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Nietzsche e l’avvenire delle nostre scuole

di Emanuele Liut - 15/09/2009

nietzsche1864_fondo-magazineLa polemica di Friedrich Nietzsche [a lato, in una foto del 1864] contro l’egualitarismo democratico e utilitarista assume contorni  ben delineati - per quanto riguarda il discorso della scuola e in generale dell’”edificio dell’istruzione” - già nel ciclo di conferenze pubbliche Sull’avvenire delle nostre scuole. Se pur già nelle premesse Nietzsche elude esplicitamente dalla sua dissertazione una volontà pratica riformatrice che abbia presa sull’attuale( nello specifico la realtà degli istituti di cultura basileesi), egli finisce per delineare i tratti di quello che è l’edificio della cultura a lui contemporanea, in un quadro temporale che, intuitivamente, finisce per comprendere anche i nostri giorni e oltre - . Le considerazioni taglienti che emergono, esplicitamente quanto sotto forma di metafore e dialoghi narrati, sono infatti estremamente attuali e rappresentano senza peli sulla lingua problemi più che mai concreti - proprio grazie all’in-attualità del metodo nietzschano, che mirando alle essenze e non agli specifici eventi storici, riesce ad aprirsi a un campo temporale molto vasto fino a prefigurare nitidamente la realtà dei nostri giorni o, ancor meglio, un’idea di cultura che si contrappone ad un’altra in un senso a-temporale, assumendo varie connotazioni a seconda dei testi e definibile in diverse, non rigide, dicotomie: all’uomo teoretico e pratico - che ha esclusivamente nel ‘materiale’, per altro intellettualizzato e teoretizzato, la sua ragione d’essere - Nietzsche contrappone il mito dell’Uebermensch, vera e propria tensione ideale di superamento; all’utile è opposto quindi l’inutile’ (”come eravamo inutili”, scrive Nietzsche riferendosi alla sua tarda adolescenza e a un suo caro amico; e mi azzardo a dire che chi non ha mai provato questa sensazione non ha speranze di essere, anche per un po’, un uomo libero…); al giogo della morale l’innocenza del divenire, così come alla modernità si oppone la Tradizione, rappresentata dal valore essenziale della cultura greca, ma altresì da rinnovarsi costantemente nella ri-creazione dei valori.

Le categorie interpretative che Nietzsche utilizza, in questo ciclo di conferenze, per descrivere quello che ai suoi occhi è il triste disgregarsi della cultura sono da un lato “la massima estensione” - ossia la prassi democratica della educazione di massa;  dall’altro, come conseguenza, il ridursi d’importanza della Kultur e la sua sottomissione agli interessi dello Stato e, soprattutto, dell’Economia. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è facile coglierne la disarmante attualità:

«la cultura sarebbe pressappoco da definire come l’abilità con cui ci si mantiene “all’altezza del proprio tempo”, con cui si conoscono tutte le strade che facciano arricchire nel modo più facile, con cui si dominano tutti i mezzi utili al commercio tra uomini e popoli [...] L’esortazione a estendere e diffondere quanto più possibile la cultura”- che abbagliata dall’ombra della plutocrazia -  ha quindi perso i suoi veri obiettivi di formazione, a favore dei “dogmi preferiti dall’economia politica della nostra epoca».

Maggiore cultura significa quindi, nell’ottica utilitarista, la felicità (come diritto e non come conquista) del maggior numero che Nietzsche ritiene invece - non solo una chimera - ma una volontà di annientamento della vita dell’uomo e il blocco della sua evoluzione naturale. Naturalità rappresentata attraverso il problema della gerarchia - tema ridondante e decisivo nell’universo di Nietzsche-, tanto che si afferma che «una restrizione della cultura a poche persone è una legge necessaria della natura, e in genere una verità». E ancora oltre: «il vero segreto della cultura deve ritrovarsi qui, nel fatto cioè che innumerevoli uomini aspirano alla cultura, apparentemente per sé, ma in sostanza per rendere possibili alcuni pochi individui».

I due temi - della massima espansione e della riduzione - vanno quindi a tendersi in un prodotto del quale un termine è la necessaria conseguenza dell’altro. Come per la legge dei gas (immaginando che ciò che chiamiamo “cultura” sia una somma di particelle che la vanno a costituire) aprendo ad uno spazio più largo ciò che prima era considerato dominio di pochi, esclusiva di una saggezza raramente raggiungibile, perde la sua consistenza e l’odore pregnante e vitale che prima la contraddistingueva si spegne nei grandi spazi - ad esempio -  della città moderna, identificata da Nietzsche come il luogo massimo della sovversione, in quanto luogo privilegiato della massa informe e a se stessa uguale.

Per questo motivo «non possiamo certo passare sotto silenzio il fatto che molti presupposti dei nostri metodi moderni di educazione portino in sé il carattere dell’innaturalezza, e che le più fatali debolezze della nostra epoca si connettano proprio a questi metodi innaturali di educazione». In un modo, nella sostanza, molto simile a , non possiamo non notare che qui il problema della paideia si ripresenta allo stesso modo nei termini di un radicalismo aristocratico: in questo caso l’innaturale è la caverna, il naturale il mondo delle idee; come se il mondo fosse, nella sua sostanza, il riflesso dell’anima…

Altro punto decisivo della esposizione nietzschana - per altro assai piacevole nel suo scorrere (non ha la durezza della forma aforistica), è quello di mettere in relazione l’edificio dell’istruzione con la lingua, rilevando nell’istituzione del Liceo proprio questa mancanza. Per esemplificare Nietzsche parla del tema in lingua che anche oggi contraddistingue i nostri licei:

«Al liceo, ognuno viene senz’altro considerato come un essere capace di letteratura, che avrebbe il diritto di possedere opinioni proprie sulle cose e i personaggi più seri, mentre una vera educazione dovrebbe tendere con ogni sforzo proprio a reprimere le ridicole pretese di un’autonomia di giudizio [...]».

