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Alla ricerca dell’identità dell’uomo tra wilderness e civilizzazione

di Riccardo Ianniciello - 21/09/2009


 

Un aspetto che caratterizza la sua persona è la grande umanità e sensibilità, doti che appartengono ai grandi. Ed è soprattutto in questa naturale nobiltà d’animo che va ricercato il profondo interesse che il Meli nutre per Henry David Thoreau, il quale vedeva nello spirito d’umanità il fine e il principio d’ogni cosa. La tesi di laurea del Meli verterà non a caso su Walden, a dimostrazione della sua passione per Thoreau, maturata nelle aule universitarie e in particolare il giorno in cui egli vide scritta alla lavagna, dal suo professore Mario Corona, la parola Walden. Ci si attenderebbe in lui un atteggiamento altero, rilevabile in tanti uomini di autorevole cultura, mentre veniamo gradevolmente sorpresi dall’essere accolti da genuina disponibilità e cordialità, dall’apertura al confronto costruttivo, amichevole.  Un suo interlocutore ne esce sempre straordinariamente arricchito. Privilegiati e fortunati gli studenti universitari che possono seguire le sue lezioni, cariche di vita e  di umana cultura.
   Francesco Meli professore Associato di Cultura & Letteratura Americana presso l’Università IULM di Milano; Visiting & Fulbright Scholar presso la Columbia University di New York si è mostrato un acuto e sensibile interprete di diversi autori americani, perché in essi ha trovato affinità spirituali e corrispondenze culturali e quei caratteri di autenticità e di originalità legati all’identità dell’uomo che nasceva nel Nuovo Mondo: nell’Eden d’oltre oceano lo scrittore, discostandosi dall’ingombrante e spossata tradizione europea, aveva trovato l’humus più congeniale per rigenerarsi, anche moralmente, e acquisire caratteri propri, nel suo fecondo ma anche traumatico rapporto con la natura  americana. 
  La  nuova letteratura che là nasceva, affondava le radici nella wilderness, la natura primigenia dell’America e recidendo progressivamente, non senza traumi, il cordone ombelicale che la legava al vecchio continente, approdava a un terreno innovativo, a una “letteratura del luogo” che teneva in conto la lingua nativa, la lingua viva, apportatrice di particolari suggestioni e tratti che saranno peculiari dell’identità americana.  Sono i temi ampiamente e sapientemente trattati dal Meli ne La letteratura del luogo (Arcipelago edizioni), in particolare uno, che ha segnato la storia del nuovo mondo, vale a dire l’incontro-scontro tra civiltà e natura, del quale sono intrise le opere di tanti scrittori americani. Per usare le parole dello stesso Meli, “il libro analizza le complessità e le trasformazioni implicite nel dilemma posto dall’antitesi originaria che sta alla base della formazione dell’identità americana, ovvero wilderness/civiltà”. 
  Thoreau è il frutto più nobile che l’America poteva dare, il felice connubio tra la gloriosa ma stanca cultura europea e lo spirito autentico della letteratura sorta dal contatto con la wilderness. Thoreau ha saputo cantare e descrivere la Natura con grande poesia e lirismo, liberandola dagli orpelli della tradizione e trovando in essa i motivi ispiratori del suo credo, ovvero, la filosofia dell’essere. Thoreau, con altri scrittori, tra i quali Melville e più tardi, Steinbeck, Wendell Berry, Gary Snyder, ha raccontato anche l’altra faccia del mito americano, il suo lato oscuro: lo sfruttamento inerente alla logica del progresso, al meccanismo di produzione, l’inarrestabile distruzione della natura, l’alienazione e la solitudine dell’uomo nelle moderne metropoli.
   La passione per la letteratura americana nel Meli, dunque, nasce dalla ricerca dell’identità più genuina dell’uomo, rinvigorita dal nuovo corso, di verità non precostituite che solo l’America poteva offrire e che includono quegli aspetti oscuri che emergono dal rapporto nefasto con la cultura materialistica che proprio nel Nuovo Mondo prepotentemente si affermava. 
   Nel saggio Herman Melville: il minaccioso silenzio della verità, il Meli ci conduce superbamente alla scoperta di uno scrittore che come pochi altri del suo tempo, rappresenterà potentemente e singolarmente le potenzialità e le innovazioni della cultura americana scaturite e plasmate dal contatto con la nuova terra e le profonde lacerazioni e le ansie venute dalla nascente società consumistica.  L’ insondabile Bartleby lo scrivano,  la cui vicenda nasce e si conclude tragicamente all’ombra del tempio del capitalismo di Wall Strett ne è un esempio emblematico.  E, quello spirito vero dell’uomo, incarnato da molti autori americani e ricercato da essi stessi – pensiamo al primitivismo di Thoreau – condurranno il Meli direttamente alla sua espressione più elevata e nobile, ai nativi d’America, rappresentanti di una cultura e di una civiltà altamente progredita e moralmente superiore.
