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Una pagina al giorno: La mitica rivolta dei Tuareg, di Cino Boccazzi

di Francesco Lamendola - 14/08/2009


Il 6 agosto 2009 è morto a Treviso, sua città di adozione, il medico, scrittore ed esploratore Cino Boccazzi, alla bella età di novantatré anni.
Era nato ad Aosta nel 1916 e, nella sua vita intensa e avventurosa, aveva effettuato ben ventidue spedizioni nel deserto del Sahara, nel corso delle quali aveva fatto importanti scoperte, dalle incisioni rupestri a un vero e proprio cimitero di dinosauri (nel Gran Ténéré, di cui aveva riferito in un fortunato libro dei primi ani Settanta, scritto a quattro mani con Virgilio Boccardi e pubblicato dall'Editore Sugar di Milano).
Del deserto era divenuto non solo un infaticabile viaggiatore e un espertissimo conoscitore, ma un autentico poeta: della sua magica atmosfera senza tempo; della sua natura selvaggia ed elusiva, che aveva incantato fino al misticismo un uomo come Padre Foucauld; delle sue albe e dei suoi tramonti incandescenti; soprattutto delle sue popolazioni. Amava e ammirava specialmente i Tuareg, gli «Uomini blu» del deserto, liberi e fieri della loro storia millenaria, della loro indipendenza duramente difesa contro tutto e contro tutti.
Boccazzi, che è stato, fra l'altro, ispiratore ed animatore, per molti anni, dell'importante premio letterario dedicato a Giovanni Comisso, altro notevole scrittore trevigiano non sufficientemente conosciuto e apprezzato nel resto d'Italia (cfr. il nostro precedente articolo: «Una pagina al giorno: il rosso delle ciliegie di Giovanni Comisso», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), ha scritto ben ventisei libri, fra i quali una delle migliori biografie di Lawrence d'Arabia, pubblicata dalla Casa Editrice Rizzoli.
Cino Boccazzi è stato un conferenziere brillante, animati da un'autentica passione, che conferiva un accento di profonda verità alle sue parole; egli sapeva affascinare ed incantare il pubblico, così come la numerosa cerchia dei suoi lettori; e possedeva, inoltre, quella giovinezza interiore, che lo sostenevano nelle fatiche e negli strapazzi della sua vita operosa, senza che per questo rinunciasse alla cordialità del rapporto umano, tipica della gente trevigiana, e al piacere della conversazione, specialmente con i giovani, con gli studenti, e in genere con le persone desiderose di allargare i propri orizzonti e di uscire dalle secche di un provincialismo culturale tanto conformista, quanto deleterio.
Uomo aperto e curioso del mondo, con lo sguardo spalancato a trecentosessanta gradi sulla realtà, si interessava di tutto, ma senza cadere nel dilettantismo: dall'etnologia alla storia, dal romanzo (ricordiamo, fra gli altri da lui scritti, «Il Mezzogatto», ricco, com'è, nel suo stile, di humour e ironia) ai fenomeni paranormali; un uomo del Rinascimento, forse, almeno a paragone di quest'epoca di specializzazioni sempre più anguste.
A lui si potrebbe applicare la famosa sentenza di Terenzio: «Homo sum, nihil humani a me alienum puto»: sono un uomo, e penso che non vi sia nulla di estraneo e lontano da me, di quanto è propriamente umano.
Abbiamo deciso di commemorare Cino Boccazzi offrendo al lettore una pagina tratta da uno dei suoi numerosi libri dedicati al deserto e alle sue fiere popolazioni; precisamente, dal libro «Il condottiero dei Tuareg» (Milano, Sonzogno Editore, 1982, pp. 96-101).
Si tratta di una commossa, ma obiettiva e serena rievocazione della leggendaria figura di Kaossen, che fra il 1916 e il 1917 condusse una disperata e valorosa guerriglia per liberare la sua terra dal dominio coloniale francese, giungendo a conquistare la città di Agades e ad assediare, ma invano, il fortino francese che la presidiava.

