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L’orgoglio (o il dubbio) di essere italiani

di Raffaele Ragni - 17/09/2009

 

 



Lo scontro politico su immigrazione e respingimenti dimostra come la Lega Nord difenda l’identità nazionale meglio dei rimasugli di An confluiti nel Pdl. Chi dice di essere un patriota, dovrebbe avere idee più radicali di chi invece, parlando di popoli italiani al plurale, nega culturalmente l’esistenza stessa della nazione italiana nella sua unità, ma ha il coraggio di assumere posizioni politiche che, per quanto finalizzate alla difesa di un’identità locale, quella padana, risultano funzionali alla difesa di un’identità più vasta, che è quella italiana.
Così la Lega Nord, nonostante abbia una cultura antiunitaria ed un programma liberaldemocratico, agisce da partito nazionalista e rappresenta l’unica proiezione, sullo scenario politico italiano, della reazione identitaria europea iniziata con il lepenismo. Ciò avviene anche per l’incapacità dei cespugli neofascisti di formare un movimento unitario, sebbene una seria cosa nera, dati elettorali alla mano, riuscirebbe facilmente a superare le soglie minime di sbarramento ed avere rappresentanza istituzionale.
Questa peculiarità della destra italiana - dove i localisti, e non i presunti patrioti, finiscono col diventare i più strenui difensori dell’identità nazionale - dovrebbe stimolare una riflessione. Discutere dell’inno nazionale, se sia meglio Verdi o Mameli, è un falso problema, che rivela lo scarso spessore culturale di chi lo solleva e di chi vi partecipa. La questione vitale, per l’esistenza stessa del nostro popolo, non consiste soltanto nel definire la liturgia civile che riesca a rafforzare un sentimento unitario sempre più debole, ma stabilire a priori se esiste ancora, o se sia mai esistita, una nazione italiana. In sostanza, diciamocelo una volta per tutte: siamo o non siamo, tutti noi Italiani, una comunità di sangue e suolo? Che esista una razza italiana, tendenzialmente omogenea sul piano biologico, non lo credevano i patrioti del risorgimento e stentava a dimostrarlo perfino l’antropologia razziale del periodo fascista. Che abitiamo in un’unica bioregione - dalle Alpi a tutta la penisola, isole comprese - è altrettanto discutibile.
L’Italia quindi è un’identità multiforme e recente, un prodotto durevole ma fragile al tempo stesso.
Fu inventata nel secolo XIX, sulla presunzione di unitarietà tra diverse espressioni culturali e politiche del passato, per assecondare le rivendicazioni territoriali di una tra le tante dinastie locali, e gli affari dell’oligarchia economica che la sosteneva, d’intesa con altre oligarchie europee. La produzione avvenne all’interno della massoneria, che all’epoca funzionava, come scrisse Antonio Gramsci, da partito armato della borghesia. Il progetto di classe nacque verosimilmente nei corridoi della Borsa di Parigi, dove venivano collocati, con la prevalente intermediazione dei Rothschild, la maggior parte dei titoli pubblici di tutti gli Stati deficitarii della penisola. Concepita l’unificazione come annessione di territori e popoli diversi a vantaggio di un solo Stato centralista, piuttosto che come confederazione di Stati sovrani, non deve meravigliare che, a guidare il processo, fosse prescelto lo staterello più indebitato verso i Rothschild. La nazione che non s’indebita fa rabbia agli usurai, ma quella che s’indebita, ne ottiene l’appoggio.
A dispetto della retorica risorgimentale, che celebrava la cacciata dello straniero, lo Stato unitario nacque con un debito pubblico di 3.131 milioni di lire nel 1861, che divennero 5.593 nel 1865, poi 8.815 nel 1870 ed infine 12.094 nel 1885, per la gioia degli speculatori. Le cospicue e crescenti emissioni di debiti - soprattutto per finanziare la repressione della resistenza popolare duosicilana e la guerra di annessione del Veneto - ebbero come effetto di sottrarre denaro agli investimenti e richiamarono cospicui capitali stranieri.
Per la consistenza del debito e degli interessi pagati all’estero, l’economia italiana nacque già subordinata al controllo ed alla censura della finanza cosmopolita, nonché gravemente esposta alle oscillazioni dei mercati valutari.
A dispetto del consenso plebiscitario, vantato dalle nuove classi dirigenti, la partecipazione popolare al risorgimento e alla vita politica unitaria fu davvero esigua. In base al censimento del 1861, la popolazione italiana ammontava a 25.016.334 abitanti. Le principali città erano Napoli (429.911) e Palermo (197.244), seguite da Milano (192.182) e Torino (172.614). Circa l’80% della popolazione risultava analfabeta e solo il 2% parlava italiano. Alle prime elezioni politiche unitarie, che si svolsero secondo il sistema censitario previsto dalla legge elettorale piemontese del 1848, gli aventi diritto al voto erano 418.696 (1,9%) e i votanti 239.583 (0,9%). Furono eletti 85 nobili, 28 alti ufficiali, 72 avvocati, 42 professori universitari, 5 medici, 5 tecnici. Nel 1900, dopo varie riforme elettorali, gli aventi diritto al voto divennero il 6,9% della popolazione. Di essi votava solo il 58,3%.