   La letteratura indiano-americana si innesta in quel processo più ampio di riscatto dell’identità culturale di un popolo che ha subito secoli di violenze e di ingiustizie e affermando verità storiche e culturali, ha inteso definitivamente demolire l’immagine deformata e diffamatoria della civiltà indiana creata da certo cinema del dopoguerra. E’ attraverso la letteratura che il popolo indiano continua la tradizione orale degli antichi miti e leggende, ossia perpetua e rinnova quell’universo spirituale che costituisce il suo passato e dunque la sua identità anche nel presente. Un percorso che, iniziato in America, ha trovato terreno fertile nel nostro paese grazie a un gruppo di studiosi quali Franco Meli, Giorgio Mariani, Laura Coltelli, Fedora Giordano.
   Francesco Meli a partire dagli anni Settanta ha introdotto in Italia le voci più significative della contemporanea letteratura nativa americana: N. Scott Momaday,  Lesile M. Silko, Simon Ortiz, J. Welch, L.Henson.
   Fernanda Pivano sul Corriere della sera (27 maggio 1993) dedicherà al Meli un sentito e interessante articolo, facendo un po’ il punto di quel travagliato e difficile percorso che è la storia della rivendicazione e dell’affermazione della cultura indiana, attraverso i suoi scrittori più rappresentativi. Nello studio dei nativi d’America, il Meli sembra prendere le distanze da certa antropologia che tenta di inquadrare rigidamente ogni aspetto della vita degli indiani: perché le molteplici anime dell’universo indiano, così straordinariamente ricche di poesia, di miti e di leggende, non si prestano a fredde analisi e a razionali spiegazioni. In questo senso, la letteratura indiano-americana fornisce la  chiave di lettura più appropriata  e sensibile della civiltà indiana, proprio perché rappresenta il pensiero indiano libero da schemi e formule precostituite, la voce profonda della sua anima. I molti saggi del Meli sulla civiltà degli indiani d’America testimoniano dello sforzo dello studioso di ricostruzione di “un’identità culturale negata da secoli di violenza e di oppressione”, di assegnare agli scrittori nativi americani un posto di assoluta dignità e grandezza nel panorama della letteratura contemporanea:  Canti e narrazioni degli indiani d’America (Guanda, Parma 1978); Parole nel sangue, la prima antologia di poesia indiana contemporanea, (Mondadori, Milano 1991) ; Letterature afro-americana chicana e degli indiani d’America (Jaca Book, 1993); Piste perdute, Piste ritrovate, (Jaca Book, Milano 1996); Una giornata con…un cheyenne in compagnia di Franco Meli (Jaca Book, 1998); Fiabe dei Nativi americani. Miti e racconti (Giunti Editore 2004). E’ d’obbligo citare la bella prefazione del Meli in Custer è morto per i vostri peccati, di Vine Deloria (Jaca Book, Milano 1992). A quando un saggio del Meli sull’interesse davvero vastissimo del Thoreau per gli indiani d’America?      
   La scrittura del Meli va molto al di là del linguaggio specialistico richiesto, dell’eruditismo critico, poiché suggerisce e rivela una dimensione umana e letteraria, propria di un poeta dell’animo. La sua sensibilità e capacità  di sondare gli abissi dell’io, gli forniscono i formidabili strumenti per i suoi studi, condotti con rigorosa indagine critica e al contempo con umana tensione.  I suoi saggi, su diversi autori nordamericani, riflettono una lucida e straordinaria capacità di analisi,  resa con uno stile di rara forza espressiva, non disgiunta da un soffuso lirismo. Al Meli va riconosciuto il merito, insieme ad altri critici, quali Piero Sanavo e Biancamaria Tedeschini Lalli, di aver fatto conoscere le opere di Thoreau in Italia: fino a pochi decenni or sono il poeta naturalista di Concord era pressoché sconosciuto nel nostro paese,  al punto che  un professore di letteratura inglese manifestava la sua profonda delusione per la scelta del Meli di dare la sua tesi su Walden.  Un  enorme cammino è stato da allora percorso, ma rimane, rispetto ad altre realtà europee, uno stacco inaccettabile, essendo numerose opere del Thoreau ancora inspiegabilmente non tradotte.
   Il lavoro di Franco Meli si innesta su quello fecondo e ricco intrapreso da Cesare Pavese, Elio Vittorini ed Emilio Cecchi e dalla stessa Fernanda Pivano, nell’interpretare e far conoscere nel nostro paese, il pensiero e le opere di importanti autori americani, apportando elementi di critica che si distinguono per una maggiore organicità e rigorosità. Dobbiamo al Meli l’aver introdotto in Italia di Thoreau Le foreste del Maine, Chesuncook (SE Edizioni, Milano 1999) con un memorabile saggio introduttivo,  Thoreau nel Maine: le lezioni della wilderness e sempre di Thoreau Camminare (Oscar Mondadori, Milano 1989).
   Dalla vastità e profondità degli studi e degli interessi di Franco Meli è possibile cogliere il valore di un preciso assunto ideologico: la ricerca dello spirito più autentico dell’uomo, della sua vera identità, che comprende lati oscuri e insondabili (pensiamo a Bartleby). E gli scrittori del Nuovo Mondo potevano offrire le giuste risposte.