«Il mercante El Hadj Mohamed Allane era un noto uomo d'affari di Tunisi e più volte all'anno scendeva con grandi carovane verso il Niger. Il 1° aprile 1914 alla guida di 80 cammelli carichi caffè, tè, zucchero, spezie, sapone, profumi , olio, telerie e utensili, parte da Gabés in Tunisia; arriverà a Djanet in maggio, di là andrà a Ghat, occupata dagli italiani, dove ha un amico, un ufficiale siciliano, buon interprete delle lingue locali, con cui traffica. Da abile uomo d'affari, raccoglie notizie sulla ribellione che sta maturando e le trasmette discretamente agli ufficiali francesi incontrati nel suo viaggio. Per un anno commercia, scendendo giù fino al Niger e nel gennaio del 1915 viene a sapere dal tenente Delaroche (quel Delaroche che arriverà a Tamanrasset tre giorni dopo l'assassinio di De Foucauld e stenderà un rapporto sul fatto) che gli italiani hanno evacuato improvvisamente Ghat, abbandonando l'arsenale intatto con due cannoni, mitragliatrici, munizioni e viveri, tutte cose su cui si butteranno i Tuareg Ouraghen col loro capo Boubakar per poi darle a Kaossen.
In giugno il mercante tunisino arriva a Agades dove sta un anno, mettendo a punto un lucroso traffico, garantito dal sultano Tegama. La presenza di Mohamed Allane è importante, perché ci ha lasciato una testimonianza dell'assedio.
Viene subito a sapere che da Ghat sono partire due fellaghe, una al comando di Ghali, suocero di Kaossen che precede la grossa colonna col cannone guidata dallo stesso Kaossen. Sta per finire l'anno, dal nord arrivano notizie inquietanti.
Il forte di Agades, posto a nord-est della città, consta di una cinta muraria alta 3 metri e spessa 30 centimetri, fatta di banco, mattoni seccati al sole, un materiale fragile, in grado però di assorbire i colpi. Due salienti , muniti di merlature, a nord-ovest e a sud-est delle mura, coprono e proteggono tutto il perimetro del forte, gravato da numerose servitù, costituite da case e baraccamenti disposti in maniera da ostacolare visuale e tiro; a 40 metri est, ci sono le scuderie costruite su un terreno in declivio che è l'unico a poter essere facilmente battuto dal tiro dei difensori; a sud ci sono, infine, scaglionati in 200 metri di profondità,  il posto d polizia, la prigione e i magazzini di materiale. La logica "illogica" dell'intendenza fa sì che i viveri per la guarnigione, composta di 105 uomini, più 165 famigliari dei difensori, siano immagazzinati nel deposito più lontano e meno difendibile. A ovest, a 80 metri, sono situate le case del comandante  e dell'ufficiale in IIa.
Il capitano Sabatié ha ereditato il forte in queste precarie condizioni di difesa. Sabatié fiuta qualcosa. D'istinto fa scavare trincee e postazioni per le due mitragliatrici. Mura alcune porte e mette un robusto portone all'ingresso del forte che, paradossalmente,  ne era sprovvisto. Ammassa tutti i viveri nel recinto.  Non ha problemi idrici, perché il pozzo interno, chiamato Thincamane, ha acqua buona e abbondantissima.. Distribuite le munizioni ai suoi uomini,  dispone di una riserva di 100.000 cartucce.
Qualche giorno prima dell'ora X, il Sultano Tegama s'è recato in visita da Sabatié, con molta fretta, per comunicargli, in via riservata, la presenza di una grossa mehalla di razziatori, comparsa verso nord, uscita dalle montagne dell'Air. Cn questa notizia Tegama voleva  confondere le idee: la grossa mehalla esisteva, veniva da nord, ma con un'ampia diversione avrebbe attaccato la città da sud.
È il caso di uscire in forze per intercettare i razziatori. Tegama insiste. Se il capitano abbocca, Agades sarà occupata senza colpo ferire. Ma il capitano Sabatié non abbocca e continua a rinforzare le difese e la notte dell'11 dicembre dorme nel forte, abbandonando il suo alloggio fuori le mura.
