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La vera storia del Golem di Praga

di Emilio Michele Fairendelli - 03/09/2009

 

Jakob ben Chajim
(+ Praga, 1619)
discepolo di Rabbi Jehuda Low, il Maharal

Quando l’uomo sarà vicino a creare l’uomo, allora dovrà essere conosciuta la vera storia del Golem di Praga.
Questo mi disse il Maharal.
Sono trascorsi più di quattrocento anni.
E’ oggi, quel giorno.
Io, Jakob ben Chajim, fui assistente di Rabbi Low nelle arti magiche e di Cabala.
Molte volte lo accompagnai al Castello, dall’Imperatore.
Un leone, addomesticato da Rodolfo in persona, stava accucciato in un angolo dell’infinito salone; sempre, i suoi occhi d’oro guardavano il Maharal con devozione.
Anche l’Imperatore amava il mio Rabbi, poiché sentiva che egli tutto sapeva della sua anima inquieta e anelante.
Un giorno il Maharal aveva fatto apparire sul velo bianco di una grande tenda le immagini di una vita passata in cui lui e Rodolfo furono maestro e discepolo.
Sbrigate che fossero questioni sulle condizioni e il destino dei figli d’Israele discutevamo di arte e scienza, stelle e pianeti, di magia, del Nome impronunciabile.
il-golem L’Imperatore era avido di prodigi che però solo a volte Rabbi Low concedeva.
I servi portavano una coppa colma di ghiaccio in rotte scaglie e a una parola del Maharal una trota viva ed azzurra vi boccheggiava.
Rodolfo la contemplava, ne toccava con meraviglia il corpo lucido e bagnato.
Un’altra parola e la trota, prima di poter morire, usciva dal mondo delle forme.
Le richieste di Rodolfo non avevano fine.
Chiedeva nuovi miracoli, avrebbe voluto vedere il volto dei Patriarchi, la figura degli Angeli più luminosi che risplendono ai piedi del Trono, tutto ciò che non si può conoscere se non dal centro solitario della propria anima.
Un giorno chiese a Rabbi Low se avrebbe potuto creare un uomo per atto di magia.
“Quando l’Eterno nominò l’uomo in Bereshit – disse il Maharal – ne creò la possibilità, la possibilità di un luogo degno perché Lui stesso, nelle anime, potesse discendere quaggiù per il segreto disegno.
L’Adamo primordiale non era che una sfera indivisa. Fu dopo la caduta nel tempo e nella pluralità, che gli Angeli vennero incaricati, allontanandosi dalla Luce prima, di provvedere ad ogni formazione.
Vuoi che ti mostri, Rodolfo, come anche nel ventre delle madri siano loro a plasmare il corpo di colui che deve nascere, come tendano nervi e vasi, come passino le loro dita luminose sulle pareti del cuore, sulla gola e sugli occhi ancora chiusi?
L’Eterno ha stabilito ogni cosa prima dell’inizio e per un miracolo di questo genere non occorrerà che chiedere l’assenso degli Angeli formatori.
Sarà necessario il grado più alto dell’arte magica, ma null’altro”.
E l’Imperatore: “ E l’Anima, Rabbi Low? La parte immortale di noi, che dite stare poco sotto il cuore e tre dita dentro il costato dei nostri corpi, l’Anima? Come sarà possibile dotare quel corpo creato per magia di un’Anima, se questa è parte dell’Eterno?”.
“Anche ora, mentre parliamo – rispose il Maharal – ogni istante migliaia di Anime cadono dal cielo dei cieli nel tempo, nella materia e nei corpi che gli Angeli formatori hanno completato per loro.
Esse scelgono un luogo, un destino, così compiendolo e operando per il mondo che verrà.
Tutto permette e vuole che un’Anima possa scegliere anche il destino di quel corpo, figlio di mago e di Angeli e non di uomo e donna e tuttavia formato secondo le leggi che l’Eterno ha stabilito.
Tu vedrai ancora tanti prodigi, Rodolfo, ma non questo.
Dovesse mai accadere ne conoscerai solo una falsa immagine, come data da uno specchio distorto”.
Conoscevo troppo bene Rabbi Low per non sapere che, chiara a lui stesso la possibilità, la giustizia di una tale operazione magica, egli l’avrebbe tentata.
Per l’anno che seguì altri vennero chiamati a reggere la comunità.
Il Maharal viveva assorto negli studi di Cabala.
La sua vita divenne, se possibile, ancora più rigorosa: preghiera, meditazione, i bagni rituali, i digiuni.
Ogni tanto, silenzioso e smagrito, appariva alla comunità per sfatare la diceria che egli fosse morto.
L’Imperatore Rodolfo mi chiamò a corte e volle sapere del Rabbi.
Stava bene?
Era forse impegnato in qualche operazione di alta magia?
Credo intuisse.
