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Che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan?

di Francesco Lamendola - 21/09/2009


L'Italia è un ben strano Paese: dove la politica interna la fanno le lobbies massoniche, mentre la politica estera la fanno le mamme.
Ma lasciamo perdere, per ora, la politica interna e soffermiamoci brevemente su quella estera.
Innanzitutto, si potrebbe obiettare che, per avere una politica estera, uno Stato deve godere della piena sovranità: una colonia o un protettorato non hanno una propria politica estera; così come non ce l'ha, o la possiede solamente a metà, una qualunque provincia dell'Impero.
Anche questo, peraltro, è un discorso che richiederebbe un eccessivo approfondimento, che in questa sede non ci sembra il caso di sviluppare. Accontentiamoci di un dato di fatto: l'Italia è un Paese a sovranità limitata; lo è, di fatto, dall'8 settembre del 1943; e, di diritto, dal 10 febbraio 1947 (trattato di pace di Parigi) e, soprattutto, dal 4 maggio 1949 (adesione dell'Italia alla N.A.T.O., ratificata dal Parlamento con apposita legge del 1° agosto dello stesso anno).
Non crediamo sia necessario fornirne chissà quali sensazionali prove di questa affermazione: basti dire che l'Italia è un Paese che non potrebbe mai permettersi di dire «no» a tre potentati internazionali: Stati Uniti d'America, Israele, e (in misura minore) Vaticano. Che poi, di fatto, giunga ad umiliarsi perfino davanti a Stati come la Libia di Gheddafi, questo è un altro discorso: si tratta di insipienza e pusillanimità di singoli governi, comunque di scelte che potrebbero essere revocate e capovolte. Solo nei confronti degli Stati Uniti, di Israele e del Vaticano, il governo italiano, qualunque esso sia, di sinistra o di destra, non può rispondere altro che «sì», davanti a qualsiasi richiesta, fosse pure la più offensiva per la nostra sovranità.
L'unico governo che ha osato dire «no» agli Stati Uniti è stato quello di Bettino Craxi, in occasione dell'incidente all'aeroporto di Sigonella del 1985, dove le forze amate italiane e quelle statunitensi furono sull'orlo di ingaggiare un conflitto a fuoco per via di Abu Abbas, il terrorista palestinese di cui Regan pretendeva, con tracotanza, la consegna immediata, in seguito alla tragica  vicenda della nave «Achille Lauro»;. E la cosa non si è più ripetuta.
Al Vaticano, e soprattutto allo Stato di Israele (indipendentemente dal colore politico del suo governo), nessun governo Italiano ha mai osato rispondere con un rifiuto; né lo potrebbe fare, stanti gli assetti interni della nostra classe dirigente.
Ma veniamo all'Afghanistan, di cui tanto si è tornato a parlare dopo il tragico attentato in cui hanno perso la vita altri sei militari italiani (portando il totale delle perdite a 20), mentre altri 4 sono rimasti seriamente feriti, insieme a un certo numero di civili afghani. Sembra proprio che solo quando in Italia rientrano le bare dei nostri soldati impegnati all'estero, l'opinione pubblica e la stampa si ricordino del fatto che migliaia di nostri uomini si trovano impegnati in un certo numero di missioni che vengono presentate, genericamente e collettivamente, come «missioni di pace», anche se di pacifico alcune di esse hanno assai poco.
Eppure, il paradosso è proprio questo: che, almeno da come lo descrivono i nostri media, l'Italia è un Paese che ha scoperto che in Afghanistan è in corso una guerra, solo dopo che è giunta la notizia della tragica morte dei sei parà nell'attentato di Kabul. Perfino le loro famiglie, stando alle dichiarazioni riportate dalla stampa e dalla televisione, sembrano essersene rese conto solo a posteriori.
Prima, tutti quanti credevano che la presenza italiana fosse una «missione di pace», ossia un qualche cosa in cui non si combatte veramente, o, se si combatte, si combatte con un rischio personale minimo, perché tutto si svolge sotto le bandiere dei massimi organismi internazionali; e gli unici a non gradire la nostra presenza in quell'area, sarebbero pochi terroristi di professione, il cui interesse, ovviamente, è quello di seminare la confusione e la paura.
Come ce le sappiano raccontare, queste storie: così bene, che quasi quasi finiamo per crederci sul serio, proprio noi che le abbiamo inventate.
Allora, forse è bene schiarire la memoria agli smemorati, e il vocabolario agli spregiudicati inventori di giochetti linguistici.
Non esistono missioni di pace che si realizzino mediante l'impiego delle forze armate: si tratta di missioni di guerra, in tutto e per tutto.
