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Sfogliando un vecchio libro di lettura

di Francesco Lamendola - 25/08/2009

 

A mia mamma.

L'altro giorno mi è capitato in mano un vecchio libro di lettura, di quelli che si usavano nelle scuole elementari, affiancati al sussidiario, per avviare i bambini al piacere del leggere e, al tempo stesso, per trasmettere loro un primo abbozzo di sistema di valori.
Sì, valori: oggi questa sembra diventata quasi una parolaccia, tali sono gli sforzi, a volte perfino acrobatici, che fanno tutti gli intellettuali debitamente «progressisti»,  per evitare di adoperarla: così grande è la loro paura di passare per antiquati e bacchettoni, per baciapile e autoritari, insomma per seguaci dell'aborrito «pensiero forte», dove si parla ancora di verità ed errore, di giusto e di sbagliato; mentre oggi, si sa, chi vuol essere alla moda e postmoderno, non può non dirsi simpatizzante del «pensiero debole», dove ai «sì »e ai «no» subentrano i belati sul genere dei «so» e dei «ni».
Era un libro della mamma, la quale ha conservato alcuni libri della sua lunga e gloriosa carriera di maestra elementare. Una carriera vissuta con passione ed amore infiniti, anche fra i bambini delle minuscole scuolette di montagna, nelle borgate senza strada asfaltata, senza luce elettrica e senza telegrafo o telefono; dove la povertà era tale che lei divideva con essi la sua modesta scorta di cibi, portati da casa, e destinati a durare per l'intera settimana.
Mi sono perso a sfogliare quel vecchio libro, di almeno due generazioni fa; avrebbe potuto essere il mio, di quando andavo a scuola. Ho indugiato ad osservarne le illustrazioni, a leggere qua e là alcuni brani in prosa, alcune brevi poesie; e a riflettere.
Ebbene, la prima impressione che ne ho ricavata è stata quella di avere a che fare con un libro gentile, fatto di cose gentili e trattate con gentilezza. Una impressione di cose sussurrate o pronunciate con voce pacata; non di cose gridate sguaiatamente, alla maniera della televisione di oggi o, peggio, dei cosiddetti luoghi di svago per bambini, come certe orribili sale giochi risuonanti in continuazione di rumori elettronici.
I soliti critici postmoderni obietteranno che il mondo non è gentile: e che, pertanto, è sbagliato darne a un bambino una immagine eccessivamente idealizzata; ma costoro dimenticano che il mondo è esattamente quello che noi vogliamo che sia, e che presentarlo a un bambino con gentilezza, non significa affatto idealizzarlo, ma soltanto suggerirgli un modo per osservarlo e per viverlo nella maniera migliore possibile, in un rapporto non di conflittualità, ma di serenità e armonia.
Certo, le cose brutte esistono: ma non vi è alcun bisogno di presentarle a un bambino in maniera altrettanto brutale, oppure in un'ottica selvaggiamente competitiva. Questo, se si vogliono trattare i bambini da bambini: ossia non come piccoli uomini, ai quali si può dire tutto e in qualsiasi maniera, ma come piccole persone in formazione, che stanno, appunto, percorrendo la lunga strada che li porterà verso la realizzazione di sé, e i cui tempi vanno rispettati. «Natura non facit saltus»: la natura non fa salti, non brucia le tappe, anche se noi abbiamo fretta e lo vorremmo; la natura procede per gradi - e questa non è saggezza degli antichi Romani o, magari, dei Greci, ma di Linneo, uno dei padri fondatori della scienza moderna.
La seconda impressione, subito dopo questa, è stata quella del calore: calore di affetti e di sentimenti, calore di umana simpatia, calore di vita: un calore che contrasta stranamente con l'aria efficiente ed asettica che ha assunto la vita ai nostri giorni, dove - tanto per fare un esempio -  le vecchie osterie scompaiono una dopo l'altra, per lasciare il posto ai bar all'americana, con i tavoli di plastica e la musica così forte, da rendere estremamente difficoltosa la conversazione: e un bar dove non si riesce a parlare con gli amici, che razza di luogo è? Un luogo di alienazione, non un luogo di comunicazione.