Quella primavera il Maharal partì per un lungo periodo, per incontrare sui monti ruteni uno studioso del Nome, che dicevano di età secolare.
Al suo ritorno mi disse di prepararmi ad una settimana di invocazioni e di terminarla con due giorni di digiuno.
Al prossimo giorno di shishi, alla mezzanotte, avrei dovuto raggiungerlo a casa sua indossando la cappa bianca.
Compresi immediatamente.
Al mio entusiasmo di giovane cabalista si accompagnava un sentimento di vaga tristezza, come di chi giunga presso un limite estremo della propria vita e tema così di non poter più immaginarne e costruirne il futuro.
Quel giorno alla mezzanotte, fui dal Rabbi.
Uscimmo, come fantasmi, nella città deserta.
Portavo una torcia.
praga-magicaAttraversammo il ponte di pietra e, dall’altra parte della Vltava, raggiungemmo una delle strette spiagge tra le terre di Kampa.
Da una parte scorreva calmo e forte il fiume, dall’altra, verso la città alta, si alzava una parete di terra e roccia, di tre o forse quattro metri, dove si aprivano anfratti e piccole grotte.
Il Maharal ne scelse una, come una stanza dal pavimento di sabbia fina e dal tetto di pietra, un unico masso aggettante.
Entrò in quello spazio e vi tracciò a terra con la mano una ellisse stretta e lunga, poi si chinò e convocò il fuoco: una fiammella rossoazzurra iniziò ad ardere sulla sabbia, senza consumarsi.
Aldifuori dell’anfratto, in piedi, il Maharal mi disse di spegnere la torcia.
Guardammo, nero nel nero, la grotta: la piccola fiamma vi ardeva fissa, come una stella.
Rabbi Low lanciò la sua invocazione.
Non l’avevo mai udita, urla limpide e potenti, una permutazione del Nome, ma quanto vicina al Suo segreto.
Quando i quattro Angeli giunsero sentimmo un vento leggero, con gli occhi dello spirito li vedemmo, alti e non umani, davanti a noi.
Poi furono nella grotta, intorno all’ellisse tracciata a terra.
Le figure in ginocchio, curvate a contemplare la terra di Adamo, le ali radianti in forma di iperbole rovesciata aldisopra dei loro corpi nascondevano ciò che era al suolo.
Quando gli Angeli scomparvero quel vento sottile cessò: albeggiava.
Entrammo nell’anfratto.
Il corpo di un giovane uomo addormentato stava disteso sulla sabbia.
Guardai il Maharal, il sorriso nel suo volto.
Rabbi Low toccò il petto dell’uomo, che aprì gli occhi.
Il suo corpo era ricoperto da un velo umido, come di rugiada.
Recitammo un Salmo di lode e lo aiutammo a rialzarsi.
Non dimenticherò mai il suo silenzio, il suo sguardo stupito.
Il Maharal lo vestì della sua cappa.
Insieme, sorreggendolo alle spalle, aiutandone il passo incerto – scosso dal fulmine della propria creazione l’uomo si fermava a volte per trarre un respiro più lungo, per esalare un tremito – riattraversammo il ponte e tornammo alle case degli ebrei.
L’indomani Rabbi Low mi fece chiamare verso sera.
Mi comunicò di avere dato all’uomo il nome di David.
Alla comunità lo avrebbe presentato come il figlio di un suo cugino di Chelm, Jehuda Balbierer, che avrebbe vissuto con lui per apprendere come si governa una comunità.
Una piccola bugia per un bene più grande, mi disse il Maharal.
Alle mie domande non rispondeva.
“A che servirà sapere, Jakob?
Che importa da dove viene il suo corpo?
E’ stato ricreato da un luogo dello spazio e del tempo di una vita trascorsa, o il suo passato non è che avvenuto in potenza, per insegnarci che per l’Opera conta solo il qui e l’ora?
Noi abbiamo ora un corpo e la sua Anima, tutto ciò che occorre per amarlo, perché lui ami, e per compiere insieme il lavoro della Redenzione.
La sua memoria inizia in quella grotta lungo la Vltava ma la conoscenza e la struttura del linguaggio sono in lui esattamente come il tempo, sotto queste o quali altre stelle, in cui si formarono i suoi forti muscoli, in cui fu circonciso e si procurò quella cicatrice alla spalla.
Misteri d’Angeli e non di uomini.
Presto lo sentirai parlare”.
Poche settimane dopo udii il primo intervento di David in Sinagoga: una saluto alla comunità, semplice, sensibile.
Il suo modo di parlare, di porgere la frase, ricordava il Maharal; egli gli andava infatti insegnando ogni cosa.
Pensavo sarebbe stato incomprensibile (considera sempre il Suo senso dell’umorismo, avrebbe però detto Rabbi Low) che l’Eterno avesse permesso giungesse a noi uno stupido.
