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Marino contro Murtola: guerra tra poeti a colpi di sonetti e pistolate

di Fabrizio Legger - 09/10/2009

   Le rivalità tra i poeti fioriscono anche all’ombra del Parnaso e le diatribe tra i dicitori di rime risalgono agli albori della poesia. Solitamente, chi scrive versi vuole primeggiare sugli altri, e difficilmente tollera rivali che possano oscurare il suo canto. Le storie letterarie sono piene di diatribe, contese, polemiche e bisticci tra poeti e scrittori rivali, e la letteratura italiana ovviamente non ne è esente (si pensi soltanto alle invettive tra Pietro Aretino e Niccolò Franco, oppure, alla tenzone epistolare tra Giosue Carducci e Mario Rapisardi, o, ancora, alla polemica tra Giovanni Papini e Julius Evola)Ma tra le contese più virulente della letteratura italiana, la più originale e divertente (ma anche quella che ebbe un finale assai drammatico) è senz’altro la polemica tra Giambattista Marino e Gaspare Murtola.Il Marino (1569-1625), napoletano, giunse nel febbraio del 1608 a Torino, come poeta già affermato. Era a servizio, in qualità di segretario, del cardinale Pietro Aldobrandini, e accompagnava il suo mecenate che si era recato nella città subalpina per partecipare alle nozze di una delle figlie del sovrano sabaudo Carlo Emanuele I.Alla corte di Carlo Emanuele (generoso mecenate e grande appassionato di poesia) il Marino si trovò subito a proprio agio: ebbe modo di conoscere illustri letterati, storici e scrittori come Lodovico Tesauro, Francesco Aurelio Braida e Giovanni Botero, e, al tempo stesso, di frequentare un ambiente cortigiano dove il fascino del poeta napoletano ebbe subito grande presa sulle dame di corte e sulle loro damigelle. Per ingraziarsi il sovrano sabaudo, il Marino compose e fece stampare, in quello stesso anno, il Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia, un poema elogiativo costituito da 238 sestine in cui venivano lodati in maniera sfacciata e stucchevole, il principe sabaudo, la sua famiglia e la gloriosa dinastia a cui apparteneva. Un’opera di encomio, adulatoria e cortigianesca, non particolarmente bella dal punto di vista poetico, ma che, come è facile intuire, fu molto apprezzata da Carlo Emanuele.Questo atto di sperticata adulazione cortigiana non andò affatto giù a Gaspare Murtola (1550-1624), poeta genovese che si trovava da parecchi anni alla corte di Torino e che aveva pubblicato un poema intitolato Della Creazione del Mondo, con cui aveva riscosso un discreto successo.Con l’arrivo del loquace poeta napoletano alla corte sabauda, la fama del Marino iniziò a crescere mentre quella del Murtola prese a scendere: come gran parte dei napoletani, Marino era spiritoso, gioviale, allegro, aveva sempre la rima pronta, era un grande adulatore, espansivo ed estroverso, e riusciva a incantare sia le dame che il duca.Fu così che il Murtola iniziò ad invidiare ferocemente il Marino, mostrando un astio, un disprezzo e un’avversione che il rivale gli corrispose subito punto per punto. Ben presto, la corte e i luoghi frequentati dai due poeti divennero teatro di un’aspra contesa che dapprima iniziò con sgarbi e dispetti legati alla buona creanza, poi, con motteggi, ingiurie, dileggi, fanfaronate e canzonature reciproche che, ben presto, oltre a far divertire tutta la corte, resero i due poeti rivali persino ridicoli.Ma il Murtola non era loquace ed espansivo come il Marino, ragion per cui non riusciva a tenergli testa: nel confronto verbale perdeva sempre, ci rimetteva la faccia e faceva la figura dello sprovveduto che non sapeva replicare colpo su colpo.Allora ebbe la malaugurata idea di affrontarlo sul campo della poesia: niente di più sbagliato, perché in questo campo il Marino era enormemente superiore al Murtola. Ma l’invidioso genovese era troppo tronfio e pieno di sé e si scatenò nella composizione e nella divulgazione di sonetti contro il Marino, che raccolse in un libro intitolato La Marineide.Invitato allo scontro su un terreno a lui così congeniale, il Marino non si fece certo pregare, e si mise a scrivere dozzine di sonetti che rifluirono poi in un volume dal titolo La Murtoleide.Insomma, è proprio il caso di dire che i due poeti si risposero per le rime, se ne dissero di tutti i colori, ingiuriandosi sonetto contro sonetto, in un crescendo vorticoso di versi, versacci e versucoli che, subito divulgati, facevano sbellicare dalle risa il duca Carlo Emanuele e la sua corte.Il Murtola bollò il Marino come un linguacciuto e uno “strombazzatore”, un “pitocco”, uno “scroccone” e un “sodomita”, mentre il napoletano disse, senza peli sulla lingua, che il Murtola era un “bue”, un “gaglioffo”, un incrocio tra “un porco ed un castrone”, nonché un “cornuto” che meritava l’impiccagione. E nella celebre Fischiata XXXIII della Murtoleide, il poeta napoletano scrisse quel verso rimasto famoso, che condensa in sé tutta l’essenza della poesia barocca del Seicento:                                È del poeta il fin la meraviglia:                               parlo de l’eccellente, non del goffo;                               chi non sa far stupir vada alla striglia.                               