Il calore di quel libro si respirava nel modo di porgere gli argomenti, nel modo di suggerire un approccio con gli altri, con la natura, con la vita; emergeva dal tratto dei disegni, dalle tinte scelte dagli illustratori. La pioggia era vera pioggia, il sole era vero sole: giallo, ardente, infuocato. I sorrisi erano veri sorrisi, le lacrime erano vere lacrime.
Quel che gli autori suggerivano, era che non ci si può rapportare con la realtà, e nemmeno con se stessi, se non ci si apre veramente, se non ci si specchia sino in fondo nella propria verità interiore: che solo così si può gioire delle cose belle che la vita ci offre, e solo così si può fare tesoro di quelle meno belle.
La terza impressione è stata quella un sistema di valori completo, proposto con semplicità, in maniera adeguata alla mente ed al cuore di un bambino; ma, al tempo stesso, chiaro nel progetto di chi lo presentava, e chiaro per il piccolo lettore cui era destinato.
Fra questi valori, mi ha colpito in maniera particolare l'accento posto sul sentimento della sollecitudine e della gratitudine.
In una breve lettura, per esempio, si descriveva il ritorno a casa di un papà, dopo una dura giornata di lavoro: la sua stanchezza, la sua difficoltà a tirare avanti. Poi si presentavano i suoi due figli, un bambino e una bambina piccoli, che gli correvano incontro giù per le scale e che gli facevano festa, augurandogli il bentornato e chiedendogli di dar loro la sua borsa, perché gliela portassero fin dentro. La conclusione era che quell'uomo, improvvisamente, non sentiva più la stanchezza, non sentiva più il peso della giornata trascorsa: di colpo ogni cosa gli pareva leggera, e le forze parevano rinascergli dall'intimo.
Una lettura brevissima, di mezza paginetta appena; e il resto della pagina era occupato dal disegno, semplice ma efficace, e privo di retorica. Eppure, in quelle poche righe veniva trasmesso al giovanissimo lettore un sentimento fondamentale: la capacità di farsi carico della fatica degli altri, delle loro preoccupazioni; la capacità di uscire dal cerchio sterile del proprio io, dei propri desideri, delle proprie esigenze, per aprirsi all'altro; la capacità, infine, di tradurre il sentimento di amore per le persone care, in comportamenti concreti e fattivi, in iniziative pratiche per gettare un ponte fra l'io e il tu.
Quanti bambini sono capaci di accogliere così i propri genitori, oggi, quando essi ritornano stanchi dal lavoro? Quanti di loro fanno loro trovare la tavola apparecchiata, le piccole faccende domestiche sbrigate; quanti di loro sono capaci di chiedere al papà e alla mamma: «Come stai?»; e quanti, invece, se ne rimangono inchiodati davanti allo schermo del televisore o del computer, e non alzano nemmeno il sedere dalla sedia, né girano la testa per degnarli di uno sguardo, non dico di un saluto e di un sorriso?
E poi non ci vengano a dire che i libri di scuola di una volta erano infarciti di retorica melensa: ci sarà stata anche quella, può darsi; ma c'era anche della buona sostanza, quella sostanza che oggi, a furia di chiacchiere sui diritti di ciascuno, senza mai parlare anche dei doveri corrispondenti, ha fatto sì che i nostri bambini crescano come dei piccoli tiranni viziati e capricciosi, insensibili alla fatica dei genitori, abituati soltanto a esigere, a pretendere, ad alzare la voce per ottenere questo e quell'altro.
Ebbene, se siamo arrivati a questo punto, è perché gli adulti hanno smesso di svolgere il proprio ruolo di adulti; perché i genitori si sono trasformati nei servitori dei figli; perché il cinema, la televisione, i libri, compresi i libri di scuola, hanno smesso di parlare del dovere, del sacrificio, dell'altruismo, della bellezza del donare, della gioia dell'andare incontro; per suonare sempre la stessa nota, monotona fino all'esasperazione, dell'io voglio.
Oltretutto, facendo così non è vero che abbiamo agevolato i bambini: al contrario; abbiamo agito per il loro male: perché li abbiamo privati di una capacità di maturazione che si alimenta solo con i buoni esempi e che, se non viene coltivata per tempo, poi non s'impara più. Solo che la vita è severa, con i bambocci viziati; e, prima o poi, presenta i suoi conti da pagare.