La mattina del 12 dicembre Mohamed Allane se ne sta disteso su una stuoia, con le finestre aperte, perché è una notte molto calda, sente dei rumori, prende il fucile Mausrr da cui non si separa mai, ma prima di poterlo usare, è sopraffatto da dieci Tuareg armati di tutto punto. Si difende, viene picchiato, fanno un laccio con la sua gandura, lo legano per il collo trascinandolo per tre km., fino all'accampamento di Ghali, da cui è accolto con la promessa che non gli sarà fatto nulla. Intanto arrivano le mogli dei meharisti, fatte prigioniere di sorpresa, e viene torturato e ucciso Samba, un soldato senegalese, catturato poco prima. Poi Ghali, prima di tutto predone, entra in Agades e razzia prima di tutto gli averi di Mohamed Allane, che stila un accurato e accorato inventario delle sue perdite: 2.500 franchi in biglietti, 25.000 franchi in lingotti d'oro, più la lista dei debiti garantiti dal sultano, ammontanti a 30.000 franchi per Agades, 13.000 per Djanet, 24.000 per Zinder.
Alle 6 del mattino del 12 dicembre, la moglie di Samba il soldato senegalese torturato e ucciso dagli uomini di Ghali, riesce a fuggire  e dà l'allarme alla guarnigione del forte. Sabatié fa sgomberare di tutto il materiale utile le case attorno, lo mette al sicuro e invia due pattuglie in ricognizione versoi Agades.
Le pattuglie scendono silenziosamente, verso lo oued, nascoste dalla vegetazione, scambiano, alle porte della città, colpi di fucile coi Tuareg, affaccendati a saccheggiare le case e si ritirano sparando fino davanti al forte, dove sta per arrivare un gruppo abbastanza nutrito di inseguitori, costretti sotto il fuoco incrociato delle mitragliatrici a ripiegare con perdite. In città si sentono spari e grida, la mehalla di Ghali è dispersa in tutti i quartieri per il saccheggio. Sabatié invia due staffette a Zinder, ma vengono prese e uccise. Un altro corriere più fortunato corre verso est e raggiunge il tenente Fons di ritorno da Bilma con 53 meharisti, che riusciranno, con marce forzate notturne, molto ben guidate, a raggiungere la guarnigione di Agades, la notte del 15 dicembre.
La popolazione in festa, quella mattina del mese di Rebi el Anel - 1334 dell'Egira, attende il solenne ingresso di Kaossen e non si accorge di niente.

Kaossen è furibondo contro suo suocero Ghali per non aver saputo effettuare la sorpresa che avrebbe avuto ragione del piccolo presidio colto nel sonno, come già era accaduto nella conquista di Sebha, due anni prima.
Kaossen si avvicina a Agades al trotto, su un grande cammello pezzato, seguito dalla guardia del corpo, splendidi nomadi delle grandi pianure, i Kel Tamat coi guerrieri di 16 tribù. Rullano i tamburi ai lati della cavalcata barbarica diretta verso la piazza del minareto, già visto, di lontano, apparire e sparire dietro le dune, come un faro in un mare in tempesta.  Finalmente, ecco le prime case di terra rossa, le viuzze strette in cui entrano, come acque, lingue di sabbia morbida e soffice. Il Sultano Tegama, con tutta la sua corte, attende Kaossen alle porte della città. Gli sta a fianco l'Anastafidet il capo amministrativo della potente tribù dei Kel Owei, il capo del Kel degli Itesen, discendenti di quelli che andarono a Costantinopoli in cerca del primo sultano, tutti i dignitari di corte, i Fadawa a cavallo, i dogari col turbante rosso, il primo ministro detto il Dan Galadima e il Serki Turawa, sovraintendente all'harem, i rappresentanti dei vari quartieri: i mercanti arabi vestiti di bianco dell'Obutara; i festosi schiavi del quartiere Amdit; i discendenti dei 60 figli di Mohamed Boromil, magnate della città, tutti su splendidi cammelli bardati  di selle tessute di cuoio verde e ornate di simboli d'argento in forma di triangolo, l'occhio di Horus degli antichi egizi. Ovunque clamori, spari, fuochi accesi, e in sottofondo un tam tam risuonante in tutti i vicoli, le donne che pestano il miglio nei mortai di legno. Corvi, cani, avvoltoi, a gruppi osservano la scena di lontano e anche timidi negri venuti  dalle steppe lungo il Niger, coi volti tatuati di fango e maestosi Haussa imponenti nei loro boubù azzurri  ricamati con festoni di filo bianco.
