È passato un anno dalla dichiarazione ufficiale di inizio della crisi economica, e ora nuove autorevoli assicurazioni la danno per finita, seppur con ferite che si rimargineranno lentamente. Speriamo che sia così. Rimane però un problema psicologico e culturale (oltre che economico): abbiamo imparato la lezione? Sapremo evitare quei comportamenti che generarono le famose «bolle» (da quella immobiliare a quella dei «derivati»), il cui scoppio paralizzò poi mercati, e produzione?
Non è un problema teorico, riservato alle dispute degli economisti. È una necessità pratica, per non ritrovarsi tra qualche anno con un’altra generazione di giovani dirigenti bruciata in tutte le capitali economiche occidentali, masse di risparmiatori rovinate da speculazioni insensate, e eserciti di disoccupati dovunque.

Ma è contemporaneamente una scelta antropologica: quali sono i comportamenti «virtuosi» in grado di assicurare sviluppo e stabile benessere ai nostri paesi? Dobbiamo sempre puntare alla propensione al consumo, che si cerca di sollecitare ad ogni costo (anche questa volta si è ripartiti così), o è possibile cercare un modello più equilibrato? Come ad esempio uno «sviluppo sostenibile» che non bruci più risorse di quante ce ne siano, e quindi non crei nuove bolle, nuovi debiti che non verranno pagati da chi li ha fatti, ma da altri: lavoratori che perderanno il posto, risparmiatori che rimarranno privi delle risorse accantonate?
La comunicazione politica non sembra molto interessata alla questione. I governanti che sollecitano per uscire dalla crisi la ripresa dei consumi senza spiegare che tipo di sviluppo abbiano in mente, fanno pensare che il crac dello scorso anno non abbia ancora prodotto tutti i suoi insegnamenti per il futuro. Il buon cittadino, quello che aiuta il benessere del proprio paese non può essere ancora visto solo come un accanito e imperturbabile consumatore, come è stato finora. Deve essere anche portatore di una ricerca di equilibrio tra produzione, consumo, e risorse disponibili, tra interesse personale e interesse collettivo.
L’attuale presidenza americana, iniziata nel colmo della crisi, promette anche questo. Ma perché ciò accada, è necessaria un’ampia riflessione collettiva (non solo in America) su cosa possa garantire uno stabile e giusto sviluppo economico. I tentativi di mettere a punto un nuovo «indice del benessere», accanto al vecchio Pil, fanno parte di questa riflessione. Che deve però fare ancora molta strada.
La questione ha, come tutte le sfide antropologiche, risvolti psicologici profondi. I grandi disagi psichici del nostro tempo, vale a dire i disturbi narcisistici nelle loro manifestazioni dirette (euforiche, maniacali), e nelle loro versioni depressive, affondano le radici in questo modello economico-sociale.
L’«uomo consumatore», costantemente sollecitato a «vivere al sopra dei propri mezzi», è anche il nevrotico perfetto, descritto dalla psicoanalisi classica appunto come qualcuno che spende energie che non possiede. Il suo individualismo esasperato, che lo rende disattento e poco interessato ai vissuti affettivi degli altri, lo condanna a una serie di sconfitte sul piano dei sentimenti (in famiglia, nelle relazioni con l’altro sesso, nei rapporti amicali), che distruggono continuamente risorse sociali: ad esempio coi fallimenti matrimoniali, le gravidanze giovanili, l’abbandono degli anziani, le violenze ai più deboli.
Le «bolle» economiche traducono sui vari mercati la bolla psicologica su cui rotola il fragile equilibrio del narcisista, l’uomo ridotto a consumo ed immagine.