Uomini di Rodolfo visitavano regolarmente il quartiere.
Chiedevano, indagavano.
Un atto magico di tale portata lascia tracce nel mondo sottile e l’Imperatore, con l’aiuto dei suoi negromanti, le aveva certamente riconosciute.
In quei giorni una famiglia di una città lontana aveva chiesto al Maharal di vedere il proprio figlio, Josse, un ragazzo di vent’anni affetto da gigantismo e ritardo mentale.
Rabbi Low aveva ricevuto il ragazzo e fatto sapere alla famiglia che non sarebe stato possibile fare nulla ma che, se lo desideravano, egli avrebbe potuto trattenerlo presso di sé a Praga, assegnandogli qualche lavoro e sperando, negli anni, in qualche miglioramento della sua condizione.
La famiglia, confidando nella vicinanza a un Rabbi di tale valore, accettò.
Josse prese a vivere in una casa del Maharal, insieme a coloro che sbrigavano per lui le faccende materiali.
Era alto quasi due metri ma la sua mente era quella di un bimbo.
Andava soggetto a crisi epilettiche.
Quando a terra si contorceva sbavando i bambini attratti e terrorizzati, ricordando il Salmo 139, gli gridavano da lontano: “Gojilem! Gojilem!”
Rabbi Low lo incaricava a volte di piccole commissioni scrivendo le incombenze, le cose da acquistare su un foglio di carta, che Josse teneva in mano mentre camminava barcollando: da qui nacque la leggenda della pergamena con il Nome.
Un giorno, poco aldifuori del quartiere, Josse massacrò di botte tre gentili che lo avevano deriso.
La gente iniziò così a credere che uno dei suoi compiti fosse quello di proteggerli.
In realtà, ai tempi di Rodolfo, il popolo non viveva pericoli.
Rabbi Low non incoraggiò mai le dicerie su Josse e vide nel tempo, credo sorridendo, che di lui e di nessun’altro si vociferava come “il servo del Maharal, creato per magia, animato dalla pergamena con il Sacro Nome”.
Le visite degli uomini di Rodolfo si fecero più rare, anche l’Imperatore, aiutato dalle convinzioni del popolo, doveva essersi convinto di quella verità.
La mostruosità, l’imperfezione di Josse dovevano essergli parse l’esito naturale di una magia impensabile, del fallimento di Rabbi Low.
Alchimisti e ciarlatani invasero la sua corte e noi non fummo più chiamati al Castello.
Povero Rodolfo, pronto a commuoversi per i prodigi più poveri, incapace di sognare e credere i più alti.
Dopo forse un anno dal suo arrivo Josse morì, di un colpo apoplettico durante una crisi.
La famiglia venne a riprenderlo e fu seppellito a Worms.
Poiché nulla è difficile a sciogliersi come una leggenda, il popolo volle continuare a credere che il Maharal avesso distrutto la propria creatura impazzita.
David visse per diverso tempo con Rabbi Low e sua moglie Perl, che lo trattava come un figlio.
Il Maharal e sua moglie vivevano in un amore assoluto e sono certo che anche lei conoscesse la verità.
Rabbi Low aveva subito chiarito ogni cosa a David circa le sue origini e l’opportunità di tacerle al popolo.
Non seppi mai cosa, esattamente, si dissero.
In fondo, cosa avrebbe potuto turbarlo?
Che differenza vi è mai tra essere nato dalle mani degli Angeli o dal ventre di una donna?
Mutano forse il mistero e l’orizzonte della Redenzione?
Un corpo ed un’Anima è tutto ciò che occorre, diceva il Maharal.
David sposò Rivka bar Rafaeli ed ebbe cinque figli, di cui uno solo non gli sopravvisse.
Confidò a Rivka la sua origine?
Avrà dormito con la mano sul petto del suo uomo immaginando gli Angeli formatori che lo avevano plasmato?
Lui si rifiutò, sempre, di apprendere le arti magiche e, dopo un periodo in cui si occupò dell’amministrazione materiale della comunità scelse la professione di liutaio, la cui arte apprese rapidamente e con amore.
Visse con lo sguardo di un uomo, onesto e puro non meno e non più di altri.
L’unico miracolo della sua vita fu la sua nascita.
Morì all’età di settantotto anni e fu seppellito nel cimitero vecchio di Praga.
La sua lapide è a una decina di passi da quella del suo padre terreno, il grande Maharal, in direzione della sinagoga piccola, al centro dell’ammasso di lastre.
Il suo nome – David ben Jehuda – e il simbolo dei musici sono ancora oggi leggibili chiaramente e là sotto, sotto le pietre divelte e metri di terra sconvolta, là sotto in qualche luogo stanno ancora le ossa che i quattro Angeli formarono una notte in una grotta sulle sponde della Vltava.
Così, questa è la vera storia del Golem di Praga.