Ciò detto, sarà bene aggiungere che non tutte le guerre sono uguali; e che, se la guerra in se stessa è un evento esecrabile, può darsi che vi siano circostanze nelle quali essa rimane purtroppo l'unica via percorribile per giungere al bene della fine delle ostilità. Non diremo al bene della pace, perché la pace, per definizione, non può nascere mai - lo ripetiamo, mai - da una guerra, che è la maniera più sicura per seminare germi di futuri conflitti, odî e violenze.
Ciò premesso, si tratta di vedere se la nostra presenza armata in Afghanistan si possa considerare come appartenente alla suddetta categoria: quella del male minore, rispetto ad un male ancora più grande, ossia una guerra ancor più crudele e suscettibile di sviluppi imprevedibili e destabilizzanti a livello regionale e, magari, globale.
Ricordiamo, allora, che l'attacco statunitense contro l'Afghanistan venne lanciato nell'ottobre del 2001, appena un mese dopo l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre, quando ancora poco o niente si sapeva sulle dinamiche di quell'evento (non che oggi ne sappiamo molto di più), e Bid Laden sembrava un Marziano sbarcato da chissà quale improbabile astronave; mentre invece i servizi segreti americani e lo stesso Pentagono lo conoscevano benissimo, avendolo finanziato per anni, al tempo della guerriglia afghana contro l'Armata Rossa sovietica.
L'amministrazione Bush non tenne in alcun conto gli insegnamenti del passato: il fatto che quelle fiere popolazioni montanare avessero già piegato ed infranto la strapotenza di due colossi, come la Gran Bretagna nel XIX secolo, e l'Unione Sovietica negli anni Ottanta del XX, dimostrando chiaramente - a chi lo vuole vedere - che l'Afghanistan non è un Paese che possa essere conquistato e controllato da un esercito moderno, armato e addestrato alla occidentale.
O forse ne tenne conto, ma non lo ritenne importante: forse, per essa, l'importante non era conquistare e controllare l'Afghanistan, cosa di per sé impossibile (senza contare che Al Qaida, il vero nemico che si voleva distruggere, poteva benissimo operare da altre basi, preservando intatto il proprio potenziale offensivo, come infatti si è visto), bensì creare le condizioni per una guerra permanente che, con il pretesto del terrorismo internazionale, consentisse un giro di vite in fatto di procedute di sicurezza ad uso interno, in una mobilitazione permanente dell'apparato militare e poliziesco, e in un legame indissolubile e a senso unico con i dirigenti dello Stato d'Israele e soprattutto con i loro servizi segreti (pesantemente sospettati di essere implicati proprio nell'attacco dell'11 settembre).
Questo è il contesto in cui è nata l'operazione che venne subito qualificata, niente di meno, che «guerra umanitaria», con tanto di volonterose reti televisive che riprendevano il lancio di paracadute carichi di viveri per soccorrere le povere popolazioni afghane, vittime del sottosviluppo e della mancanza di modernità, a causa del cattivo governo talebano. Le stesse reti televisive si sono ben guardate dal mostrarci, in tutti questi anni, le immagini dei villaggi distrutti dai bombardamenti aerei statunitensi e delle innumerevoli stragi di civili avvenute «per errore», da parte di un esercito che controlla alcuni centri strategici e vie di comunicazione, ma non ha alcun radicamento nel territorio e non è percepito positivamente dalla massa della popolazione.
A ciò si aggiunga che, dal 2003 al 2006, la guerra in Iraq ha fatto passare l'Afghanistan in seconda linea, per cui gran parte dell'Afghanistan è stato evacuato o non è mai stato raggiunto dalle truppe americane e dai quelle dei loro alleati. Praticamente, bisogna arrivare al luglio 2009 per assistere ad un serio sforzo, da parte delle forze armate occidentali, per impadronirsi delle province strategiche dell'Afghanistan, i santuari dei talebani e le zone ove si produce l'oppio che, venduto all'estero, procura - insieme ai petrodollari degli sceicchi sauditi, formalmente alleati degli Stati Uniti e dell'Occidente - i mezzi per proseguire la guerriglia contro gli eserciti occupanti. Ed è per questo che il prezzo di vite umane, nei ranghi dei contingenti occidentali, ha registrato una brusca impennata proprio negli ultimi due mesi.
Tanto andava ricordato, per quanto riguarda il contesto complessivo dell'operazione: che, giova ricordarlo, si svolge sotto le insegne della N.A,T.O. e non dell'O.N.U., ossia di una alleanza militare occidentale e non della comunità internazionale.