Il colmo della festa lo si avrà nel quartiere Katanga, dove, poco lontano dal minareto, è pronto il palazzo  per Kaossen. L'ampio salone per le udienze è coperto di stuoie, trofei di lance sono appesi ai muri.
I Tuareg di Kaossen vestiti delle loro gandure azzurre, completamente velati, con gli amplissimi turbanti a ruota, caracollano, coi cammelli al passo, la "takuba", la grande spada, in pugno, i mauser infilati nelle tasche delle selle. Sono duemila, sfilano per quattro al rullo dei tamburi. Segue questa stupenda cavalcata di giganti (cammelli e uomo superano i i tre metri d'altezza) una fila di asini carichi di cassette di proiettili, più di 2.000 obici e, infine, trainato da due robusti cammelli, il cannone, orgoglio degli insorti con dietro le mitragliatrici someggiate.
Più che del cannone, di cui si faranno una idea precisa solo quando lo sentiranno sparare, i Tuareg e la popolazione di Agades si meravigliano delle ruote. Perché la ruota è una conquista dell'uomo che il deserto ha dimenticato. Millenni prima i Garamanti, seguendo la stessa strada delle bande di Kaossen, dal lontanissimo Fezzan sono arrivati a Agades e oltre coi loro cocchi leggeri, trainati da piccoli cavalli, seguendo la "strada dei carri", contrassegnata da graffiti in cui essi vengono riprodotti come una indicazione stradale "ante litteram". La progressiva desertificazione, la difficoltà di usare i cavalli per la rarefazione delle sorgenti e soprattutto l'arrivo del cammello, hanno fatto dimenticare la ruota.
Nella città le tracce dei saccheggi fatti da Ghali sono evidenti, ma ora, per l'ingresso del liberatore, ogni attività, da quelle dei razziatori a quelle degli artigiani, e dei marabutti nelle moschee, si è fermata. Kaossen monta un cammello enorme, non porta il velo sul viso, ha sul capo un fez rosso col fiocco all'uso libico, gli pende dal fianco una ricurva spada ottomana dal fodero d'argento tempestato di pietre. È un uomo imponente dagli occhi vivacissimi e una corta barba. Mai s'era visto un simile esercito entrare nella antica Agades. Cosa potevano fare i pochi francesi , chiusi nel forte dalle mura di fango, contro il cannone, le mitragliatrici e l'orda di 2.000 meharisti, ora che la "baraka", la fortuna, stava dalla parte degli insorti?
Sotto il minareto si arrostiscono i capretti per il banchetto cui parteciperà tutta la popolazione. A Kaossen piace il palazzo donato dal sultano Tegama. Il soffitto di travi di palma del grande salone centrale è sorretto da una colonna e per una scala si sale al primo piano, a sinistra ci sono delle camerette, a destra una terrazza, dominata dal minareto, oltre il quale, non molto lontano, spicca la mole imponente del palazzo del sultano, più alto di tutte le case di Agades. Oggi il palazzo di Kaossen è divenuto l'"Hotel de l'Air", dove sostano i turisti. Il palazzo del sultano è ancora  "in media civitate posito", come lo vide e lo descrisse Leone Africano nei primi del 1500.»

Il fascino di questa pagina - che pare quella di un romanzo, mentre è storicamente esatta fino all'ultimo particolare -, non risiede soltanto nell'atmosfera esotica e fastosa da «Mille e una notte», né nella pulita e levigata scrittura che nulla concede al superfluo e, secca come la sabbia del deserto, si snoda con asciutto vigore dal principio alla fine del libro; ma proprio nel respiro epico della vicenda che, per certi aspetti, ci riporta ad Omero e ai tempi in cui la guerra non era una faccenda eminentemente tecnologica (nonostante quel cannone incautamente abbandonato dagli Italiani e subito catturato dalle truppe di Kaossen), ma un confronto diretto e leale, per quanto brutale, fra uomini della stessa forza e animati da analoghi valori.
Per il resto, si direbbe che la vicenda dell'assedio di Agades sia uscita dritta dritta dallo schermo di un film western, con i Tuareg al posto dei pellirossa e i cammelli al posto dei cavalli; e quella minuscola guarnigione francese, comandata da un intrepido capitano, che si appresta a vendere cara la pelle entro un fortino che non è costruito con tronchi d'albero, ma con mattoni di fango seccato al sole.
