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Una pagina al giorno: Libertà e responsabilità dell'uomo, di P. Margreth

di Francesco Lamendola - 31/08/2009


Di monsignor Pasquale Margreth, importante figura della vita culturale e spirituale friulana, scomparso ormai da non pochi anni, le nuove generazioni non sanno praticamente nulla, nemmeno in ambito locale, per non parlare al di fuori della sua regione: tipico esempio di quella facilità nel dimenticare con cui la società odierna, basata sulla fretta, sul consumo e sull'ingratitudine, tende a rimuovere il passato e a sbarazzarsi dei ricordi.
Rimangono, è vero, una via cittadina a lui dedicata ed anche un'aula della Facoltà di Scienza dell'educazione presso l'Università di Udine: ma che cosa vogliono dire una targa stradale e una targhetta sulla porta di un'aula universitaria, se i passanti e gli studenti non sanno nulla d quella persona, delle sue idee, del suo lavoro, e, soprattutto, delle ragioni per le quali dovremmo essere grati al suo ricordo?
Pasquale Margreth, Preside dell'Istituto Magistrale Arcivescovile di Udine, è stato un importante animatore della vita sociale e culturale cattolica di quella città, fra gli anni della prima guerra mondiale (fu sfollato a Firenze dopo la rotta di Caporetto, nel 1917, ma, anche da lì, continuò ad occuparsi dell'associazionismo cattolico friulano) e quelli successivi ala seconda, con le distruzioni del 1943-45 e la lenta, faticosa ricostruzione materiale e spirituale: un arco di tempo considerevole, tanto più che quei tre o quattro decenni hanno assistito a delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, pari a quelle di due o tre secoli, se rapportate al metro degli anni precedenti i due cataclismi che hanno sconvolto il Novecento.
Anche in Friuli, come nel resto d'Italia, quei decenni hanno visto il passaggio dalla pre-modernità alla modernità (e, poco dopo, alla post-modernità); da una struttura agricola, patriarcale, religiosa, ad una industriale e post-industriale, laica, basata sulla famiglia mononucleare e sulle nuove mode del consumo: in breve, quella trasformazione che è stata così acutamente descritta da un figlio illustre della terra friulana, Pier Paolo Pasolini, e da lui raccontata magistralmente - più che nei film, a volte discutibili, e nei libri, troppo scopertamente «a tesi» - nei suoi straordinari articoli di costume e di critica sociale, per il «Corriere della Sera».
Dal punto di vista di un uomo di Chiesa, o anche soltanto - meglio ancora - di un uomo di fede, sono stati decenni cruciali, decisivi: decisivi per la perdita dell'anima di un intero popolo; per la secolarizzazione brutale, basata non già su valori alternativi a quelli religiosi (come si era verificato, con il liberalismo, e poi con il socialismo, all'epoca del Risorgimento e subito dopo il compimento dell'unità d'Italia), ma su dei non valori, su dei disvalori puri e semplici, quali la corsa all'arricchimento, il disprezzo delle regole di convivenza civile, la ricerca ossessiva e irresponsabile del proprio piacere, il rifiuto di qualunque norma e dello stesso sentimento del dovere: processo culminato nel famigerato slogan «proibito proibire» di sessantottesca memoria.
Ecco perché abbiamo pensato di riproporre una pagina di Pasquale Margreth per una riflessione su quei valori morali, sui quali era fondata la società fino a quaranta-cinquant'anni fa; valori dai quali si può, ovviamente, dissentire, ma la cui solidità bisogna riconoscere, così come il loro radicamento nelle coscienze.
Allora, il mondo degli adulti, e specialmente degli educatori (primi educatori in assoluto: i genitori all'interno delle famiglie), avevano la chiarezza di dire ai giovani: «Questo è lecito», oppure «Questo non è lecito»; avevano, cioè - e scusate se è poco - il coraggio di parlare apertamente, e di parlare costantemente, del bene e del male (cfr. il nostro precedente articolo «Parliamo ai giovani di mille cose superflue ma non parliamo più loro del Bene e del Male», inserito sul sito di Arianna Editrice in data 15/10/2008).