Allora si vede che solo quanti hanno ricevuto il valore della sollecitudine e l'abitudine alla riconoscenza, sono effettivamente in grado di fronteggiare i casi seri della vita; gli altri, non sanno fare altro che piagnucolare, rattristare il prossimo con le loro querimonie, e prendersela con tutto e con tutti per le proprie difficoltà.
Ci sarebbero molte altre cose da dire, che la lettura di quel vecchio libro mi ha suggerito, ma credo di aver reso l'idea del suo carattere essenziale: l'intenzione formativa che lo animava, dalla prima all'ultima pagina. I libri di lettura di due o tre generazioni fa avevano ancora l'obiettivo di formare il carattere, di arricchire la personalità, di coltivare lo spirito. Erano concepiti per questo, servivano a questo, e tutto quel che dicevano e come lo dicevano, era solo e unicamente per questo. Potevano anche essere piacevoli e talvolta divertenti, ma non era in ciò il loro carattere essenziale; questo, semmai, era il mezzo di cui si servivano per raggiungere il proprio fine.
Ma la scuola, oggi, non vuole più formare: si limita a informare, a stipare la mente dei bambini di tante nozioni e di tanti concetti da adulti.
Nemmeno verso i ragazzi delle superiori, la scuola ha conservato una attitudine formativa: per un malinteso senso di rispetto della personalità di ciascuno, anch'essa ha ammainato la bandiera dei valori e si è ridotta a puro tecnicismo (peraltro, nella maggior parte dei casi, decisamente scadente, come appare da un confronto con le scuole straniere).
Alla conclusione del proprio percorso scolastico, uno studente italiano non deve più sostenere l'esame di maturità, ma l'esame di Stato. La parola «maturità» è stata abolita dal linguaggio della scuola: anch'essa pare sia diventata una parola impronunciabile e politicamente scorrettissima, quasi una parolaccia.
Senonché, una scuola che ha rinunciato alla propria funzione formativa, ha rinunciato alla propria ragione di esistere. Quello che rimane è un grande, noioso parcheggio, ove bambini e ragazzi transitano per un certo numero di anni: anni noiosissimi e assolutamente inutili, che non insegnano nulla di quanto servirà loro realmente nella vita.
Sono cose sgradevoli, quelle che stiamo dicendo? Tanto meglio: speriamo che qualcuno le senta. Perché una società che non possiede più una scuola degna di questo nome, non ha un futuro; e non occorre scomodare sociologi rivoluzionari come Ivan Illich per capirlo. La cosa è evidente di per sé, solo che si possieda quel minimo di onestà intellettuale per guardar le cose in faccia e per chiamarle con il loro vero nome, senza fronzoli e senza orpelli.
E allora?
E allora bisognerebbe che tutta la società, a cominciare dalla famiglia, recuperasse la propria funzione educante: che è, per definizione, funzione formativa. Non si può educare, senza formare; e solo una sfrenata demagogia pseudo-progressista può dipingere questa verità come una subdola manovra per manipolare la personalità ancora in formazione del discente. Come riuscirà mai a formarsi, quella personalità, se non si trova più un solo adulto disposto a farsi carico di trasmetterle dei valori, ossia ad aiutare la sua formazione e la sua maturazione non solo intellettiva, ma anche spirituale ed umana?
Il fatto è che, per formare una personalità, bisogna prima credere nella persona; ma qui appunto sta il problema: che la cultura moderna non crede più al valore, al significati della persona. Preferisce parlare di individuo; ma l'individuo è un'astrazione. Non esistono individui, ma solo persone che vivono in un contesto sociale. Persona, diciamolo chiaro e tondo, nel senso tomista del termine: essere spirituale che tende a realizzare dei fini, secondo un progetto, alla luce di valori che gli rischiarino il cammino.
Il bambino è una persona in formazione: ma non diventerà mai persona, se nessuno lo aiuta a realizzarsi. Resterà sempre una nave senza timone e senza vele, sballottata di qua e di là al minimo soffio di vento.
È questo che vogliamo per i nostri figli e nipoti, per gli uomini di domani?
Forse siamo ancora in tempo a cambiare strada; ma dobbiamo fare in fretta, se vogliamo recuperare il tempo perduto. Forse, per prima cosa, dovremmo cominciare col rieducare noi stessi: perché un cieco non può fare da guida a nessuno; e meno che mai ad un bambino.