Questa esigua minoranza rappresentava un tessuto sociale stratificato come segue: possidenti, imprenditori, professionisti (1,9%); militari, clero (2,6%); commercianti, impiegati, insegnanti, coltivatori diretti, fittavoli, artigiani (43,3%); operai dell’agricoltura (35,7%); operai dell’industria (10,2%); operai del settore edilizio, dei trasporti, dei servizi (6,4%).
Il risorgimento fu quindi un fenomeno elitario. Il consenso restò circoscritto alle logge che lo avevano pianificato, agli affaristi che ne beneficiarono, agli assoldati che repressero le insorgenze antiunitarie. Fatta l’Italia, in attesa di fare gli Italiani, prevalse il centralismo autoritario funzionale agli interessi stranieri cui obbedivano i Savoia, rispetto alle istanze federaliste e democratiche dei veri patrioti che auspicavano una maggiore partecipazione popolare al processo costituente dell’identità e dello Stato nazionale.
Ne derivò una nazione in itinere, lanciata in una guerra imperialista spacciata come ultima guerra d’indipendenza, ed infine mutilata, non da mancate annessioni territoriali, ma dalle cannonate del governo liberale sparate sui volontari di Fiume nel 1920. Nella terra irredenta, il poeta Gabriele D’Annunzio - insieme ad arditi, letterati, sindacalisti rivoluzionari - celebrò il più grande rito collettivo della storia unitaria, apoteosi e catarsi di un’italianità bella e impossibile, eroica e surreale.
Nella visione mistica del Vate, tutti i fattori della produzione identitaria erano sublimati. La natura - con la bellezza dei monti, dei boschi, del mare, del cielo - veniva eletta dispensatrice di valori sacri e immutabili, contrapposti al fluire tumultuoso del tempo ed alle incertezza sociali. Il popolo, concepito come organismo unitario e compatto, diventava un corpo mistico da governare con virtù e bellezza.
Il suo spirito immortale era codificato come decima corporazione e figurava nella carta costituzionale del Carnaro insieme alle altre forze produttive, unite dal motto “fatica senza fatica”, ripreso dalle corporazioni medievali.
L’estetica del sacrificio individuale, compiuto in nome della patria, esprimeva il senso d’appartenenza ad un comune destino. Il saluto romano evocava l’origine mitica della nazione e attualizzava il retaggio della sua antica grandezza. Dalla fiamma nera, simbolo del fuoco purificatore e della tempra d’acciaio, sarebbe dovuta nascere un’Italia diversa, sanata dalla mutilazione recente e da ogni vecchia ferita. Questa illusione animò l’avventura fiumana. L’ebbrezza di quei sedici mesi fu modello di liturgia civile per l’imminente rivoluzione fascista.
Il fascismo celebrò un’italianità romanizzata, la cui precaria unità, voluta dai padri della patria, sembrò rafforzata dalla mobilitazione permanente e dalla tensione imperialista. La repubblica non ha alterato il paradigma risorgimentale ma, identificando la romanità col fascismo e bollandola come retorica, ha depotenziato l’identità nazionale, lasciandola sopravvivere lacerata e svilita, ed aprendo così numerosi varchi ideologici alla propaganda mondialista.
Oggi l’italianità, come sentimento e significato della nostra specificità storica, è aggredita da culture allogene, diffuse dai media globali e importate dagli immigrati, ed è erosa al suo interno da una malcelata disaffezione che anima le molteplici espressioni del pensiero identitario. L’atavica questione meridionale e la rinata questione settentrionale, insieme al crescente divario territoriale che alimenta entrambe, minano le fondamenta di un edificio instabile, assediato da centri d’interesse cosmopoliti che fanno delle migrazioni, oltre che un’opportunità di profitto, anche l’occasione per distruggere quel che rimane del nostro senso d’appartenenza.
In tale situazione un’autentica rivoluzione identitaria, ammesso che sia possibile, ha due strade percorribili. La prima consiste nell’affossare l’italianità come valore, una volta per tutte, fino a propugnare, non la riforma federalista, ma la distruzione dello Stato unitario. Non limitarsi a proporre un nuovo inno nazionale, ma affermare che fratelli d’Italia non lo siamo mai stati e, se lo fummo un tempo, ora non vogliamo più esserlo. La seconda alternativa, quella auspicabile e percorribile, consiste nel rifondare l’identità nazionale, non con la retorica unitaria ed il patriottismo di facciata, ma con la valorizzazione delle identità locali come fattori produttivi di un’italianità condivisa.
Esiste attualmente un partito che possa compiere questa missione storica? Il neofascismo ha perso forza propulsiva, ammesso che l’abbia mai avuta. La Lega Nord ha tentato varie volte, in circa un ventennio, di assumere una dimensione nazionale - leggasi Lega Italia Federale prima, ed Alleanza Federalista poi - ma è riuscita soltanto a racimolare i resti elettorali utili a far scattare qualche deputato nordista in più.
Occorre quindi un nuovo partito, anzi un movimento: federalista, identitario, socialista.