Proponiamo pertanto questo brano tratto dal corso di religione «Pastor bonus», basato sul concetto della responsabilità morale individuale, un valore oggi particolarmente in declino, visto che si tende a parlare sempre meno di responsabilità e, semmai, ad addossarne l'onere alla società in astratto, e raramente al singolo individuo.
Come è ovvio, non si tratta di una pagina di letteratura; ma nella serie di articoli «Una pagina al giorno» non abbiamo mai inteso disegnare, tassello dopo tassello, una specie di mosaico della letteratura italiana; quanto, piuttosto, proporre all'attenzione del lettore tutte quelle pagine di autori italiani (narratori, poeti, saggisti, naturalisti, filosofi, teologi), preferibilmente poco noti o, ingiustamente, un po' dimenticati, che si prestano a sviluppare una riflessione su temi di interesse generale o che si segnalano, comunque, vuoi per i pregi intrinseci della scrittura, vuoi - come in questo caso - per la chiarezza concettuale e per lo spunto che possono fornire ad un approfondimento critico e personale delle più svariate problematiche.

Dal libro di Pasquale Margreth «Pastor bonus» (Del Bianco Editore, Udine, 1958, 1964, vol. 4, pp. 17-26):

«Vi sono nell'uomo atti comuni con gli animali, ma ve ne sono altri propri di lui, in quanto è creatura ragionevole e libera, che procedono cioè deliberatamente dalla volontà.
Noi respiriamo, digeriamo, ciò che abbiamo mangiato. Sono azioni che molte volte si compiono senza che da noi vengano nemmeno avvertite; altre volte le avvertiamo, ma non le possiamo omettere od arrestare.
La morale si interessa solo degli atti umani, di quelli cioè che si compiono con il concorso dell'intelligenza e della libera volontà.
Talvolta l'uomo può compiere un'azione senza che intervenga la sua ragione: un pazzo nel momento del furore si avventa contro un'altra persona e l'uccide. Egli non sa ciò che compie: il suo atto non è un atto umano.
Una persona che viene costretta con la violenza a firmare un documento contrario alla giustizia, mentre cerca in tutti i modi di resistere, non compie un atto umano perché non lo compie con l'esercizio della sua volontà.
La caratteristica dell'atto umano compiuto da un individuo normale è quello di essere libero: da questa libertà deriva come conseguenza la responsabilità.
Ho detto "normale": non è infatti normale l'atto di un pazzo, di un sonnambulo, di un ipnotizzato; nemmeno di chi sia vittima di una passione così violenta da togliergli la ragione o di chi, in preda all'ubriachezza, abbia perduto il controllo delle sue azioni.
Ci è pertanto necessario indagare se e quando un individuo sia responsabile delle sue azioni: ma questa indagine ci conduce ad esaminare prima il problema della libertà dell'uomo.
Dice Dante (Par., V, 19-22) che la libertà è il maggior dono che Iddio diede all'uomo nella creazione: essa infatti, congiunta all'intelligenza, ci pone in condizione del tutto diversa da quella degli animali e fa risplendere maggiormente in noi l'immagine e la somiglianza di Dio.
È necessario precisare i termini.
L'uomo può essere costretto da violenza esterna ad agire in un determinato modo, ma non agisce in un modo in un altro perché sia costretto da una intrinseca necessità; in questa indipendenza consiste la libertà del volere o libero arbitrio.
Questa libertà fu negata principalmente dai fatalisti e dai deterministi. I fatalisti negano la libertà in nome di un principio superiore: così i Greci antichi supponevano che una divinità cieca e inesorabile chiamata "Fato" o "destino", regolasse tutti gli eventi umani; i Protestanti (Lutero, Calvino) sopravvalutando e svisando l'opera di Dio, opposero alla dottrina della libertà la tesi del servo arbitrio.