Per quanto, poi, riguarda la supposta necessità di instaurare la democrazia in Afghanistan, perché solo un regime democratico potrebbe rendere impossibile che quel Paese torni ad essere una centrale del terrorismo internazionale, bisogna chiarire nel modo più netto che il governo Karzai è un governo profondamente corrotto, implicato fino al collo nel commercio di droga: commercianti di droga sono sia il fratello del presidente, che diversi suoi generali e ministri ed ex ministri.  Questo, ammesso e non concesso che Karzai abbia vinto regolarmente le elezioni, e non a suon di brogli, cosa peraltro assai dubbia; e senza tenere conto che, in una società tribale come quella afghana, nessun governo democratico potrà mai insediarsi saldamente, se non troverà il modo di rappresentare qualcosa di più che gli interessi limitati ed egoistici di una singola parte, a discapito di tutte le altre.
Ora, se è vero che - come diceva von Clausewitz - «la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi», occorre domandarsi quali siano i reali obiettivi politici che l'Occidente sta perseguendo in Afghanistan, e non quelli sbandierati dalla propaganda; e, nel nostro caso, se e fino a che punto l'Italia abbai interesse a condividerli.
Senza troppo entrare nel merito delle valutazioni politiche e strategiche, si potrebbe rispondere che già il solo fatto di essere presente, accanto alle altre nazioni occidentali, in un'area strategica così importante, mostrando di sapere e di volere sopportare i costi di una tale operazione - costi materiali, ma anche psicologici -, l'Italia ha tutto l'interesse a gestire la guerra in Afghanistan come un male necessario e come una occasione alla quale non può sottrarsi, se non vuole rischiare l'isolamento internazionale e una grave perdita di credibilità e di prestigio.
Ciò può anche essere vero; ma, allora, sarebbe necessario spiegare chiaramente all'opinione pubblica perché siamo impegnati in una guerra in Afghanistan - una guerra, e non una supposta missione di pace - e perché non ci possiamo ritirare. Sarebbe anche necessario un ampio e approfondito dibattito in Parlamento, condotto con franchezza e non dietro l'ipocrisia della missione umanitaria. Finché queste cose non ci saranno, non ci si può aspettare che l'opinione pubblica abbia i nervi saldi quando cominciano ad arrivare le salme dei caduti; e la politica estera continuerà ad essere condizionata dall'emotività delle mamme, e non dettata da lucide considerazioni di natura politica e strategica.
Senza andare negli Stati Uniti, per i quali valgono altri parametri di riferimenti, basta prendere il caso della Gran Bretagna, per rendersi conto della differente preparazione psicologica al conflitto, rispetto a quella che è stata fatta, o meglio, che non è mai stata fatta, in Italia. I soldati britannici caduti in Afghanistan sono ormai parecchie decine; e, benché il malumore presso l'opinione pubblica inglese vada crescendo, nel complesso non si può dire che la fede del Parlamento e del Paese nella bontà della causa sia stata realmente scossa. Da noi accade il contrario, con un partito della coalizione di governo che ruba il mestiere ai partiti dell'opposizione, e sbandiera apertamente lo slogan del rientro a casa di tutti i nostri soldati entro il prossimo Natale.
Il fatto è che questo tipo di guerre sono condotte da unità speciali di volontari professionisti, attirati dagli alti stipendi che rendono loro accettabile la percentuale di rischio. In Gran Bretagna, chi cade in guerra è un professionista che ha pagato il prezzo di un rischio calcolato; da noi, invece, è immancabilmente un eroe e un operatore di pace, vilmente assassinato da un nemico senza volto. È sempre la solita retorica degli «Italiani brava gente» che odiano le guerre e che, se le fanno, le fanno sempre a fin di bene e, soprattutto, con una grossa carica di umanità.
Concludendo: i casi sono due.
O la nostra presenza militare in Afghanista è sbagliata, perché politicamente inefficace e velleitaria, oltre che ipocrita e tale da offrire un generoso paravento ai peggiori elementi afghani, desiderosi di riciclarsi come paladini della democrazia e partner privilegiati dell'Occidente: e allora dobbiamo andarcene quanto prima, ed assumercene la responsabilità di annunciarlo chiaramente ai nostri alleati.
Invece, nei corridoi del ministero degli Esteri e di quello della Difesa circola già la storiella del modo furbesco con il quale, poco alla volta, ci sganceremo dal ginepraio afghano: ritirando le unità presenti sul campo e sostituendole con contingenti sempre più ridotti; finché, un bel giorno, gli Americani si volteranno e chiederanno: «Dove sono finiti gli Italiani?»
Speriamo che non debba andare così: sarebbe un colpo tremendo per la nostra credibilità internazionale, tale da vanificare tutti i sacrifici sin qui sopportati.
Oppure la nostra presenza militare in Afghanistan deve essere giudicata politicamente giusta: vale a dire, fruttuosa nell'interesse nazionale; e, in tal caso, non resta da fare altro che stringere i denti e rimanervi sino in fondo, costi quello che costi.
Tertium non datur.