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Per un ambientalismo umanistico: dal rifiuto alla prospettiva e ritorno

di Marco Palla - 02/09/2009

Fonte: appelloalpopolo

 

Un borghese occidentale medio: urbanizzato e scolarizzato, amante delle arti benché spesso tendente all’apatia; lavoro e famiglia, interessi e frequentazioni le più varie.

Tra le sue aspirazioni – è proprio ora il tempo – una vacanza  in una località di villeggiatura. Mare, montagna, riposo, ma molti scelgono una grande città di cultura, seguendo interessi a lungo coltivati sulle riviste patinate, sulle guide turistiche, sulle segnalazioni degli amici.

Il nostro borghese porta con sé una macchina fotografica, cattura istantanee, coltiva un suo gusto per la composizione dell’immagine che neanche Kurosawa pensava di avere. E i paesaggi urbani sono tra i suoi preferiti. In particolare certe prospettive, certe antiche piazze europee le quali, come prolungamenti ideali di un patetico salotto "buono", gli ricordano il salotto di casa sua, o almeno come lui vorrebbe che fosse.

Al suo ritorno alla vita quotidiana, il nostro borghese sfoglia pigramente le pagine di un quotidiano e trova articoli allarmisti sulle condizioni generali del clima, l’ambiente che cambia, l’uomo che non sa più stare al suo posto in questo pianeta.

Si interroga. Solleva lo sguardo dalle pagine, lo ferma sul muro di cemento che dall’altra parte della strada risponde alle sue finestre, e torna con la mente alla vacanza  appena terminata: a quel soffitto a volta dalla forma così sfuggente, a quel tramonto che appiattisce i volumi delle cupole, a quella linea muraria che traversa la periferia, e che centinaia di anni prima portava l’acqua alle case patrizie o divideva il borgo commerciale dai campi.

 

C’è un nesso tra questi luoghi comuni, articolato in cause e conseguenze non così difficili da isolare. Con tutta evidenza dalla fine del Neolitico in poi non siamo noi a scegliere il nostro posto sul pianeta, ma più innocentemente veniamo alla luce in uno dei tanti agglomerati di traffici e capitali che la mano umana ha provveduto a consolidare, generazione dopo generazione. Ci muoviamo in questi ambienti che chiamiamo "città", li conformiamo alle nostre attitudini, e a lungo andare veniamo ad averli in ammirazione, considerandoli quasi esseri viventi, antichi e per questo testimoni preziosi. E crediamo di comprenderli meglio fotografandone le opere murarie, le fondamenta antiche, i conci angolari.

Col passare dei secoli il muro di conci – sia esso una recinzione un acquedotto o un tumulo – ha mantenuto una sua funzione, la divisione dello spazio, e una sua caratteristica formale, la riconoscibilità; la crescita delle città ha sommerso quel muro con miriadi di altri muri simili al primo; il progresso tecnologico ha poi prodotto muri di cemento – come quello di fronte alle finestre del nostro borghese – le cui caratteristiche statiche e i cui costi di costruzione sono largamente più adatti ai nostri costumi. Salvo poi mostrarsi per simbolo dell’estraneità e dell’ostilità della vita urbanizzata moderna, e spingere frotte di turisti dotati di macchina fotografica a cercare il suo archetipo. Senza chiedersi perché, che cos’è che li spaventa.

I muri moderni proprio come quelli antichi hanno una loro vita, e possono morire quando non compiono più la loro funzione. Allora crollano al suolo, restano sul terreno mentre chi li ha costruiti se ne va.

Un muro di conci, composto per una percentuale molto bassa del lavoro di un muratore e per il resto da elementi naturali presi dall’ambiente circostante, troverà rapidamente la via per essere riassorbito in quello stesso ambiente: un turista dotato di macchina fotografica lo calpesterà senza nemmeno notarlo, tanto esso sarà tornato una cosa sola con l’ambiente.

Diversamente un muro di cemento con tanto d’armatura, prodotto di una colata sagomata attorno a un profilato metallico, troverà una seconda vita, o meglio resterà sospeso sul limitare della prima: giacerà sul suolo in forma di rifiuto per molti anni oppure dovrà essere faticosamente smaltito.

E noi borghesi non potremo evitare di guardarlo, tale sarà la distonia ambientale.

Ora è evidente che tutta l’attrezzatura materiale e la struttura intellettuale su cui si sorregge il nostro mondo borghese e seriale è costruita in cemento, e si allontana ogni giorno che passa dal muro di conci. Il recupero del rifiuto – che dovrebbe quindi coincidere col recupero dell’arte che stava alla base di quella capacità di non produrre rifiuti ma opere di paesaggio – è in verità una spirale di inganni disperata e infinita. Non sappiamo dove ci porterà, è già tanto sapere da dove è partita.

L’archeologia industriale, parte integrante dell’immaginario occidentale più smaliziato, è il contrappasso curioso e melenso di una civiltà che non sa riconoscere i propri errori.

E che non sa guardare in prospettiva.

In un secondo articolo – di prossima pubblicazione – tenterò di raccontare l’avventura della prospettiva in Europa e il lento disfacimento cui è andato incontro, lasciandoci in eredità un vuoto (uno dei tanti) che ancora avvertiamo ma non sappiamo colmare.