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Gli intellettuali? Servi del potere di turno

di Goffredo Fofi - Oreste Pivetta - 22/09/2009


Farabutto, coglione, va’ a morì ammazzato. Da tempo ormai. Ha ragione Brunetta quando dice che tutto sommato sono soltanto modi di dire popolari. Ma una volta a scuola si sussurravano appena e per sentirli sonanti bisognava incappare in una lite di mercato o di condominio. Adesso siamo alle platee politiche e alle (massime) responsabilità politiche, dopo un breve viatico televisivo, con la scusa del dialetto, nell’esercizio del dialetto come piacerebbe a Bossi (dal celeberrimo gesticolare), ma dalla parte del potere. Democrazia tra Chavez e Putin, diceva ieri Daniel Cohn Bendit, il politico francese, all’Unità. Storie diverse. Con un filo d’arroganza nazionale si potrebbe alludere a tradizioni democraticamente diverse, almeno dalla metà del secolo scorso. «Ma nell’ultimo ventennio – dice Goffredo Fofi, tra i pochi intellettuali critici di questo paese – ci siamo messi a correre: stupisce la rapidità del declino...».
Le tradizioni, a quanto pare, sono andate a farsi benedire, divelte, sconquassate, annichilite nel confortante silenzio delle mag-
gioranze. Perché alle fondamenta del regime berlusconiano ci staranno i soldi, ci staranno le televisioni, ma ci stanno anche le maggioranze... Come definirle queste maggioranze? Menefreghiste, qualunquiste, indifferenti, sfiduciate? Perché ci siamo così presto abituati alle bravate, parole e atti, dei nostri governanti? Insomma che paese siamo? «Rispondo che ha ragione Cohn Bendit: tra Putin e Chavez, in mezzo a qualsiasi dittatorello che non ha più bisogno delle armi e dei bastoni per imporsi. Ma è una storia antica: il populismo è l’arte di manipolare l’opinione pubblica e gli esempi risalgono ai millenni passati. Nerone insegna. Adesso semplicemente si usano i mezzi di comunicazione di massa, ma non è che allora non non ne disponessero con la loro buona parte di originalità». Magari offrendo i cristiani in pasto alle belve. «Il problema sarebbe reagire. Ma chi reagisce? La destra non ha nulla da dire e non ha neppure interesse a dire qualcosa o a cercarsi altre strade o altre collocazioni e la sinistra si è suicidata e “sinistra” è rimasta una parola senza senso, che evoca soltanto assembramenti e divisioni, clan, famiglie, gruppi e litigi, con un modello di sviluppo in testa che non è diverso da quello che agita chi governa e con l’idea fissa soltanto di entrare nelle stanze del potere. Per che cosa, per quale futuro? Quali prospettive ci vuole indicare?». Ci è capitato di leggere quella bellissima invettiva di Don Tonino Bello contro gli intellettuali: «Siete latitanti dall’agorà.... State disertando la strada... Vi siete staccati dal popolo». D’accordo: chi avrebbe il compito di criticare e di pensare per l’avvenire non è più un riferimento per il presente, è diventato un imbonitore a libro paga... «Sono stato di recente a un convegno sul teatro. E naturalmente parlando di teatro e di teatranti, la prima questione che salta fuori sono i finanziamenti. Ogni assessore ritiene che i soldi della collettività siano suoi e ne deduce di poterne fare quello che vuole: premiare l’amico, il parente, premiare chi gli lecca il culo...». Siamo arrivati al cattivo esempio della parolaccia... «Per dire però che l’abbandono di criteri morali e culturali è ormai una questione antropologica...». Di una mutazione antropologica. Siamo di nuovo alla fine delle lucciole. Non è il malaffare o l’ignoranza del singolo... «No, si fa così perché s’è rinunciato a ragionare, a immaginare il domani, a discutere e a decidere che cosa sia sbagliato e che cosa sia giusto e scegliere il giusto, anche quando il popolo sbraita chiedendo caramelle invece di un lavoro serio o di una scuola seria...». Siamo al top del disastro. E, permetti, non è questione di precari...«No, il caos generale dimostra come la scuola abbia esaurito la sua funzione. Gli utenti, clienti, consumatori, la gente insomma, pensa che così debba essere e che così si debba continuare a governare, in una società guidata dal ciclo delle merci e dalla pubblicità. Si è abituata. Ecco la mutazione».
