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Unificazione d'Italia: fu vera gloria?

di Franco Cardini - 27/08/2009

 


La questione dell’unità d’Italia e di come il processo di unificazione nazionale venne condotto non può astrarre da due preliminari precisazioni. Primo: nella storia non c’è nulla di “necessario”, nulla di “determinato” , nulla che accade perché “era scritto”; e non esiste alcuna relazione tra ciò che si verifica e ciò che sarebbe giusto o ingiusto si verificasse. Secondo: una volta che qualcosa è divenuto realtà, è del tutto ozioso – storicamente parlando – discettare se sarebbe stato o no meglio che le cose fossero andate altrimenti. L’Italia unita è una realtà obiettiva da un secolo e mezzo. Avrebbe potuto non unirsi o unirsi secondo altri parametri e attraverso vicende diverse: le possibilità alternative erano molte, e a seconda delle proprie convinzioni politiche o religiose è del tutto legittimo ipotizzare che sarebbe stato meglio. Ma ciò resta un’ipotesi obiettivamente inverificabile.

La storia si fa anche al condizionale, con i “se” e con i “ma”: perchè solo ponendosi correttamente le domande relative a quel che avrebbe potuto accedere se le cose fossero andate diversamente dalla realtà si comprende a fondo il valore di quel che davvero è accaduto. Ma il discorso storico deve attenersi rigorosamente all’accaduto autentico e sforzarsi di recuperarlo in tutti i suoi aspetti pur sapendo che ciò è impossibile. Per questo la storia perfetta sta soltanto nel futuro, ma il costruirla sul serio è pura utopia: del passato sapremo sempre di più (ma potremo anche dimenticarlo…): eppure, quel “di piu” non basterà mai.

Ecco perché il racconto storico muta di continuo, anche se e quando i suoi ingredienti restano in apparenza gli stessi. Un secolo e mezzo fa, alla vigilia dell’unità d’Italia, si scrivevano opere sulla Lega lombarda del XII secolo nelle quali i fatti narrati erano ricostruiti quasi esattamente come ancor oggi vengono proposti, e i documenti relativi erano per la stragrande maggioranza già conosciuti e perfino editi: eppure, per lo studioso odierno un saggio di centocinquant’anni fa su questo o su qualunque altro argomento resta quasi illeggibile, e pressoché inutile almeno che non si stia lavorabndo sul piano della storia della storiografia. La storia è un continuo work in progress: non perché cambi quel che è accaduto nel passato, ma perchè mutano le nostre conoscenze e mutiamo noi. Pe tale ragione le polemiche contro il cosiddetto “revisionismo”, prima che errate e inutili e ridicole, sono sbagliate: la storia è per sua natura revisione dei giudizi storici precedenti, altrimenti non è nulla. La storia non assolve, non glorifica, non condanna: queste porcheriole sono solo frutto dell’ “uso (politico, o meglio demagogico) della storia”, non della storia. Essa non è un tribunale: suo ufficio è solo il comprendere, non nel senso del giustificare, ma in quello del capire “dal di dentro” e in profondo.

Le polemiche sull’unificazione dell’Italia sono inutili, in quanto l’Italia è stata di fatto unificata. Avrebbe ben potuto non esserlo: e, quando lo è stato, ciò è avvenuto grazie al concorso di precisi presupposti e di non meno precise volontà individuali e comunitarie. Quando il principe di Metternich, al concilio di Vienna, proclamava che “l’Italia è un’espressione geografica”, aveva pienamente ragione: la “provincia” augustea d’Italia aveva un puro valore amministrativo-circoscrizionale e tanto il “regno d’Italia” d’origine carolingia annesso fin dal X secolo all’impero romano-germanico quanto quello fondato nel 1805 per volontà di Napoleone non corrispondevano né all’interezza della penisola italica, né ad alcuna “nazione italiana” fin lì esistente. La stessa lingua italiana non era ancora del tutto codificata e in realtà nessuno la parlava né la scriveva. La sostanza storica dell’Italia è profondamente policentrica, cioè regionale e municipale. Se la penisola avesse dovuto venir unificata coerentemente con la sua storia, ciò avrebbe dovuto avvenire rispettando la storia e i confini degli stati preesistenti: come accadde per la Germania nel 1870. Una soluzione federalista, con una presidenza papale oppure concordata tra Piemonte, Toscana e regno delle Due Sicilie.

Questa era, fra l’altro, la proposta vincente del 1848: sia Gioberti, sia Cattaneo auspicavano in modi e forme differenti una soluzione del genere. Tra ’48 e ’59, tale soluzione sarebbe stata possibile: Austria e Inghilterra – interessate l’una al nord-est italico e all’Adriatico, l’altra alla Sicilia e ai suoi porti - erano pronte ad appoggiarla, con proposte che sarebbero state tra l’altro molto moderne ed avrebbero consentito di far giganteschi passi in avanti anche alla futura unione europea. E, chissà, perfino evitare l’insorgere del duello franco-tedesco nel continente e di quello anglo-tedesco sul mare, le due fondamentali ragioni (insieme con l’aspirazione russa a egemonizzare i Balcani e a raggiungere il Mediterraneo) della prima guerra mondiale.