I deterministi, basando le loro conclusioni su principi positivisti e materialisti suppongono che tutti i nostri atti siano condannati da molteplici cause o meccaniche o fisiologiche (come il clima, il temperamento, l'eredità ecc.).
Queste dottrine, con aspetto scientifico, furono poi estese al campo morale e giuridico e, alla fine del secolo passato e al principio di questo secolo [ossia il XX, nota bene] sfociarono, soprattutto per opera di Cesare Lombroso, nella teoria del delinquente nato. Si sostenne che l'uomo nasce  con un organismo già predisposto al bene o al male, tantochè un esame anatomico accurato dovrebbe dirci con sicurezza, prima che veniamo a saperlo da altri argomenti o testimonianze, se ci troviamo di fronte a un galantuomo o a un furfante.
Vi fu un tempo, al principio di questo secolo, in cui molti giudici, sotto l'influenza delle dottrine positivistiche e deterministiche, assolvevano con molta facilità imputati di gravi delitti, ritenendoli irresponsabili in causa di difetti organici.
Ben diversa è la dottrina cattolica. Essa riconosce che molte circostanze fisiologiche, morali o ambientali, influiscono nell'attenuare le responsabilità; ma il variare appunto del grado di responsabilità suppone l'esistenza, nei casi comuni e normali, del libero arbitrio; vari fattori limitano l'esercizio di questa libertà o l'attenuano, ma di solito, non lo tolgono.
Ad evitare equivoci è pur necessario chiarire il concetto (a cui sopra si è accennato) della distinzione tra libertà fisica e libertà morale; gli animali non possiedono né l'una né l'altra, mentre l'uomo è dotato di libertà fisica, ma non della morale.
Ci si può servire di qualche esempio. L'animale si trova d fronte a un cibo che lo aletta: non può far a meno di mangiare: ne farebbe a meno solo qualora una forza esterna più potente, ad esempio una persona che minaccia di percuoterlo, lo costringesse ad astenersi dal cibo.
L'uomo, di fronte a cibo che solletica la gola, può vincere il suo desiderio, il suo appetito, astenersi dal magiare: ecco la libertà fisica.
Un altro uomo si trova nell'occasione e nella possibilità di rubare, senza timore di essere scoperto. Lo alletta il desiderio d'impossessarsi della somma di denaro che gli può essere utile, ma di fronte a questo desiderio sente l'impero di una legge morale che glielo vieta; egli si sente libero fisicamente di determinarsi all'una o all'altra cosa, senza essere trascinato da una forza irresistibile: vede cioè che può rubare (perché ne ha l'occasione)¸ sente dall'altra parte l'impero di una legge morale che glielo vieta, e si determina all'una o all'altra cosa non perché sia trascinato irresistibilmente, necessariamente ad essa, ma per la sua libera elezione.
Che l'uomo sia libero ce lo dice chiaramente la sacra Scrittura, quando ci parla del premio che verrà dato all'uomo giusto "qui potuit transgredi et non est transgressus, facere mala et non fecit: ideo stabilita sunt bona illius in Domino": Avrebbe potuto anche lui fare il male e non lo fece, trasgredire la legge e non la trasgredì; perciò sono assicurati i suoi beni nel Signore" (Ecce., 31, 10).
Anche il Divin Maestro, nei suoi insegnamenti, pur facendo comprendere la necessità della grazia per la vita soprannaturale, insiste sempre sul dovere dell'individuo d corrispondere con la sua volontà alla grazia divina, il che presuppone l'esercizio della libertà. "Se vuoi entrare nella vita eterna… Se vuoi essere perfetto… Se uno vuol venire dietro di me…".
Che l'uomo sia dotato di libertà fisica, è dunque una verità di fede.
