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Mussolini e Berlusconi: un paragone totalmente sbagliato e insopportabile

di Francesco Lamendola - 08/10/2009


 

Come già era toccato a Bettino Craxi, ora è la volta di Silvio Berlusconi ad essere paragonato, sempre più frequentemente, a Benito Mussolini; fra l'altro, tale raffronto è emerso l'altro giorno, nel corso di un noiosissimo contraddittorio televisivo fra il portavoce del premier, Paolo Bonaiuti, e Stefano Rodotà, leader storico del PCI-DS, il quale ultimo, appunto, aveva paragonato l'attuale presidente del Consiglio al Duce.
Diciamo subito che si tratta di un paragone, a nostro giudizio, totalmente sbagliato e insopportabile; insostenibile sul piano storico e politico, non meno che su quello umano, psicologico e morale. Cerchiamo di spiegare perché.
Premesso che non è possibile stabilire un confronto diretto fra un dittatore e un capo di governo democratico liberamente eletto, ci sembra che una lunga serie di dati di fatto smentiscano recisamente ogni possibile confronto tra i due uomini politici; vediamo i principali.
Prima di tutto, Mussolini era un uomo del popolo, il figlio del fabbro: socialista e quasi anarchico in gioventù, proveniva da una famiglia povera della Romagna, terra tradizionalmente repubblicana e anticlericale. Veniva da una scuola di vita molto dura: aveva conosciuto la povertà, era stato anche emigrante in Svizzera e poi in Trentino, allora provincia dell'Impero austroungarico; sapeva cosa volesse dire il lavoro manuale e avere i calli sulle mani; sapeva quanto fosse duro trovarsi un posto di lavoro partendo dal nulla.
Era stato anche maestro elementare, come sua mamma; e, come tale, aveva girato per l'Italia.  Ad Amaro, vicino a Tolmezzo, per tenersi buoni i bambini, distribuiva loro delle caramelle; non era bravo a mantenere la disciplina; in compenso, era bravissimo a correre dietro alle donne sposate del paese, da cui derivarono un mezzo scandalo ed un salutare, precipitoso trasferimento.
Renitente alla leva, era finito in prigione per aver manifestato con il massimo impegno contro la conquista della Libia; durante la settimana rossa del 1914 si era messo in vista come uno degli elementi sovversivi più decisi e rispettati nel popolo dell'estrema sinistra. Fu in quella occasione, crediamo, davanti al deciso rifiuto di Turati di ricorrere allo sciopero generale insurrezionale, che egli si dovette convincere, una volta per tutte, che i socialisti amavano parlare tanto di rivoluzione, ma non avevano alcuna voglia di farla.
Infine aveva saldato il suo debito con lo Stato, aveva vestito l'uniforme; e, più tardi, coerente con la sua nuova linea interventista, era andato volontario a combattere nelle trincee della prima guerra mondiale, conquistandosi i gradi di sottufficiale, e riportando una ferita nel corso di una esercitazione.
Nel frattempo, come è noto, aveva cambiato idea sulla guerra e si era schierato sul fronte interventista, venendo espulso dal Partito socialista e dovendo abbandonare la direzione del quotidiano «L'Avanti!», che egli aveva portato a quadruplicare la tiratura nel giro di pochissimi anni. Era un giornalista molto abile, dotato di istinto e di piglio aggressivo: doti che avrebbe rivelato anche come oratore, qualche anno dopo.
Riassumendo: un uomo del popolo, di origini povere; un socialista massimalista sfegatato, che, al momento della cacciata dal partito, aveva gridato ai suoi ex compagni (quasi certamente cogliendo nel segno): «Voi mi odiate, perché mi amate ancora!»; un uomo abituato ad esporsi in prima fila, a rischiare e a pagare di persona; un uomo spregiudicato, certamente, ma non privo di ideali, come a torto lo si è dipinto: piuttosto, molto pronto a cogliere i mutamenti incipienti e quanto mai insofferente del rivoluzionarismo imbelle e parolaio dei suoi compagni di partito.
È vero: non si sa con quali soldi fondò, a tempo di record, un giornale tutto suo, «Il Popolo d'Italia»: o meglio, lo si sa anche troppo bene: a pagarlo furono gli industriali interventisti e i servizi segreti francesi, desiderosi di portare l'Italia in guerra contro gli Imperi Centrali; ma ciò non basta a farne un voltagabbana, e meno che mai un traditore.