Io mai non leggo il cavolo e ‘l carcioffo,                               che non inarchi pur stupor le ciglia,                               com’esser possa un uom tanto gaglioffo. L’astiosa polemica andò avanti per circa un anno, poi, verso la fine del 1608, il Murtola, esasperato, rancoroso, insoddisfatto di come procedeva la diatriba con il poeta napoletano (che, sostanzialmente, finiva con il renderlo ridicolo agli occhi dello stesso duca), decise che, con un individuo come il Marino, bisognava mettere da parte i sonetti e passare alle maniere dure.Così, procuratosi una pistola, attese una notte il rivale in una via oscura del centro di Torino e, quando lo vide arrivare, gli sparò contro cinque colpi, con la chiara intenzione di ucciderlo: due di questi andarono a vuoto, uno sfiorò il Marino forandogli il mantello, altri due colpirono di striscio al costato, ferendolo, un certo Tommaso Braida, giovane poeta torinese che passeggiava a fianco del poeta napoletano.Così descrive il Marino, in una sua lettera del 15 febbraio 1609, il drammatico avvenimento che poteva costargli la vita:Piacesse a Dio che il Murtola di errare solamente con la penna e non con l’armi si fusse contentato! Imperoché gli errori ne’ quali egli scrivendo soleva incorrere non se non a lui stesso erano notevoli, ma questo che con lo scoppio ha commesso troppo ha di danno e di dolore recato altrui; quelli assai facilmente dalla diligenza de’ correttori si emendano, ma questo dalla medica mano più diligente cura richiede e con maggior malagevolezza si cancella; quelli in su la carta con l’inchiostro s’imprimono, ma questo nel fianco del misero Braida rimane indelebilmente stampato col vivo sangue. S’io mi stimassi uomo di qualche eminenza, crederei che il Murtola, accorgendosi di non poter vivere nella memoria del mondo, volesse immortalarsi con la mia morte e che, conoscendosi indegno della luce del sole, volesse rischiarar le sue tenebre con quelle del fuoco. Ovviamente, si recò subito dal Duca ad accusare il Murtola di aver tentato di ucciderlo. Ma Carlo Emanuele era ormai stufo di quella stucchevole polemica fatta di rivalità tanto meschine che si protraeva da troppo tempo.Approfittò perciò della situazione per congedare il Murtola e rispedirlo a Genova, allontanandolo dai domini sabaudi, nella certezza che, mandando via dal pollaio almeno uno dei due litigiosi galletti, la contesa si sarebbe appianata.La cacciata del Murtola da Torino fece schiumare di bile il poeta genovese, che però, sebbene a malincuore, fu costretto ad obbedire. Ma l’allontanamento del poetastro rivale dalla corte torinese non soddisfò il Marino, il quale, avendo il genovese tentato di ucciderlo, avrebbe voluto per il rivale una pena ben più grave, come la fustigazione o il carcere duro per parecchi anni. Ragion per cui, scontento, il poeta napoletano iniziò a bofonchiare e a mormorare alle spalle, a criticare il duca e a sindacare sul di lui modo di amministrare la giustizia, dicendo ai quattro venti che si considerava offeso e non soddisfatto, che il Murtola avrebbe potuto ucciderlo e che per questo suo gesto non era stato sufficientemente punito.E pare che poco a poco sfogasse questa sua rabbia non solo con le parole, ma anche con certe poesie, cosicché, nell’aprile del 1611, il Marino fu fatto arrestare e rinchiudere in carcere “sotto pretesto che abbia nelle sue poesie scherzato poco modestamente intorno alla persona del serenissimo padrone”, come scrisse il poeta stesso in una lettera che inviò al Duca di Mantova verso la fine di quello stesso mese.Fu scarcerato soltanto nel 1613. Poi, nel 1615, lasciò Torino (vi ripassò solo durante il viaggio verso la sua Napoli, nel 1623, fermandosi non più che un paio di settimane) e la corte sabauda, e si recò in Francia, presso la sua grande ammiratrice, la regina Maria de’ Medici, che gli aveva scritto di raggiungerla sin dal lontano 1609.A Parigi, il Marino terminò il suo capolavoro, L’Adone, un lungo poema mitologico in venti canti che gli procurò fama, onori e ricchezza, e che lo ha reso celebre come il maggiore poeta italiano del Seicento.Ma nell’ambito della sua copiosa attività poetica (oltre a L’Adone scrisse anche La Sampogna, La Galeria, Epitalami e Panegirici, le Rime, il poemetto La Strage degli Innocenti e le Dicerie Sacre), La Murtoleide resta sicuramente la sua opera satirica più bizzarra e originale, quella che lo rese noto nelle cronache letterarie dell’epoca per aver saputo azzittire e condurre all’ira omicida un poetucolo mediocre e insulso come il Murtola, il quale riteneva di poter motteggiare e deridere con il verso un poeta che, come il Marino, aveva fatto del verso e della poesia la sua stessa ragione di vita. Come ho scritto, il genovese ci rimise le corna, e, umiliato, decise di abbandonare la penna per impugnare la pistola, gesto assurdo che costò caro sia all’uno che all’altro, in quanto il Murtola fu bandito da Torino e il Marino finì in carcere.Ma oggi, il nome di Giambattista Marino è da tutti ricordato come quello del più famoso poeta italiano del Seicento, mentre quello del Murtola è caduto nel dimenticatoio della Storia e viene rispolverato soltanto quando si parla della sua ridicola e drammatica polemica con il poeta che ebbe per fin la meraviglia e che, con le sue arzigogolate metafore, strabiliò ed incantò l’esigente pubblico della sfarzosa epoca barocca.