D'altra parte noi stessi siamo i primi testimoni di questa libertà che abbiamo in noi: noi ci sentiamo e sappiamo d essere liberi: prima di prendere una decisione sappiamo che possiamo agire o non agire, scegliendo questo o quello: durante le stesse azioni sentiamo che potremmo sospenderle o continuarle; dopo l'azione compiuta sentiamo di essere stati noi a volerla.
L'alunno svogliato sente che, se volesse, potrebbe studiare, che non c'è una forza irresistibile che lo trascini in un luogo piuttosto che in un altro; si sceglie da solo la meta secondo che più gli aggrada.
C'è una terza prova […], il consenso unanime dei popoli.
Ovunque e in tutti i tempi si sono stabilite pene per i colpevoli: spesso anche si sono aggiunti premi per i virtuosi, gli eroi.
Perché condannare uno a pene, alla prigione, alla morte se l'azione non gli fosse imputabile? E come potrebbe dirsi imputabile se egli non fosse stato libero di compierla, se fosse stato trascinato da una forza cieca, ineluttabile, alla quale non avesse potuto resistere?
L'animale feroce viene talvolta ucciso per impedire che abbia ancora a nuocere, ma non per punizione. Per l'uomo invece s discute anche sul grado di responsabilità e cioè di libertà, assegnandogli una pena maggiore o minore non solo in relazione alla gravità del delitto, ma anche in relazione alle circostanze che aggravano o diminuiscono l'imputabilità: segno evidente che si riconosce il fondamento della sua libertà di agire, se così non fosse, la pena sarebbe un'ingiustizia da parte della società.
Dal fatto che l'uomo è libero, sgorga come conseguenza la responsabilità delle sue azioni.
Non tutte però gli sono imputabili: due facoltà concorrono a far sì che un atto umano sia imputabile:  l'intelligenza e la volontà: bisogna conoscere l'atto che si compie: bisogna volerlo compiere; se manca anche una sola di queste condizioni, l'atto non è più imputabile; noi non siamo responsabili.
La ragione prende conoscenza dell'oggetto; dichiara se è buono, cattivo, indifferente; giudica, in altre parole, il valore dell'atto morale che deve compiere.
Quando l'intelligenza ha percepito la moralità dell'atto, interviene la volontà che si determina liberamente a scegliere la via che crede.
È evidente che un pazzo non è in grado di valutare la moralità di un atto e perciò cessa la sua responsabilità: è ancora evidente che se un individuo con la mente perfettamente serena ha giudicato intorno alla moralità di un atto, ma viene costretto dalla violenza, contro la sua volontà, ad agore in un determinato modo, non è responsabile; l'atto non gli è imputabile.
Siamo pertanto indotti a indagare quali siano le circostanze per cui viene tolta o almeno attenuata l'imputabilità di un atto umano.
Vi sono delle cause che influiscono sull'intelligenza, altre sulla volontà.
Incoscienza: viene tolta del tutto la libertà e quindi la responsabilità nei pazzi, nei sonnambuli, in chi dorme, in chi delira.
Si debbono pure considerare come atti involontari, e perciò non imputabili gli atti spontanei ed istintivi compiuti prima che intervengano la ragione e la volontà; così può scappare a uno dalle labbra una parola offensiva, come reazione ad altra offesa, prima di riflettere a ciò che si dice.
Ignoranza: chi, senza sua colpa, ignora la legge, evidentemente non è obbligato ad osservarla: la trasgressione è involontaria e quindi non è imputabile a colpa.
L'autorità civile non ammette, di solito, come scusa efficiente, l'ignoranza della legge, ed è naturale, poiché il giudice non può pronunciarsi sulle intenzioni e deve basarsi soli sui fatti esterni, secondo l'antico effato: "De internis non judicat Praetor".
Ma la giustizia divina esamina anche gli atti interni e quindi non chiede conto all'uomo di azioni commesse per involontaria ignoranza della legge.