Era, semmai, un uomo molto pragmatico: a lui non importava la provenienza dei quattrini: importava averne, per portare avanti il proprio progetto politico. Non per spenderli in feste private e in ville sfarzose. Il suo tenore di vita era, e rimase, molto sobrio, quasi spartano; e questo anche dopo la salita al potere. Nessuno ha mai potuto dimostrare che fosse un corrotto o un corruttore, anche se molti gerarchi, durante il ventennio, lo furono. Nessuno ha mai potuto dimostrare che abbia tratto vantaggi privati dall'esercizio del potere, o che ne abbia cercasti per i suoi familiari, con la sola eccezione del genero Galeazzo Ciano, in cui, del resto, aveva piena fiducia: e che lo avrebbe ripagato col tradimento del 25 luglio 1943.
Quando il suo corpo venne appeso a testa in giù, crivellato di proiettili, a un distributore di benzina di Piazzale Loreto, a Milano, dalle tasche dei suoi pantaloni non uscì nemmeno una monetina. Non era diventato ricco facendo il dittatore
Del pari, nessuno ha mai potuto dimostrare che egli fosse un sanguinario; al contrario, sono documentati numerosi suoi atti di clemenza nei confronti di avversari politici. Non volle che si infierisse contro quanti non erano più in grado di ostacolarlo: fu mite con gli oppositori interni di quel tipo, dal celebre filosofo liberale Benedetto Croce, al vecchio militante anarchico Errico Malatesta. Nella Germania di Hitler o nell'Unione Sovietica di Stalin, le uccisioni degli avversari politici, veri o presunti, si contarono nell'ordine dei milioni. Per Mussolini, non si è riusciti a provare una sua responsabilità diretta nemmeno nel delitto Matteotti (che, anzi, tutto porta ad escludere), né in quella dei fratelli Rosselli (nella quale, invece, era invischiato fino al collo proprio Ciano, il marito di sua figlia Edda).
Uno di tali episodi di clemenza è riportato nel libro di Stefan Zweig «Il mondo di ieri»: lo scrittore austriaco gli aveva scritto, su pressione di amici, perché il Duce intercedesse a favore di un militante socialista che aveva accompagnato il feretro di Matteotti e che, poi, era stato perseguitato dal regime. Mussolini aderì alla richiesta senza farsi pregare.
Nemmeno durante il periodo più cupo e malinconico della sua vicenda politica, quello della Repubblica Sociale Italiana, si potrebbe dimostrare che egli abbia considerato più importante la propria sicurezza, della vita dei suoi connazionali. Subito dopo l'ignobile assassinio di Giovanni Gentile, egli ordinò che non vi fossero rappresaglie; ed è documentato che protestò più volte, presso Hitler e presso il plenipotenziario tedesco in Italia, Rudolf Rahn, per le stragi di civili compiute dall'esercito germanico, nel corso di alcune azioni antipartigiane.
Un episodio, in genere poco conosciuto, può rendere l'animo del personaggio. Liberato dalla prigionia del Gran Sasso, le sue prime parole all'ufficiale tedesco che era venuto a prenderlo in consegna per portarlo via, furono queste: «Vi prego, non fate del male a questi ragazzi», alludendo ai cento carabinieri che lo tenevano in custodia e ai quali, difatti, non venne torto un capello, anche perché non si opposero minimamente». E aggiunse: «Sono stati buoni con me».
Qualcuno si immagina, non diciamo Hitler o Stalin, ma anche Churchill o Roosevelt, pronunciare una frase del genere, in una circostanza simile: vale a dire, dopo essere stati arrestati a tradimento dal capo dello Stato, dopo una collaborazione ventennale, e trasferiti da una prigione all'altra, per quaranta giorni, senza alcuna certezza circa il proprio futuro e la propria personale integrità?
E adesso veniamo a Berlusconi.
Dire che egli è di gran lunga l'uomo più ricco d'Italia, e che lo era già prima di scendere in politica e di candidarsi alla guida del governo, nel 1994, è una cosa nota a chiunque; e tutti ricordano di aver ricevuto, per posta, un libro di fotografie a colori illustrante la vita privata (allora non gli dispiaceva parlarne, tutt'altro) e la prestigiosa carriera del Cavaliere.
Tutti ricordiamo una intervista televisiva in cui Bossi, richiesto di esprimere un giudizio in diretta su Berlusconi, rispose testualmente, col suo inconfondibile muggito padano: «Berlusconi? Cosa c'entra Berlusconi con la politica? Berlusconi c'entra con i soldi». Ma erano altri tempi, e adesso il Senatùr non le dice più, quelle cose lì.