Viene qui alla luce innanzitutto il tema dell’onestà intellettuale, la quale è ben lungi dall’essere insegnata nei licei. Questa istituzione, che Nietzsche proprio in quanto critica riconosce come fondamentale - tanto quanto all’oggi insufficiente-, e  luogo dove «vengono inculcati continuamente nelle nuove generazioni tutti i mali del nostro ambiente letterario ed artistico, ossia la tendenza a produrre in modo frettoloso e vanitoso, la smania spregevole di scrivere libri, la completa mancanza di stile, un modo di esprimersi che non è stato affinato [...]»

«Una vera “cultura classica” è qualcosa di così incredibilmente complicato, difficile e raro» e in quest’ottica di apertura dei licei al maggior numero, rende gli stessi «qualcosa di dubbio ed equivoco». Condizione «che fa parte delle caratteristiche della nostra epoca che pretende di possedere la cultura. Si democraticizzano i diritti del genio, per sfuggire al proprio lavoro culturale, e alla propria miseria culturale».

Questi temi sono tra l’altro affrontati, da un’altra prospettiva, anche in Umano troppo umano II; così si legge infatti all’aforisma 320:

«I governi dei grandi Stati hanno in mano due mezzi per tenere il popolo dipendente da sé, in paura e obbedienza:  uno più grossolano, l’esercito, e uno più fine, la scuola”… e ancora: “lo Stato collega tutte quelle centinaia di uffici e di impieghi si sua spettanza all’obbligo di farsi educare e classificare alla scuole statali, se si vuole un giorno entrare per queste porte: onore nella società, pane per sé, possibilità di farsi una famiglia, protezione dall’altro, solidarietà di coloro che hanno ricevuto la stessa educazione [...]».

Riassumendo i punti di cui sopra - per quanto appaiano a prima vista sommari -, viene qui alla luce il concetto di “cultura debole”.

L’uomo utilitario, schiavo di una morale misera e soffocante, ha preso il sopravvento sugli uomini nobili e aristocratici (innanzitutto nell’animo) e attraverso le nuove istituzioni sovversive della educazione di massa, ha messo in atto l’idea egualitarista.

Idea che, correlata alla compassione e alla filosofia della felicità del maggior numero, è il sotteso della società delle masse che contraddistingue il mondo attuale. «Sorge il grande, anzi enorme, pericolo, che a un certo momento la grande massa salti il gradino intermedio e si getti direttamente su questa felicità terrena».  Ennesima profezia del terribile Meister: la vittoria della massa è allo stesso tempo la vittoria della paura, con le derive sicuritarie cui assistiamo oggi a esempio.

Pochezza gestita e fomentata  dalla crescente importanza che la “cultura giornalistica” viene ad assumere nel mondo moderno, e i fantasmi che essa crea. Espressioni di un’era così come il predominio della visione scientifica, e la divisione rigida delle scienze, che intrinsecamente esclude una già stentata “formazione classica”, nei cui presupposti è insita la visione essenziale di millenni di cultura.

Anche alla luce delle altre opere di Nietzsche, che in diversa maniera riaffrontano l’argomento o lo sfiorano - considerando che, nonostante l’antisistematicità rappresentata dalla forma aforistica con la sua continua carica re-interpretativa, come fosse una sorta di dialogo con il lettore che, ben sappiamo, Nietzsche è abito a prendere di petto, com’è nel suo stile anti-compassionevole, ci siano dei punti cardine che legano le apparenti contraddizioni -  non possiamo che leggere quanto di cui sopra con la lente della volontà di potenza.

Sotto la volontà di verità, come è ben esplicitato, tra gli altri, in Aldilà del bene e del male e ne La Genealogia della morale, si nascondono , necessariamente, per Nietzsche, le trame della volontà di potenza.

Da questo punto di vista l’egualitarismo radicale caratteristico dei cristiani, quanto dei socialisti molli, - sebbene si maschera delle più belle intenzioni, rimane comunque un meccanismo di potere che, attraverso la morale, condiziona, e opprime l’uomo che vuole essere libero: “per qualcosa e non da qualcosa”. Cos’è infatti la libertà, se non è sottomessa a un compito ad essa più alto?

A congiungere le caratteristiche di questo tipo d’uomo Nietzsche ci presenta nella Genalogie la figura del prete asceta, che si contraddistingue come simbolo della oppressione morale non solo nell’ambito della chiesa, ma bensì considerando alla stessa stregua di un clero - pur senza tonaca - anche il moderno apparato politico e culturale e scientifico, inestricabilmente funzionanti e interdipendenti.

Nell’ottica totale nietzschana, la critica va quindi a riferirsi non a una particolare figura o istituzione in sé, ma all’atteggiamento moderno, umano troppo umano, nei confronti della cultura e dell’istruzione - così come per l’arte e la politica - auspicandone con ciò un vero, radicale, rinnovamento. E solo attraverso il grande no (aldilà del bene e del male), attraverso il rifiuto, il disgusto radicale verso questa forma di società, una rivoluzione sarà possibile.
Si scansano così gli equivoci delle finte “rivoluzioni culturali” che finiscono per essere per essere mera sovversione, cui già una nuova gabbia - smaltita la bile di un dissenso meramente umorale - l’aspetta sorridente.

 

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