Però, parlando di volontà religiose, di precetti divini ed ecclesiastici, bisogna tener presente che molti sono ignoranti per propria colpa, per negligenza e cattiva volontà; vi sono delle persone che desiderano restare nell'ignoranza dei precetti per poter peccare più liberamente.
Quest'ignoranza non toglie l'atto volontario; qualche volta lo potrà attenuare; però se l'ignoranza è desiderata e voluta per poter essere più liberi di peccare, l'imputabilità anziché diminuire, s'accresce. I moralisti chiamano ignoranza vincibile quella da cui si può uscire facilmente, invincibile quella da cui, anche con tutto il buon volere, in quel determinato momento, in quella circostanza non si può uscire.
Chi trasgredisce una legge per ignoranza invincibile, non pecca; ma chi la trasgredisce per ignoranza vincibile, perché non si cura di appurare la verità, pecca più o meno gravemente a seconda delle circostanze.
Il timore: maggior difficoltà s'incontra a stabilire se il timore tolga l'atto volontario e quindi la responsabilità e l'imputabilità delle nostre azioni.
Un fenomeno esterno spaventoso può turbare la mente a tal segno che una persona non sappia  più ciò che fa. Si suol dire "con la paura non si ragiona".
Se sotto l'incubo di un pericolo esterno gravissimo, faccio un voto e un voto d'importanza massima, passato il pericolo, riflettendo su ciò che ho compiuto, posso anche trovare che in quel momento non sapevo quel che mi facessi e ottenere perciò di non essere obbligato a mantenere quel voto.
Ma non è sempre così.
È ben diversa l'imputabilità quando il timore non proviene da una causa esterna, ma da causa intrinseca.
Se durante una grave malattia, nel timore della morte, uno fa un voto con l'intenzione di mantenerlo nel caso che ottenga la guarigione, non può poi appellarsi al grave timore che egli aveva della morte, per dire che il suo atto non era volontario ed era perciò nullo.
Ma si può chiedere con maggiore insistenza: "Chi compie un'azione cattiva sotto l'impulso del timore pecca oppure è esente da colpa?".
È necessaria una distinzione chiara e precisa.
Se l'azione è intrinsecamente cattiva, io non la posso mai compiere; non posso rinnegare lamia fede perché temo di essere sottoposto ad una persecuzione: i martiri sono andati incontro alla morte piuttosto che rinnegare la Fede e tradire la propria coscienza.
Se invece l'azione non è intrinsecamente cattiva ma la sua illiceità deriva soltanto dal fatto di una proibizione positiva ecclesiastica, un timore grave esime da colpa.
Il precetto di ascoltare la S. Messa nei giorni di festa è un precetto ecclesiastico grave. Se un operaio però temesse, con l'osservanza di questo precetto, di perdere il posti di lavoro che gli è necessario per il suo mantenimento, sarebbe scusato dalla colpa, perché la Chiesa non obbliga con grave incomodo.
Ciò che si è detto del timore, può dorsi ancor meglio della violenza: se questa è così forte che io non riesca a reagire, e mi oppongo quanto posso e debbo con la mia volontà, l'atto che io compio non è volontario e perciò non mi è imputabile.
Un dissoluto può strappare con la violenza l'onore ad una donna: se questa non riesce a sottrarsi alla violenza non commette peccato alcuno purché internamente non consenta.
Vi è chi ritiene che la forza delle passioni, detta anche concupiscenza, tolga l'atto volontario.
Se così fosse, non vi sarebbe colpa alcuna sulla terra, perché ogni uomo che pecca è spinto da una passione dell'animo o dalla ribellione del corpo contro lo spirito.
A ciò ha risposto Sant'Agostino e la Chiesa ha ripetuto le sue parole: "Deus non jubet impossibilia: Dio non comanda l'impossibile". Se Dio ci ha dato una legge, sa che la possiamo rispettare, o, almeno, ci elargisce la sua grazia per aiutarci a compiere ciò che non possiamo con le nostre forze.