Anche le circostanze in cui il Cavaliere scese in campo, mettendo in piedi in quattro e quattr'otto un partito nuovo di zecca, Forza Italia, sono ben note; così come molti ricorderanno quel che disse Enzo Biagi all'epoca: e cioè che Berlusconi gli avrebbe confidato: «Se non entro in politica, finisco in prigione».
Quale idea si sia fatta della gente del popolo, della gente umile che lavora, che paga le tasse e che si vede i risparmi mangiati dall'inflazione e dalla speculazione delle banche, standosene nelle sue ville faraoniche, da quella di Arcore a quelle in Sardegna e altrove, non è dato sapere. Ricordiamo soltanto che, in tempi di crisi e d'inflazione, disse alle massaie che erano improvvide nel fare la spesa perché, se l'avessero saputa fare meglio, non si sarebbero trovate col portafogli vuoto, loro e i loro mariti, alla fine del mese.
Non entriamo nel merito della sua politica, così come non siamo entrati nel merito di quella di Mussolini: ciascuno ha le proprie opinioni a proposito dell'una e dell'altra; e non è questa la sede per aggiungervi le nostre personali.
Parliamo, invece, dello stile del personaggio.
Della vicenda relativa alle escort (fastidioso e ipocrita neologismo per indicare le prostitute di lusso dei potenti), meglio non dire niente. Osserviamo solo che Mussolini, di belle donne, non se ne faceva scappare una: le riceveva nella Sala del mappamondo, a Palazzo Venezia, e le rovesciava direttamente sul divano, oppure le prendeva in piedi, sbrigandosi in pochi minuti. E quelle poi se ne andavano, sconvolte e felici. Saranno state centinaia, a dire poco. Particolare significativo: nessuna ha ricevuto una lira, né da lui né da qualche ruffiano maneggione, per concedere al Duce le proprie grazie.
Dobbiamo parlare di quello che pensano all'estero di Berlusconi, non i gruppi della sinistra neomarxista e sovversiva, ma i maggiori giornali finanziari, i partiti conservatori e gli uomini di governo della destra internazionale?
Forse è meglio di no, per carità di patria. Nessun capo di governo italiano era mai stato oggetto di tanto imbarazzo, di tanta riprovazione da parte dell'opinione pubblica straniera. Mussolini godeva di molto prestigio: non tutti lo amavano, ma tutti lo rispettavano e molti lo ammiravano, Churchill e Roosevelt in testa. Era considerato un uomo politico serio e affidabile: il migliore che l'Italia potesse avere, in quel dato momento storico. Solo dopo il 1940 cambiarono idea, perché era sopraggiunto lo stato di guerra.
Il minimo che si possa dire, è che non faceva le corna dietro le spalle degli altri capi di governo, durante i convegni internazionali, a beneficio dei fotografi. Non provocava delle mezze crisi diplomatiche con altri Stati, per i suoi rozzi complimenti a qualche first lady; e non rideva da solo alle proprie battute da avanspettacolo; né si metteva la bandana in testa per cantare o suonare la chitarra, attorniato da qualche solerte menestrello. Se si metteva il fazzoletto in testa, era - al massimo - per falciare i campi, a torso nudo, durante la «battaglia del grano»
Infine, Mussolini, benché non fosse alto di statura, non se ne andava in giro con i tacchi rinforzati; e, benché fosse calvo, non si trapiantava i capelli e non se li tingeva. Era abbastanza grande da non sentirsi piccolo davanti agli altri, e abbastanza virile da non sentirsi vecchio: con o senza le rughe, con o senza i capelli. E non diceva al microfono, magari durante un incontro con un altro capo di governo, di essere il migliore leader che l'Italia avesse mai avuto: certamente lo pensava, ma, appunto per questo, non aveva bisogno di dirlo. Lasciava che lo dicessero gli altri: e non erano in pochi a farlo, anche all'estero.
E veniamo all'immagine internazionale dell'attuale presidente del Consiglio.
Se Berlusconi sia considerato un uomo politico serio e affidabile, oggi, anche da parte dei governi amici e di quelli politicamente più vicini alla sua ideologia neoconservatrice… be', questo è meglio lasciare che lo giudichino da sé quegli Italiani i quali si prendono ancora la briga di leggere la stampa estera. Perché, a leggere solamente quella italiana, è un po' difficile farsi un'idea realistica di come stiano le cose, in casa nostra.
