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Lezione di poesia: lezione di bellezza, di amore e di vita

di Francesco Lamendola - 13/10/2009

 

Seduto nella grande sala di faccia alla finestra aperta sul giardino, il sole mi brilla negli occhi facendo capolino tra i rami frondosi del cedro, tra i rami che pendono come lunghe barbe di vecchio, oscillando lievemente nel vento.
A seconda dei movimenti dei rami, il disco del sole ora emerge interamente tra le foglie, ora si ritrae e si rimpicciolisce, velandosi e facendosi più tenue.
Una danza meravigliosa di raggi luminosi, dalle elegantissime parabole arcuate, si distacca da quella sorgente di perenne fulgore; una danza di sottilissimi raggi dorati che tuttavia, per un effetto dello sguardo che li fissa, mutano impercettibilmente in altri colori, nel verde, nell'arancio, rivelando al proprio interno come dei fasci, delle venature regolari e quasi geometriche: disegni di una bellezza superba e incomparabile, che paiono scaturiti da un'autentica magia.
Stagliandosi sullo sfondo quasi nero delle fronde, i raggi di luce che partono dal sole si fanno sempre più nitidi e perfetti, sempre più reali e tangibili: più reali delle cose pesanti e senza luce, degli oggetti che formano lo spettacolo ordinario del mondo.
È come se un immenso palcoscenico di luce si aprisse davanti allo sguardo e rivelasse alla coscienza abissi incommensurabili ove tutto è di una perfezione assoluta, come una musica armoniosa e ineffabile, discesa in terra da un'altra dimensione.
Mano a mano che il prodigio si conferma e si stabilizza nella retina, altri enti luminosi appaiono, per esempio dei dischi dorati che paiono ricamati in una tela finissima, aerea, dal disegno talmente elegante e raffinato, quale mai fu tessuto dalla mano di un essere umano.
In questa atmosfera fuori del tempo e dello spazio, tutto è luce e bellezza; tutto è pace e proporzione; tutto è esattamente come dev'essere.
Mi vengono alla mente i versi composti da una signora di ottantacinque anni, poverissima e malata, ormai completamente cieca.
Un tempo, quando ancora ci vedeva, componeva poesie; eccone due fra le tante, che lei ricorda a memoria e recita ancora con perfetta lucidità:

HO SETE DI AMORE

Ho sete di amore, di amore pulito
come l'acqua trasparente
che cade da un rivolo d'alta montagna.
Ho sete di calore umano,
come un tramonto che sembra un fuoco divino.
Ho sete di un sorriso innocente di bimba.
Ho sete di verità,
come l'alba di un azzurro mattino.
Ho sete di giustizia,
ma il mondo è pieno di egoismo e viltà.
Ho sete, ma la mia gioia è arida
come il sole di luglio che brucia la sabbia.


QUANTE NUBI CAMMINANO IN CIELO

Quante nubi camminano in cielo
sono nere e terribili
come un cuore vuoto di ogni sentimento.
Ma un giorno quel cuore
piangerà come la pioggia
che bagna i vetri delle finestre.

Povera, cara vecchia signora, che ha conosciuto tanti dolori nella vita, ma anche la gioia fugace dell'amore e della pienezza esistenziale.
La sua profonda sensibilità, il suo inestinguibile desiderio di luce e di armonia erompono da ogni singolo verso dei suoi componimenti, che nessun critico letterario leggerà mai, che nessuna giuria giudicherà degni di un premio: perché i tesori di bellezza e di conoscenza di una vecchia signora cieca, che sopravvive con pochi soldi di pensione, resteranno per sempre ignoti al mondo indifferente, pronto a genuflettersi davanti agli stupidi romanzi di qualche furbo scrittore o scrittrice  alla moda, con un certo fiuto per il mercato e con una grossa casa editrice alle spalle, che provvederà a farli distribuire con capillare efficienza, fin nell'ultima libreria di paese.

*   *   *
Ora il sole è tramontato e, nel cielo azzurro di una giornata d'ottobre straordinariamente bella, veleggiano decine e decine di nubi, tutte allineate nella stessa direzione, come eleganti galeoni che hanno salpato le ancore verso mari inesplorati.
È uno spettacolo ordinario, e tuttavia superbo, che - probabilmente - una persona su mille o diecimila si fermerà a contemplare, alzando la fronte dalle faccende quotidiane nelle quali viviamo immersi a testa bassa.
Sembrano nuvole prestate dalla tela di un pittore un po' naïf: scure scure al centro, di un grigio quasi nero; e chiare ai bordi: di una tinta panna che, mano a mano che l'orizzonte comincia ad incupirsi, assume una tonalità sempre più vicina al rosa vivo.
E tutti questi vascelli, tutti questi galeoni che si accendono dei colori incandescenti del tramonto, paiono dirigersi, ad un unico segnale, verso un medesimo punto dell'orizzonte, là dove l'azzurro dell'aria sfuma insensibilmente nei colori sontuosi e incomparabili del verde e dell'arancio; come se sfilassero ad un appuntamento prestabilito.
È un colpo d'occhio di una solennità straordinaria, e, al tempo stesso, di una semplicità quasi disarmante: come una fanciulla bellissima, ma modesta e riservata, che non fa nulla per attirare l'attenzione e che, tuttavia, non può tenere celata la propria grazia impareggiabile.
E tuttavia bisogna saperla cogliere, quella grazia soave e pudica: non è cosa da tutti; non è cosa per animi volgari e grossolani, immersi nelle cose materiali.
Ci vuole quel pizzico di follia che induce a porsi davanti al mondo non con l'atteggiamento superbo e calcolatore della ragione strumentale, ma con l'apertura coscienziale che accoglie tutto, che è grata di tutto, che sa vedere il bello anche nelle cose ordinarie.
Ci vuole un po' di quella nobile e savia follia che fa dire a Don Chisciotte, alla Duchessa che gli riporta la voce secondo cui la bellissima Dulcinea del Toboso non sarebbe un personaggio realmente esistente (cap. XXXXII della Seconda Parte; traduzione italiana di Ferdinando Carlesi, Milano, Mondadori, 1950, vol. II, p. 257):