Può essere che la passione sia più violenta in un individuo e meno in un altro e perciò anche la imputabilità potrà essere minore nel primo e maggiore nel secondo: la passione potrà perciò attenuare, ma non togliere l'atto volontario; lo toglierebbe solo se accecasse completamente la ragione; in tal caso, del resto assai raro, resterebbe soppressa anche la libertà e quindi tutta la responsabilità.
Molti si mettono volontariamente nel pericolo e poi si lamentano di non aver potuto superare le tentazioni; altri cominciano a cadere nella colpa e ne fanno un'abitudine e poi, naturalmente, trovano maggior difficoltà a risollevarsi e ne attribuiscono la responsabilità alla violenza della passione.
L'osservanza della legge divina richiede lotta e sacrificio, secondo quanto dice l'Apostolo San Paolo: "Non cornatur nisi qui legitime certaverit. Non sarà coronato se non colui che avrà combattuto secondo le regole" (II Tim., 2, 5).
Possono anche influire sul nostro spirito, e, di conseguenza, accrescere o attenuare la responsabilità, l'educazione ricevuta e l'ambiente in cui viviamo.
Così un fanciullo, cresciuto in famiglia corrotta e bestemmiatrice, dedita ai latrocini, all'inganno, alla disonestà, contrarrà, quasi senza accorgersene, cattive abitudini e sebbene la voce della coscienza gli faccia comprendere, nei principi generali, la gravità di alcune azioni, pure la responsabilità dei suoi atti sarà assai attenuata in paragone a chi ha ricevuto invece un'educazione sana e viva in ambiente in cui sente di continuo la condanna del vizio e lo stimolo ala virtù.
Sull'imputabilità di un atto umano hanno notevole influenza il temperamento e gli stati patologici, come la nevrastenia.
Se, precedentemente, abbiamo condannato il determinismo che attribuisce gli atti umani esclusivamente a fattori materiali, fisiologici, sopprimendo la libertà, dobbiamo ora dire che indiscutibilmente sulla volontà agiscono anche elementi fisici che, se non tolgono, di regola, la piena responsabilità, per lo meno l'attenuano.
Flemma e collera, attività o pigrizia, prudenza o impulsività, costanza e volubilità si considerano come pregi o difetti dell'ordine morale, ma dipendono anche da elementi fisiologici e organici: ciascuno trova un aiuto, una preparazione, una predisposizione ad essere virtuoso o peccatore nel temperamento fisico; pertanto una stessa azione buona o cattiva può essere in uno assai meritoria o assai più riprovevole che in un altro.
Il sistema nervoso, in particolare, è quello che ha la maggiore influenza sulla condotta e sul carattere. In parecchi casi una perturbazione nervosa, senza costituire un'irresistibile spinta al male, attenua di molto la forza della volontà, e, di conseguenza, la responsabilità delle azioni.
Avviene spesso che qualcuno, per i motivi che abbiamo elencato, non sia responsabile delle azioni nel momento in cui le compie; è il caso dell'ubriaco che si trova in uno stato d'incoscienza, di un euforico sotto l'influsso di stupefacenti, di un bestemmiatore, dalla cui bocca escono parole ingiuriose a Dio, come intercalare, senza che egli nemmeno se ne avveda.
Tutti costoro sono esenti da responsabilità? I loro atti non sono ad essi imputabili?
È evidente che non sono imputabili nel momento in cui sono compiti perché manca uno degli elementi indispensabili per costituire l'atto umano; ma hanno un'imputabilità indiretta, remota, che i teologi chiamano "volontario in causa" poiché costoro potevano prevedere le conseguenze che sarebbero derivate dall'intemperanza del bere, dal far uso di stupefacenti, dal contrarre l'abitudine di bestemmiare ecc. e perciò non sono esenti da colpa.»