Mussolini aveva messo fuori legge la Massoneria e combattuto seriamente la mafia: fu, anzi, l'unico uomo politico italiano a combatterla per davvero. Berlusconi era fra gli iscritti alla Loggia P2 del «venerabile» Licio Gelli (tessera numero 1816, data di affiliazione: 26 gennaio 1978), e alcune sue frequentazioni, o quelle dei suoi più stretti collaboratori, come Marcello Dell'Utri, sono state molto chiacchierate…
Mussolini aveva un alto senso dello Stato. A differenza di quanto fecero Hitler e Stalin, non volle mai mettere il proprio partito al di sopra dello Stato. Il suo motto, al contrario, era: «Niente fuori dello Stato, niente al di sopra dello Stato; e, soprattutto, niente contro lo Stato».  Per amore della patria, accettò da Hitler l'imposizione del duro fardello di mettersi a capo della Repubblica Sociale: era il solo modo per scongiurare la rappresaglia tedesca contro le popolazioni. Se non lo avesse fatto, il Führer aveva minacciato di riservare al nostro Paese un trattamento ancora più duro di quello della Polonia… e non scherzava.
Tutti gli storici seri, oggi - a cominciare da Renzo De Felice e Guglielmo Salotti - riconoscono di buon grado questa verità storica: che Mussolini, dopo la «liberazione» dal Gran Sasso ad opera dei Tedeschi, accettò di tornare alla guida del fascismo repubblicano per salvare l'Italia, o, quanto meno, per ridurre le sue sofferenze, e non già per spirito di vendetta o per cercare una impossibile rivincita. Fu per amore dell'Italia che andò incontro al proprio destino: all'appuntamento di Dongo e, infine, di Piazzale Loreto.
Berlusconi, non appena si vede messo politicamente in difficoltà, non esita a scagliarsi contro gli altri poteri dello Stato, come la magistratura, e le altre istituzioni, come la stessa presidenza della Repubblica: lo stiamo vedendo anche in questi giorni, in queste ore, dopo la «bocciatura» del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale. È uno strano modo di dimostrare il proprio senso dello Stato, quello di sfasciarlo e di screditare le istituzioni davanti agli occhi dei cittadini, insinuando continuamente il sospetto di complotti eversivi ai propri danni…
Vogliamo parlare della cultura?
Il massimo monumento culturale del  regime fascista, la grande e prestigiosa «Enciclopedia Italiana», fu compilata, sotto l'intelligente guida di Gentile, dai massimi esperti delle varie discipline: fascisti e antifascisti, in base alle effettive competenze di ciascuno. Per essere una dittatura, bisogna ammettere che il fascismo sapeva essere straordinariamente liberale, almeno in questo campo.
Come reagisca Berlusconi allorché, sulla stampa e sulle televisioni (quelle poche che sfuggono al suo controllo, diretto o indiretto), si scrivono o si dicono delle cose che non gli garbano, è sotto gli occhi di tutti: invoca le purghe, allontana dalla Rai i giornalisti scomodi.
Oppure vogliamo parlare delle grandi opere? Mussolini, le Paludi Pontini le ha bonificate per davvero, e ha perfino creato dal nulla delle nuove città: con una architettura monumentale, «romana», che può piacere o non piacere, ma che possiede, comunque, una sua dignità e un suo stile. Nei campi di nuova bonifica, poi, furono insediate migliaia di famiglie (anche del Nord «povero»: Veneto e Friuli), con il loro bravo pezzo di terra da coltivare, per sfuggire ad una secolare miseria. Non solo lavori pubblici di prestigio, dunque, ma un modo per impiegare mano d'opera in tempi di crisi - quella, mondiale, del 1929 - e per creare un nuovo ceto di piccoli contadini indipendenti.
Berlusconi vorrebbe fare il ponte sullo Stretto di Messina, spendendo cifre astronomiche, che se ne andrebbero - però - in buona parte nelle tasche della mafia, la quale già pregusta gli appalti per il gigantesco cantiere; ma forse farebbe meglio a pensare alle case di Messina, che si sbriciolano come fango alle prime piogge d'autunno, roba da Terzo o Quarto Mondo.
Potremmo continuare, ma forse è meglio fermarci qui.
Quel che volevamo dimostrare, crediamo di averlo fatto: ossia che il paragone fra Mussolini e Berlusconi è assolutamente sbagliato e inaccettabile.
Per rispetto della verità storica.
E, come direbbe il padre Dante: «lascia pur grattar, dov'è la rogna».