Anche i Tuareg, come gli Indiani d'America, si battono per la loro terra, per la loro libertà, per la possibilità di conservare i loro antichi modi di vita: ed è, da questo punti di vista, una lotta - una delle ultime, in piena prima guerra mondiale, mentre in Europa romba il cannone già da due anni e mezzo - fra la modernità e la società premoderna, qui a confronto, bizzarramente, quasi su un piano di parità tecnica, ciò che tiene in sospeso l'esito della battaglia, anche se il risultato finale della guerra non può essere dubbio.
Nessuno degli elementi tradizionali del western è assente in questa pagina di storia: né il ricco mercante coinvolto nella lotta e fatto prigioniero; né il soldato indigeno catturato, torturato e ucciso dagli attaccanti; né la moglie di lui che fugge e, simile a un'eroina romana di Tito Livio, riesce a dare l'allarme tra i soldati; né, infine, il superbo capo locale - nella fattispecie, un Sultano che finalmente getta la maschera e rivela i suoi veri sentimenti antieuropei - che spalanca le porte al mitico guerriero liberatore, sul quale su appuntano tutti gli entusiasmi e tutte le speranze degli indigeni, mentre le donne intonano le loro canzoni di guerra, risuonananti nell'aria come un lugubre presagio di morte per l'esigua guarnigione del forte.
In realtà, le cose non andarono come i seguaci di Kaossen avevano sperato.
L'assedio fu lungo e inefficace; e, dopo due mesi e mezzo, si risolse in un completo insuccesso. Il 1° marzo furono sparate, inutilmente, le ultime cannonate sul forte, dopo di che i Tuareg iniziarono la ritirata verso il nord.
Il 3 marzo una colonna francese di soccorso, guidata da un ufficiale di nome Mourin, fece  l'ingresso in Agades, liberando definitivamente gli assediati.
Kaossen non si diede per vinto e continuò, con abilità, tenacia e con l'abituale ardimento, la guerriglia contro il nemico; ma infine, soverchiato dalla sua superiorità tecnica e organizzativa, dovete soccombere.

Scrive ancora Boccazzi (op. cit., pp. 139-40):

«Di Kaossen è ignota perfino la tomba se mai ne ebbe una. Ogni duna, ogni roccia di Oum el Adam, potrebbero essere stati testimoni della sua ultima giornata terrena. Molte sono le tombe in quella zona, cumuli di pietre senza tempo e senza lapide, alcune antichissime dei Garamanti, i mitici "cavalieri del galoppo volante", ma sono tutte eguali, non ci è dato sapere se sotto quei tumuli ci sia un morto antico o di qualche decennio passato. Abbiamo scavato nel ricordo degli ultimi vecchissimi protagonisti della rivolta dei Tuareg, riscoprendo frammenti di una vita tempestosa che non possiamo giudicare col nostro metro; ciò che sembra crudele in lui, è forse poca cosa di fronte alla responsabilità di quei generai che hanno mandato milioni di uomini al macello, sul Carso o a Verdun. Ogni guerra  atroce, da ogni punto di vista, e questa guerra del deserto, combattuta nei vasti spazi, lo è forse meno di tutte le altre. La causa di Kaossen, ha scritto qualche anno fa Salifon, era perduta in anticipo, l'Africa non era pronta, né tecnicamente né politicamente a resistere. Ma anche se la causa era perduta, aggiunge Salifon, non si può far colpa a Kaossen e a Tegama e ai loro seguaci d'aver combattuto lo straniero che opprimeva il loro paese. Kaossen credeva nella legittimità  della sua azione. E aggiunge Riou, nel suo libro sulla rivolta, edito a Niamey nel 1968, che Kaossen aveva una personalità fuori dell'ordinario. Restò, fino alla fine, irriducibile nemico, dotato di tenacia, coraggio e capacità militari.»

Ci sembra, questo, un bell'epitaffio per il valoroso guerriero del deserto; e un giudizio storico che testimonia non solo l'alta qualità della scrittura di Cino Boccazzi, ma anche il suo vasto, profondo senso di comprensione umana.