Pasquale Margreth è autore di ben tre corsi di religione, uno per le scuole medie inferiori e due per le scuole medie superiori, tutti editi negli anni Cinquanta e Sessanta dall'Editore Del Bianco di Udine.
Il primo, intitolato «Christianus sum», è articolato in tre volumi: «Il Credo», «I comandamenti» e «I Sacramenti».
Il secondo, «Veritas et vita», è in cinque volumi: «Le verità fondamentali della fede», «Cristo e l'opera sua», «La morale», «Dio, autore della Grazia», «Dio, Cristo, la Chiesa».
Il terzo, «Pastor bonus», è anch'esso in cinque volumi: «Incontro al Messia», «Il Redentore», «Il dogma cattolico», «La morale cattolica», «La vita della Grazia».
Il brano che abbiamo proposto, tratto dal secondo capitolo del quarto volume del «Pasto bonus», tratta, come si è visto, del problema della responsabilità individuale per le azioni compiute, ovvero, se si preferisce l'espressione, del libero arbitrio. Questione veramente centrale nel quadro dell'etica cristiana, se è vero che principalmente su di essa, dopo una lunga gestazione, si è attuata la scissione fra mondo protestante e mondo cattolico; e, al tempo stesso, questione controversa quant'altre mai, se è vero che sia i protestanti che i cattolici si rifanno essenzialmente ai due medesimi autori, San Paolo e Sant'Agostino, per sostenere il proprio punto di vista.
Sia come sia (non è certo questa la sede per tentare di dirimere la questione), il problema circa la responsabilità degli atti individuali è, in qualsiasi società - da quella dei cacciatori di renne dell'Artico, a quella degli Egizi al tempo dei Faraoni, alla nostra odierna - quello, probabilmente, di maggiore rilevanza per i suoi riflessi sulla vita comunitaria; anche perché da esso dipende tutta l'impostazione del fatto educativo, nonché la filosofia del premio e del castigo.
Si sarà notato come, per Pasquale Margreth - che, del resto, non pretende di parlare a titolo personale, ma soltanto di esporre in maniera chiara e fedele la dottrina cristiana in proposito - non vi sono dubbi circa il fatto che la persona è individualmente responsabile degli atti che compie (a parte casi particolari, che del resto vengono considerati con una certa minuziosità); che la sua responsabilità davanti a Dio è altra cosa di quella davanti alle leggi dello Stato; che è giusto, quindi, parlare di premi e di castighi per le azioni umane; che  è giusto e doveroso sforzarsi di insegnare ai giovani, fin dall'inizio, quale sia la differenza fra Bene e Male; e, in ultima analisi, che il Bene e il Male esistono, e che non è possibile confonderli o svuotarli di significato.
Si tratta di un linguaggio duro, per gli orecchi dei cittadini del terzo millennio, evoluti e postmoderni, e tutti imbevuti della «filosofia del sospetto» di Freud e di qualche altro cattivo maestro del secolo appena trascorso; perché, a sentire i discorsi dei mâitres-á-penser della post-modernità, tutti scaltriti, dialettici, politicamente corretti e, ovviamente, progressisti, viene da pensare che Bene e Male non siano stati altro che il sogno di qualche pazzo teologo medievale, e che l'uomo odierno, libero da pregiudizi e superstizioni, possa benissimo impostare la propria vita senza dedicarvi neppure un pensierino.
Il concetto stesso di peccato, che è la logica conseguenza dell'impostazione personalistica e volontaristica cristiana, viene a cadere nell'ottica della modernità, che, da Kant in poi, non crede più alla metafisica e si fa beffe dei sogni dei «visionari» i quali parlano ancora del Paradiso e dell'Inferno; e, al suo posto, non rimane che il laico concetto di errore.
La differenza non è di pura terminologia, ma di sostanza. Un errore è uno sbaglio della ragione; un peccato, è una disobbedienza alla legge divina.