E gli intellettuali? Non dovrebbero aprirci gli occhi? «Gli intellettuali prosperano, autentici guru, predicatori inesauribili, megalomani e narcisisti, che non contano niente o contano soltanto in funzione di un potere che li usa come mediatori, un potere molecorale rappresentato e conteso tra mafie, camorre, massonerie di ogni genere... Clan opportunistici di cui l’Italia è strapiena. Poi arriva Brunetta e annuncia: basta con l’assistenzialismo, basta con il clientelismo. Salvo poi rifare assistenzialismo e clientelismo per quelli e con quelli che gli stanno più simpatici. Vedi, la Costituzione dice che bisogna dare ai poveri e ai meritevoli: ma chi giudica? Dove stanno in Italia i probiviri? Frequenti le giurie dei premi letterari: sempre gli stessi, critici e autori, che parlano di se stessi e dei loro libri, premiati e premiatori insieme, una volta a te, una volta a me. Una brillante corporazione. Chi sente più la responsabilità nei confronti della società? Nessuno». Nessuno che insegni. È un paradosso, forse. «Ma certo. L’Italia è paese ancora vivo grazie a tante brave persone. Se non fosse così sarebbe alla catastrofe». Mancano i punti di riferimento... «Alla lettera. Non esistono persone di riferimento. Morte. Non esiste chi pensa, chi guarda avanti, chi immagina il futuro, chi rifà opera di formazione nei confronti delle giovani generazioni in rapporto a ciò che dovrà essere. Solo o con gli altri. E qui s’aggiunge la terribile colpa della sinistra, di una sinistra piegata a rincorrere chi ha vinto, cioè i modelli del consumismo, delle merci, del libero mercato...».
La vorresti alternativa? «La vorrei solidale, capace di ascoltare, capace di inventare, critica. Ennio Flaiano diceva che la sinistra è bravissima a fare l’autocritica degli altri». C’e una bella espressione di Cohn Bendit, che ho letto sulla tua rivista, «Lo straniero»: «...continueremo nello sforzo di spezzare la caratteristica proprietaria del sistema politico sia a livello nazionale che locale ed europeo. Più che mai noi promuoveremo il concetto di software libero applicato alla politica e alla società». «Sì, per rompere gli schemi di una democrazia autoritaria e proprietaria. Il che significa in questo paese ricostruire una cultura diffusa dello stato e della collettività. Come mi è sempre parso si fosse riusciti nel ventennio dal ’43, dalla Resistenza, al ’63, al tramonto cioè del centro sinistra, alla sconfitta dei suoi disegni più innovatori...».
Basterebbe pensare alla casa, all’urbanistica, al ruolo allora di tanti intellettuali. «Quelli che adesso mancano. Perché non esistono più i critici, non esistono i teorici. Sopravvivono gli informatori e gli accademici, come Asor Rosa, che ancora predica l’autonomia della politica. Tutti affetti da narcisismo. Mi è appena arrivato un libro di Lucio Magri, con la sua bella faccia in copertina. Ma capisci! Neanche fosse Clooney. Si specchierà nella sua copertina. Invece credo che il primo dovere degli intellettuali, compreso il sottoscritto, sia certo guardarsi allo specchio, ma per sputarsi in faccia, per riconoscere il proprio fallimento».
Una volta si diceva: ci salverà la Chiesa... «Tutti crediamo che la Chiesa si debba occupare della gente, cioè della collettività dimenticata dalla politica. Ma il primo scrupolo della Chiesa è la salvaguardia della istituzione». Come saremo? «Quello che colpisce è la velocità appunto del declino italiano. In altri paesi d’Europa il senso dello Stato e il senso della comunità resistono. Da noi dominano egoismo e cinismo orripilanti. A Venezia, all’uscita dal cinema, dopo la propriezione del film di Patrick Chereau, la gente quasi vomitava: se qualcuno ti mette di fronte alla realtà, le reazioni sono il vomito e la fuga».