Lo sa Iddio se esiste o non esiste nel mondo una Dulcinea e se è immaginaria o no; queste non son cose che debbono essere appurate fino in fondo. Io non ho né generato, né creato lamia dama, quantunque la contempli quale conviene che sia una donna che contenga in sé tali doti da renderla famosa in tutte le parti del mondo, vale a dire bella senza macchia, contegnosa senza superbia, innamorata con onesto riserbo, riconoscente per cortesia, cortese per educazione e finalmente nobile pe lignaggio; perché sopra il buon sangue risplende e campeggia la bellezza con più gradi di perfezione che nelle belle d'umile origine.»

Lo sa Iddio se esiste o non esiste….
Sono parole molto più sagge e molto più profonde di quelle che ci si potrebbe aspettare sulle labbra di un pazzo, quale era tenuto da tutti, al suo paese, il valoroso ma sfortunato hidalgo Don Chisciotte della Mancia, cavaliere errante per elezione e per bisogno insopprimibile della sua anima assetata di verità, di bellezza e di assoluto.
Non è cosa che possa interessare più di tanto, dal punto di vista poetico, sapere se la Beatrice di Dante o la Laura di Petrarca sono realmente esistite; l'importante, è avere un cuore capace di concepire la purezza, ed occhi capaci di riconoscere la vera bellezza.

*   *   *
Lasciamo agli animi materiali, lasciamo ai Sancio Panza la trista abitudine di domandare sempre se Dulcinea del Toboso è una persona reale, oppure no; lasciamoli porsi davanti all'incanto del mondo con la squadra ed il compasso, per misurare, soppesare, quantificare ogni cosa, per mettere una etichetta sopra ogni cosa, per classificare, catalogare, spiegare ogni cosa.
Noi non li invidiamo di certo.
E lasciamo ai pecoroni del gregge senza nome di buttarsi a capofitto sugli ultimi libri della lista dei più venduti, solo perché così fan tutti; di applaudire scrittori che non hanno nulla da dire, poeti che non sanno cosa sia l'incanto del mondo.
Faremmo bene, invece, ad imparare da quella signora di ottantacinque anni: povera, sola, cieca; ma ancora capace di stupirsi davanti allo splendore del mondo, ancora capace di palpitare di nostalgia per l'amore che fugge e per la bellezza che dilegua; ma anche si protendersi, con inesausta fede, verso quella pienezza esistenziale che la sua anima ardentemente invoca.

«Ho sete, ma la mia gioia è arida
come il sole di luglio che brucia la sabbia.»

Grande è una persona che prova i tormenti di una tale sete e li sa esprimere con sì disarmante, con sì crudele sincerità: specialmente se si tratta di una persona anziana e malata, abbandonata da tutti.
È grande perché sa guardarsi dentro e perché sa quel che le manca: e chiama le cose con il loro nome; la sete dell'anima non è meno tremenda della sete del corpo, quando il sole spietato dell'estate arroventa la sabbia in riva al mare.
Il poeta è colui che sa guardasi dentro e riconoscersi; e che vi trova un tesoro inesauribile di bellezza, di amore e di vita.
Come disse, ancora, il nostro amico Don Chisciotte al suo scudiero Sancio, allorché gli diede le ultime istruzioni per svolgere degnamente il suo futuro incarico di governatore di un'isola (cap. XLII della Seconda Parte; ed. cit., vol. II, p. 323):

«Anzitutto, figliuolo mio, deve essere tua norma costante il timore di Dio, perché nel tenere Iddio consiste la somma della saggezza umana, e chi è saggio, non potrà mai commettere nessun errore.
In secondo luogo devi tenere costantemente gli occhi su te stesso, cercando di conoscerti bene, perché il conoscere se stesso è la più difficile conoscenza che possa immaginarsi…»

Conosci te stesso: sono le parole dell'oracolo di Delfi; sono le parole di Socrate.
In fondo all'anima umana c'è un immenso bisogno di amore, di bellezza, di verità; nulla è più turpe di un'anima umana inaridita, ove si siano spente le sorgenti di tale desiderio.
Come ha scritto la nostra amica ottantacinquenne, ma ancora giovane e bella dentro:

«Quante nubi camminano in cielo
sono nere e terribili
come un cuore vuoto di ogni sentimento.»