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Già finito il miracolo cinese?

di Andrea Bertaglio - 05/10/2009

L’esponenziale crescita del PIL cinese ha subìto una battuta d’arresto tanto brusca quanto inattesa. Colpa della recessione di Stati Uniti ed Unione europea. Valeva davvero la pena per i cinesi abbandonare in massa le campagne per cedere alle tentazioni della società dei consumi ed a un’industrializzazione basata fino all’80% sulle esportazioni in Occidente? Indipendentemente dalla risposta a questo quesito, sono ora in molti a dover tornare sui propri passi.


 

soldi cinesi
L’esponenziale crescita del PIL cinese ha subìto una battuta d’arresto
Dopo aver speso gli ultimi anni sentendo parlare della Cina e di quanto esplosiva ed inarrestabile fosse la crescita della sua economia, ora potremmo iniziare ad abituarci a sentire discorsi che affermano esattamente l’opposto.

 

La crisi globale, in quanto tale, ha colpito ormai anche il colosso asiatico, il quale si ritrova migliaia di imprese che dipendono fino all’80% dalle esportazioni in Europa ed America, entrambe colpite, come ben sappiamo, dalla recessione.

È proprio questa l’origine del cortocircuito cinese: l’improvvisa frenata degli ordini di merce giunti dall’Occidente. A luglio le esportazioni sono infatti calate del 22,9%, ed anche in questi giorni molte fabbriche stanno chiudendo, dato che gli ordini che si attendevano per il Natale 2009 (elettrodomestici, high-tech, giocattoli, abbigliamento) non sono arrivati.

Questa inattesa battuta d’arresto ha provocato un calo del giro d’affari tra il 25 ed il 40%, venti milioni di “disoccupati made in Usa”, una deflazione con prezzi al consumo in picchiata (-1,8%) ed una drastica diminuzione (questo non è così un male, almeno dal punto di vista ambientale) dei consumi elettrici, in gran parte di origine industriale, arrivata al 48%.

A che cosa ha portato tutto ciò? Alla disfatta precoce di quella che stava diventando la nuova classe media ed al forzato ritorno all’agricoltura della metropolitanizzata “generazione Ikea”. Si, perché come scrive Giampaolo Visetti sulle pagine di Repubblica, mentre «il consumatore globale aspetta, l’ex coltivatore di riso cinese, che nel frattempo ha ceduto la sua terra, perde il posto». E ancora: «Si spopolano, e cadono in rovina, avveniristiche e sconfinate periferie urbane, appena costruite. Le campagne antiche dell’interno, rimaste prive di servizi, popolate di vecchi, scoppiano e si gonfiano di baracche».

 

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Valeva davvero la pena per i cinesi abbandonare in massa le campagne?
Già finito, quindi, il miracolo cinese? Sembrerebbe così, stando al rientro di milioni di persone che hanno perso tutto (e che hanno bruscamente capito che solo la terra può garantire il sostentamento necessario anche quando la crisi economica diventa globale) e che coprono migliaia di chilometri per tornare da sconfitti in irriconoscibili luoghi d’origine, nel frattempo consacrati a loro volta allo “sviluppo”. Se all’Occidente sono serviti oltre sessant’anni per capire quanto false fossero le promesse della società dei consumi, ai cinesi ne sono bastati meno di dieci.

 

Ma è davvero così? Il messaggio del governo sembra perentorio: le previsioni di crescita occupazionale, parecchio ottimistiche anche in questo momento, sono una priorità e devono avverarsi. E speriamo sia così, perché , come dice Shi Xiao, direttore dell’Osservatorio sociale di Shanghai, «è il lavoro il vero nervo scoperto di questo potere. Ha puntato tutto sul denaro, facendo dimenticare al Paese i suoi diritti. Se fallisce sull’occupazione, il governo potrebbe presto sentirsi rivolgere domande sulla democrazia».

I nuovi disoccupati della costa meridionale della Cina continentale e in particolare provenienti dal Guangdong, spaventano molto più di tibetani e uiguri (altra minoranza etnica turcofona ed islamica che vive nel nord-ovest del Paese), poiché da minoranza gli ex operai disoccupati potrebbero diventare maggioranza ed incrinare “il trionfante nazionalismo capitalista degli han”.

A chi invece un lavoro in questi ultimi mesi è rimasto (spesso in cambio di “anticipi retributivi” fornite alle ditte, con la promessa di riceverli entro quattro anni – cioè pagando per lavorare!), lo stipendio medio è calato di oltre il 5%, portando la media nazionale a 160 euro al mese. Nessuno in Cina si aspettava questi tagli occupazionali in imprese privatizzate per il 95% negli ultimi trent’anni, e dei 225 milioni di contadini cinesi che dal 2000 ad oggi si sono trasformati in operai, come già detto, venti sono dovuti tornare sui propri passi.

 

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Questa nuova Cina, chiamata dagli Usa a “salvare il mondo”, forse non riuscirà nemmeno a salvare se stessa
Sarà l’inizio di una riconversione virtuosa della società e dell’economia cinese, già svegliatasi da una sorta di sogno (bello o brutto a seconda dei casi), o semplicemente l’inizio della fine di questa nuova Cina che, chiamata dagli Usa a “salvare il mondo”, non riuscirà nemmeno a salvare se stessa? Le previsioni non fanno ben sperare, perché evidentemente è stato molto più facile adattarsi agli stili di vita occidentali (o presunti tali), che non ri-abituarsi alla vita rurale di origine.

 

Forse l’unica cosa di cui hanno bisogno i cinesi è ottimismo.

Un po’ come per gli italiani che possono far fronte alla crisi con un rilancio dei consumi da praticare con un bel sorriso stampato in faccia. E se lo possiamo fare noi, figuriamoci i cinesi, ancora galvanizzati dall’euforia di una crescita economica mai vista prima.

Nello sfacelo cinese in corso, infatti, gli unici dati in crescita riguardano la vendita di automobili (+63,6% solo nel mese di luglio), grazie agli incentivi dello Stato ed agli sconti fiscali che possano tenere in piedi, ancora per un po’, il “miracolo cinese” ed il perentorio ordine di una crescita occupazionale che già non c’è più.