotografia resta ai suoi piedi. Dà una tirata a una sigaretta Davidoff, mentre la sua terrier grigia, Apricot, salta sulla sua sedia.

"Ci vorrà un po’”, ammette. “E’ molto più difficile costruire che demolire”.
 
Anthony Shadid è il corrispondente del Washington Post dal Medio Oriente. È autore del libro Night Draws Near: Iraq's People in the Shadow of America's War.

(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)
di Washington Post,

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