Ebbe la meglio invece una formula unitaria e centralistica, d’origine giacobina (ripresa da mazziniani e garibaldini) e cara solo a pochi dottrinari utopisti, qualcuno fanatico terrorista: ma tale formula consentiva a una potenza militare egemone, il regno di Sardegna-Piemonte, di annettersi la penisola. Ciò avvenne grazie all’assurda, quasi surreale convergenza tra la reazionaria e militarista monarchia piemontese - che si era arricchita e consolidata adottando una spregiudicata forma di liberal-liberismo e soprattutto espropriando negli Anni Cinquanta dell’Ottocento la Chiesa delle sue prerogative e dei suoi beni – e le forze “democratiche” e “rivoluzionarie” neogiacobine che accettarono di anteporre la causa dell’unità a quella del regime istituzionale del nuovo stato. A livello internazionale, il processo unitario venne promosso e tutelato fino al 1860 dalla Francia di Napoleone III, che aspirava all’egemonia mediterranea per svilupparvi i suoi sogni colonialistici (il progetto del Canale di Suez avrebbe portato la penisola italica a divenire il “molo mediterraneo” del traffico navale internazionale tra Atlantico e Oceano Indiano); ma la sconfitta dell’imperatore dei francesi a Sedan spinse il giovane regno ad appoggiarsi immediatamente al nuovo vincitore, l’impero germanico egemonizzato dalla luterana Prussia, il che tra l’altro rese più facile il completamente dell’unità con la presa di Roma, da mazziniani e garibaldini giudicata indispensabile (dopo la balla risorgimentale delle “libertà” italiane figlie del medioevo comunale, ecco la ballissima dell’Italia “figlia di Roma” e cinta dall’elmo di Scipio).

Napoleone III, condizionato dall’opinione pubblica cattolica del suo paese, non avrebbe mai consentito alla cancellazione dello Stato della Chiesa. Le date sono eloquenti: il 1° settembre l’esercito francese fu battuto a Sedan; il 20 successivo le truppe italiane entravano a Roma. Questo si chiama sul serio – come direbbero gli inglesi – essere dei perfetti bandwagoners.

Anche il resto è storia nota. Dopo la lunga serie di atti di terrorismo, di colpi di mano e di raids banditeschi che avevano caratterizzato la “liberazione” degli stati preunitari dai “tiranni” e la loro spontanea e plebiscitaria adesione al regno di Piemonte divenuto regno d’Italia, ecco la normalizzazione repressiva e spietata: la lotta al “brigantaggio”, gli efferati assassinii come quello di Bronte, l’espropriazione delle ricchezze dell’Italia meridionale per trarne capitali e forza-lavoro indispensabili al progresso industriale del nord, la nascita di una “questione meridionale” la responsabilità della quale si è poi cercato di addossare ai Borboni o ancora prima agli spagnoli, agli angioni, agli stessi Svevi (fino ad oggi non si è ancora trovato il coraggio di incolparne i normanni, i greci o gli arabi: ma non si sa mai…). Ci sarebbe voluta una seria riforma agraria: si preferì tollerare e perfino incoraggiare il doloroso fenomeno dell’emigrazione, pur di favorire i padroni vecchi e nuovi; gli stessi per tutelare i quali si permetteva al tristo Bava Beccaris di sparare con i cannoni ad alzo zero sugli operai.
Sappiamo dove ci ha condotto tutto cio: alla prima guerra mondiale, al fascismo, all’irrisolta “questione meridionale”, alla corruzione che ha distrutto la Prima Repubblica. Non c’è da vantarsene. Ma è la nostra storia, quella dell’Italia divenuta nazione, quella di due guerre mondiali, del fallito tentativo di assurgere a potenza europea ma anche dell’affermazione di gloriose realizzazioni civili, sociali, giuridiche, scientifiche, tecnologiche, artistiche, culturali. L’Italia del Bel Canto, della “rivoluzione culturale” futurista, delle lettere e delle arti, dell’invenzione dell’industria turistica, del progresso segnato da nomi come quelli di Marconi e di Fermi, della moda, di una delle più prestigiose espressioni cinematografiche del mondo, degli “italiani fuori d’Italia” che hanno saputo diventar pilastro portante di grandi paesi come gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Australia. Possiamo buttar a mare questa preziosa, altissima eredità?

Certamente no. Ma convincerci che essa è il risultato della nostra storia millenaria ch’è storia di regioni e di città, non già di un’antica “nazione” unitaria esistita solo in un triste mito politico, questo possiamo farlo. E alla luce di tale convinzione è legittimo, anzi sacrosanto, “rivedere” il Risorgimento. E magari perfino smetterla di chiamare il processo d’unità nazionale, con le sue luci e le sue molte ombre, con quel ridicolo, pomposo nome. Tra 1815 e 1918 non “risorse” proprio un bel niente. Si affermò, tra molte ambiguità e con parecchie brutte pagine, una nuova realtà istituzionale alla quale da più parti e con vari esiti si cercòo di attribuire una storia unitaria, proponendo “radici” e “identità” tutte parziali, tutte discutibili. Aveva ragione il vecchio Gramsci: la sostanza dell’Italia è locale e dialettale; se c’è una forza unificante delle sue tradizioni profonde essa è da ricercarsi nella Chiesa cattolica, nella sua disciplina territoriale e nei suoi riti. Non a caso, la scristianizzazione del paese ha ucciso irreparabilmente anche la sua cultura folklorica (anzi, le sue culture folkloriche).

E allora, ha ragione la Lega? Senza aver “ragione”, essa avrebbe certamente molte “ragioni”. Ma, per approfondirle e fortificarle, dovrebbe liberarsi dal suo demagogismo bécero: dovrebbe piantarla con campanilismo e xenofobia e affrontare sul serio una rilettura storica della penisola italica come terra di successive stratificazioni etnoculturali, di centinaia di regioni storiche e di migliaia di città. Una penisola nella quale l’esser lombardo, o toscano, o siciliano (e magari milanese, o fiorentino, o palermitano) e sul serio piu importante di essere “italiano”; e nella quale d’altronde, in tempi di più ampie aggregazioni, esser tale ha un senso soltanto nella misura in cui si riesce a comporre l’italianità con l’europeicità e la mediterraneità.