Nel quadro di riferimento esposto da Pasquale Margreth, la legge divina è stata data agli uomini affinché si regolino nella via che conduce alla salvezza, ossia al ritorno a Dio Padre: non è la Legge ebraica, che giustifica l'uomo davanti a Dio, e nemmeno la Legge dei teologi protestanti, che è fatta per essere violata, in quanto totalmente abolita dall'Amore misericordioso di Dio; ma è la Legge che Dio ha dato agli uomini, creature libere e intelligenti, fatte a sua immagine e somiglianza, affinché imparino a conoscerLo e si rendano degne di ottenere la salvezza, mediante l'esercizio del libero arbitrio.
È chiaro che, nella visione dell'uomo e della società che traspare dalle pagine di monsignor Margreth, vi sono parecchie cose che stridono con la nostra sensibilità di cittadini del terzo millennio; a cominciare da quella premessa antropocentrica, per cui l'uomo soltanto sarebbe stato eletto da Dio a esercitare la propria preminenza sul mondo, quasi che gli animali e le piante, per non parlare degli innumerevoli altri mondi abitati dell'universo, non avessero altro scopo che fare da sfondo alla sua grandezza solitaria.
Così pure, si sarà notato che, nella esposizione di Margreth, sembrerebbe che la cosiddetta responsabilità remota, propria di chi agisce in stato di alterazione dovuta, per esempio, all'alcool od a sostanze stupefacenti, si applichi solo ad atti come l'abbandonarsi alla bestemmia; mentre oggi, nella società del benessere (si fa per dire…), qualsiasi disgraziato in preda ai fumi dell'alcool o agli effetti della droga, se ne va in giro come minimo in automobile, e, in quello stato, è in grado di falciare la vita di parecchie persone in una volta sola.
Ad ogni modo, preghiamo il lettore di non soffermarsi né sugli aspetti teologici, né su quelli pratici, che possono apparire eccessivamente datati, e che sono espressione di una società profondamente diversa dalla attuale, benché siano trascorse, in fondo, appena due generazioni e forse ancora meno; bensì di riflettere sul nucleo centrale di quella visione, confrontandola con quella attuale: o, per dir meglio, con la totale assenza, nella società e nella cultura odierna, di una proposta educativa e morale complessiva, basata sul concetto della responsabilità individuale.
Viviamo in un mondo in cui sembra che nessuno sia più responsabile di niente. Il ragazzo che spegne, per gioco, il mozzicone della sigaretta sul braccio del compagno durante la ricreazione, non ha fatto, in fondo, nulla di così grave, a detta dei suoi genitori che lo difendono davanti al preside (parliamo di cose viste e vissute personalmente). Allo stesso modo - e ci si perdoni l'enormità del salto etico, ma il concetto è sempre quello - il pilota dell'aereo che sganciò la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, bruciando in un inferno di fuoco la vita di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini inermi, non ha fatto altro che eseguire gli ordini.
E potremmo continuare a lungo: il direttore della banca che ha causato la dissoluzione dei risparmi di una intera vita di un anziano pensionato, gettandolo in miseria proprio quando la salute e l'età lo renderebbero più esposto e bisognoso, non è responsabile di nulla, perché gli investimenti che ha fatto col denaro dei risparmiatori sono stati decisi a livello superiore, ed egli non ha fatto che eseguirli, al massimo esprimendo un semplice parere tecnico…
E allora?
E allora, che si sia credenti o che non lo si sia, forse sarebbe proprio il caso di tornare a recuperare il concetto della responsabilità individuale; a insegnarlo ai bambini, fin da piccoli, con l'esempio dei genitori oltre che con le parole («verba volant, exempla trahunt»); e, soprattutto, a recuperare il suo logico presupposto filosofico: la bontà del disegno complessivo in cui è inscritta la nostra vita, e la libertà e la volontarietà dei nostri atti morali.